Gianni Perrelli L’espresso, 02/09/2004, 2 settembre 2004
Scacco a Bobby Fischer, uno a cui piace «mandare in pezzi l’ego degli avversari», L’espresso, 02/09/2004 Dopo 12 anni di fuga ininterrotta, alla fine gli hanno messo il sale sulla coda
Scacco a Bobby Fischer, uno a cui piace «mandare in pezzi l’ego degli avversari», L’espresso, 02/09/2004 Dopo 12 anni di fuga ininterrotta, alla fine gli hanno messo il sale sulla coda. Robert James Fischer detto Bobby, un eroe Usa della guerra fredda, forse il più grande giocatore di scacchi mai esistito, il soggetto di un discreto numero di libri e persino di un film, certamente un personaggio strano, imprevedibile e controverso, ha ricevuto in un carcere giapponese l’ordine di estradizione negli Stati Uniti, dopo che il 13 luglio scorso era stato arrestato all’aeroporto di Tokyo perché in possesso di un passaporto americano scaduto, sbattuto nella cella 4B nei sotterranei dello stesso aeroporto Narita e quindi trasferito nella prigione di Ushiku. Infatti, nel dicembre del 2003, probabilmente a sua insaputa, considerata la difficoltà di notificare alcunché a uno che non ha mai veramente avuto una fissa dimora, gli era stato invalidato il passaporto dal governo Usa. Così quando il 13 luglio, in partenza per le Filippine, Bobby si è presentato alla dogana giapponese, il risultato è stato uno solo: prigione. Sembra un agguato ben congegnato. In realtà è una conseguenza logica della lotta caparbia che Bobby ha ingaggiato con gli Usa. E viceversa. Una partita iniziata nel 1992, quando Bobby, dopo quasi vent’anni di misteriosa assenza dalla scena scacchistica mondiale, accettò per 3,8 milioni di dollari di giocare un match di rivincita con il russo Boris Spassky, partita da tenersi a Belgrado e sull’isola di Sveti Stefan, nella Jugoslavia allora dilaniata dalla guerra civile. Quel paese era stato sottoposto a embargo votato dall’Onu, così il governo americano gli inviò una lettera molto chiara in cui gli si ordinava di «cease and desist», insomma di non pensarci nemmeno a recarsi in Jugoslavia, pena l’arresto e un processo al termine del quale gli avrebbero potuto comminare dieci anni di prigione. Ma Bobby, che non è mai stato tipo da accettare ordini o imposizioni, partì incurante della minaccia e durante la conferenza stampa, quando gli chiesero se fosse preoccupato del divieto, estrasse da una ventiquattrore di pelle marrone la lettera del governo, la sventolò mostrandola agli astanti, tirò su col naso e quindi sputò sul foglio. Poi lo ripiegò, il foglio, e se lo mise in tasca dicendo che quella era la sua risposta a chi voleva impedirgli di giocare a scacchi. Disse anche altre cose: che aveva evaso le tasse fin dal 1976 e certo non avrebbe iniziato a pagarle ora; che i grandi scacchisti russi avevano distrutto il gioco attraverso partite truccate; che lui era pro arabo ma non antisemita solo perché anche gli arabi sono semiti; che il comunismo sovietico era la maschera dei giudaismo. Bobby gioco e vinse l’incontro, ma da allora non è più ritornato in patria, vagando tra le Filippine (dove vivono la sua ragazza di 23 anni e sua figlia, nata nel 2000), la Svizzera (dove ha un conto corrente bancario), l’Ungheria e l’Islanda (dove ha partecipato a un programma radiofonico per lanciare intemerate anti-ebraiche e anti-americane) e la Germania (secondo Bobby la sua vera patria), inseguito da un mandato di cattura spiccato negli Usa. Dopo l’arresto il ”Los Angeles Times” ha scritto che «per 12 anni è stato sempre in giro, difficile da trovare», ma Fischer in questo periodo ha rilasciato 21 interviste radio, ha gestito il suo sito internet (http:// home.att.ne.jp/moon/fischer/) e nel 1997, quattro anni dopo il mandato di cattura, ha chiesto e ottenuto dall’ambasciata Usa in Svizzera un nuovo passaporto. Inoltre ha vissuto sempre in paesi con i quali gli Usa hanno trattati di estradizione. Insomma, non era così difficile mettergli le manette: perché proprio adesso, dopo 12 anni? Alcuni sostengono che l’improvviso cambio di rotta della giustizia americana sia dovuto alle ultime dichiarazioni incendiarie rilasciate, nelle quali Bobby esaltava gli attentati dell’11 settembre, esortava tutti i paesi a interrompere le relazioni diplomatiche con gli Usa, chiamava Bush «ritardato mentale», auspicava la chiusura di tutte le sinagoghe e l’uccisione degli ebrei e si augurava la totale distruzione degli Usa in modo che fossero abitati dagli unici aventi diritto, cioè gli indiani d’America. E chiudeva le interviste con il grido: «Morte agli Usa!». Dichiarazioni sorprendenti solo per chi non conosce la tormentata vita di quest’uomo affetto da sindromi paranoiche (che a qualcuno ricorda quella del vincitore del premio Nobel, John Forbes Nash jr., il matematico schizofrenico che ha ispirato il film A Beautiful Mind). Basta andare nel sito di Fischer per scoprire che lui si dichiara «un perseguitato del giudaismo mondiale», costretto a vivere in esilio dal governo Usa che «è una dittatura brutale». Fischer sostiene anche di essere stato derubato di una immensa fortuna in diritti dagli editori, dagli studi cinematografici e dai fabbricanti di orologi che si sono appropriati senza ritegno del suo nome, dei suoi brevetti e dei suoi diritti. Lo scacchista prosegue con esternazioni razziste, del tipo: «Gli ebrei sono bastardi, infidi e bugiardi che dominano il mondo per mezzo di invenzioni come l’Olocausto, l’assassinio di massa di bambini cristiani (il cui sangue è usato per rituali di magia nera) e cibo drogato come i Dunkin’Donuts». Altri obiettivi dei deliri di Fischer sono lo scacchista Garry Kasparov («Burattino e spia del Kgb che ha giocato solo partite truccate»), l’ex amico Rob Ellsworth («Bugiardo ebreo e ladro, criminale giudeo senza cuore») e Bill Clinton («Ebreo segreto»). I rancori di Fischer sono dovuti a una vita non facile dal punto di vista psicologico, umano ed economico. Nato il 9 marzo del 1943 a Chicago da Regina Wender, un’infermiera di origini ebraiche, e dal medico comunista tedesco, membro del Comintern, Gerhardt Fischer (ma vi sono molti elementi che indicano nel celebre matematico ebreo ungherese Paul Felix Nemenyi il padre biologico), i suoi genitori si separarono due anni dopo la sua nascita. Lei, cittadina americana, attivista di sinistra, aveva vissuto nell’Unione Sovietica, dove sposò Fischer, dal 1933 al 1938. Poi entrambi emigrarono negli Stati Uniti. Per questi motivi sia l’Fbi che la Cia tennero sempre sotto controllo Regina, sospettandola di essere una spia sovietica. Dopo il divorzio, il bambino crebbe con la madre e la sorella maggiore tra difficoltà economiche non piccole: «Non ho mai conosciuto mio padre. I bambini che crescono senza un genitore diventano dei lupi», dirà molti anni dopo. All’età di sei anni si trasferì con la famiglia a New York e in questo periodo Bobby, bambino taciturno e introverso, imparò da solo a giocare a scacchi, leggendo un foglio di istruzioni contenuto in una scacchiera acquistata dalla sorella Joan. La madre gli trovò un maestro, Carmine Nigro, presidente del Brooklyn Chess Club. Nel 1955 Fischer s’iscrisse al prestigioso Manhattan Chess Club e quindi al Hawthorne Chess Club, dove incontrò il maestro paralitico Jack Collins che gli insegnò le sottigliezze del gioco. Nel 1956 vinse il Campionato juniores Usa, il più giovane giocatore ad aver mai vinto questo titolo. Era il dominatore di ogni torneo a cui partecipava. Ciò che meravigliava non era solo il fatto che questo allampanato ragazzino di 13 anni in jeans e maglietta vincesse tutte le partite. Era il modo in cui vinceva, umiliando gli avversari. La cosa che più gli procurava piacere era osservare il suo avversario crollare psicologicamente. «Mi piace il momento in cui mando in pezzi l’ego di un uomo», dirà in un intervista. Nel 1957 sua madre scrisse personalmente a Kruscev chiedendo un invito ufficiale per il figliolo in Unione Sovietica e la richiesta fu accettata. Tuttavia la visita si rivelò un disastro: non per l’ospitalità dei sovietici (gli fornirono una stanza di lusso, auto, autista e interprete), ma perché il terribile ragazzino voleva solo giocare a scacchi con i grandi maestri. Vista l’impossibilìtà pratica di essere accontentato, cominciò a chiamare i russi «manica di porci», finché il governo sovietico non lo pregò di andarsene. Tornato in patria, nel 1958 vinse il campionato americano (prima di otto volte, record ancora imbattuto). A 15 anni era il più giovane Grande Maestro della storia e iniziò il lungo torneo internazionale che designava lo sfidante al campione del mondo in carica. Nella prima fase si qualificò senza troppa fatica, ma nel turno successivo si ritrovò di fronte ai leoni sovietici (Tal, Keres, Smyslov e Petrosjan) che lo superarono, provocandogli isteriche crisi di pianto. Considerata la sua età, il risultato era comunque strabiliante, ma Bobby non poteva accettare né sopportare questi colpi al suo ego. Era convinto che i giocatori sovietici facessero combine contro di lui. Ferito, concepì un piano di vendetta. Lasciò la scuola per dedicarsi unicamente agli scacchi che studiava maniacalmente per oltre 14 ore al giorno. Era dotato di una memoria prodigiosa, che col tempo divenne addirittura leggendaria: ricordava per sempre le mosse e le varianti di ogni singola partita da lui giocata ed era in grado di ripetere perfettamente a memoria interi discorsi in lingue sconosciute semplicemente ricordando i suoni delle parole. Imparò il russo per poter leggere le riviste e i libri di scacchi pubblicati in Urss; potendo ormai mantenersi da solo con i premi in denaro, cacciò di casa la madre e la sorella per non essere disturbato. La casa familiare divenne ingombra di riviste e libri di scacchi nonché scacchiere, sparse in ogni stanza. Decise di abbandonare i jeans e le magliette per abiti fatti su misura. Intervistato, confidò che il suo sogno era «giocare a scacchi, sempre», diventare ricco con il gioco, possedere una Rolls-Royce, uno yacht, un jet privato e una casa a Beverly Hills o Hong Kong, «costruita esattamente come una torre». Con il successo Fischer divenne sempre più esigente e intrattabile. In pochissimo tempo riuscì a offendere e inimicarsi praticamente tutto l’ambiente scacchistico americano, giornalisti e sponsor inclusi. Minacciava di ritirarsi a ogni torneo a meno che non fossero alzati i premi in denaro. Si lamentava continuamente del rumore in sala e del livello delle luci. Era la bestia nera di ogni organizzatore. Nel 1966, vinto nuovamente il campionato Usa, acquisì il diritto di partecipare agli internazionali. Passò subito in testa, giocando in modo eccelso, ma al 12° turno, dopo un tira e molla estenuante, si ritirò dal torneo, infuriato con gli organizzatori per la presenza dei fotografi, per il rumore, per le luci, per la posizione della scacchiera e per il calendario che, secondo lui, lo costringeva a giocare diverse partite di seguito senza riposo. Dopo due anni di inattività Bobby portò al 4° posto gli Usa nelle XIX Olimpiadi scacchistiche e vinse l’internazionale del 1970, conquistando il diritto di giocare i quarti di finale a Vancouver contro il fortissimo russo Tajmanov, sul quale i sovietici riponevano ogni speranza di fermare il giovane americano. Il russo fu letteralmente distrutto: dopo tre sconfitte senza appello, al termine della quarta partita, persa anch’essa, Tajmanov si sentì male e dovettero portarlo via in ambulanza. Sconfitto anche l’ex campione del mondo Tigran Petrosjan, Fischer acquisì finalmente il diritto di giocare per il titolo mondiale detenuto da Boris Spassky: aveva raggiunto il momento per il quale si sentiva predestinato fin da bambino. Nel 1972, in piena guerra fredda, lo scontro tra l’americano individualista e autodidatta e il blocco sovietico, granitico e organizzato anche nel gioco, suscitò interesse anche tra coloro che ignoravano gli scacchi. Per la finale fu scelta Reykjavik, in Islanda. Non fu facile organizzare il match. Fino all’ultimo non si era sicuri nemmeno che Bobby sarebbe venuto. La diffidenza quasi paranoica di Fischer nei confronti dei sovietici (paventava l’avvelenamento, l’ipnosi e finanche il rapimento) si traduceva in minuziose richieste riguardo il cibo, l’alloggio, la sala di gioco. Nella partita iniziale, forse per la prima volta nella sua carriera, Bobby commise una sciocchezza e perse rapidamente. Nella seconda non si presentò, poiché gli organizzatori non avevano ottemperato alla richiesta di allontanare fotografi e cineprese, perdendo per forfait. La terza, venendo incontro alle richieste di Fischer, fu giocata in uno sgabuzzino. Al termine il russo era ridotto alle dimensioni di un legume bollito. I sovietici accusarono Fischer di ricorrere a non meglio identificati strumenti elettronici o altri mezzi scorretti in grado di modificare la percezione intellettuale del loro campione. Chiesero e ottennero che la sala di gioco fosse passata al setaccio, che la poltrona di Fischer venisse sottoposta ai raggi X e prelevarono persino un campione di aria dalla sede del match perché fosse analizzata a Mosca. Ma fu tutto vano, Bobby vinse l’incontro per 12,5 a 8,5 e divenne il nuovo campione del mondo di scacchi. Alla cerimonia di premiazione si presentò con un completo di velluto rosa e, dopo aver controllato con attenzione l’assegno del premio in denaro, si risedette al suo posto, dove si mise a studiare varianti sulla sua scacchiera portatile, completamente estraniato. La vittoria lo rese famoso. L’America era impazzita per lui, ma lui disdegnò ogni onore. Alla cerimonia di bentornato il sindaco di New York gli offrì le chiavi della città che lui rifiutò: «Vivo qui da una vita, a che cavolo mi servono le chiavi?». La vittoria però fu anche la fine dell’attività scacchistica ufficiale di Fischer. Incapace di trovare un accordo con la Federazione per disputare il match per il titolo con il nuovo sfidante Anatoly Karpov, nel 1976 fu dichiarato decaduto e Karpov nominato nuovo campione mondiale. Fischer, sdegnato, sparì dalla scena scacchistica mondiale, inseguito da offerte milionarie per giocare anche solo match dimostrativi, offerte tutte rifiutate per paura di imprecisate «trappole». Per vent’anni non si fece quasi vedere. Si trasferì a Los Angeles e si iscrisse a una setta cristiana apocalittica alla quale versava il 30 per cento dei suoi guadagni in cambio di protezione e ospitalità. Poi litigò anche con gli ”apocalittici” perché «prendeva ordini da una organizzazione satanica mondiale». In California cominciò a interessarsi al nazismo, studiando il Mein Kampf e i Protocolli dei saggi di Sion collezionando paccottiglia nazista, vestendo come un vagabondo, dormendo in alberghetti di second’ordine, scassinando parchimetri per procurarsi spiccioli, cibandosi di misture d’erbe e vitamine per non contaminare i suoi fluidi vitali. Giunse a farsi togliere il ponte odontoiatrico per paura che «i comunisti» potessero utilizzarlo inserendo meccanismi elettronici in grado di stordirlo. Nel maggio del 1981, a causa dell’aspetto trasandato, fu fermato dalla polizia e, dato che si rifiutava di declinare le proprie generalità, fu sbattuto nella prigione di Pasadena per due giorni. Ne trasse ispirazione per un libello intitolato: Sono stato torturato nella prigione di Pasadena!, in cui con toni un po’ deliranti parlava di violenze e percosse. Appena vedeva un giornalista fuggiva terrorizzato e giunse ad assumere una nuova identità per meglio nascondersi. Ma era a corto di denaro. E quando arrivò l’offerta da parte di un trafficante d’armi slavo di giocare un match contro il vecchio avversario Spassky per una cifra spropositata, accettò subito. Così fu organizzato il match del 1992 che gli è costato quest’ultimo arresto. Dopo quell’incontro, Bobby abbandonò definitivamente gli scacchi ortodossi accettando di giocare solo con gli ”Scacchi Fischer” da lui inventati, in cui i pezzi sulla prima traversa sono sistemati a caso. Ora che è in trappola, i suoi pochissimi amici, tra i quali proprio il suo vecchio avversario Boris Spassky, lo descrivono come una persona gentile e timida, capace di attenzione e dolcezza, un eterno fanciullo totalmente innocuo nonostante gli scatti rabbiosi, impreparato ad affrontare un mondo che percepisce come furbo e cattivo. Spassky ha pure cercato, invano, di salvarlo con un appello al presidente americano George Bush. Ha scritto: «Non voglio difendere o giustificare Bobby Fischer, una tragica personalità. è quello che è. Chiedo solo una cosa: pietà e perdono. Anch’io ho violato le sanzioni contro la ex Jugoslavia. Arresti anche me. E mi metta in cella con Fischer. Ma, di grazia, con una scacchiera tra noi». Niente da fare. E a poco è valsa la mossa a sorpresa della presidentessa della Federazione scacchistica giapponese, Myoko Watai, che ha dichiarato di voler sposare Bobby per fargli ottenere la cittadinanza giapponese. Come pure l’iniziativa del faccendiere in cerca di pubblicità John Bosnitch, che ha creato il comitato Liberate Bobby Fischer. D’altronde, né la rinuncia di Fischer alla cittadinanza americana né la recente offerta di asilo politico da parte del presidente del Montenegro possono farlo uscire di prigione. Il re è sotto scacco. Gianni Perrelli