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 2004  agosto 26 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 30 AGOSTO 2004

Il vero protagonista dei Giochi di Atene è il doping.
Ieri è finita la ventottesima Olimpiade moderna. E gli spettatori di tutto il mondo si chiedono quali sono state le medaglie vere e quali quelle taroccate. Emanuela Audisio: «Ti alleni come una bestia per arrivare alla medaglia, per farti guardare in faccia dal mondo. E per guardare tu: il pubblico allo stadio, la tua bandiera che sale, tua mamma a casa davanti alla tv. Te lo sei meritato. Invece sul podio spesso ci salgono gli altri. I drogati. Quelli che appena scendono da lì, vengono trovati positivi. Ma intanto si sono beccati la premiazione, la zoomata della tv sulle lacrime, gli applausi. Tu sei quarto, niente premiazione. Poi qualcuno dei tre che ti hanno preceduto viene fermato dalle analisi, tu sei medaglia. Vorresti allora gli stessi applausi: perché a loro sì e a te no? E la stessa cerimonia: allo stadio, con l’inno, con i fotografi. Te li sei meritati. Sei pulito, sei una medaglia olimpica. Invece ti premiano quasi di nascosto come se il ladro fossi tu: ci scusi, questa è sua, è ancora incartata, complimenti». [1]

Quanti falsi eroi meriterebbero di essere cancellati dalle Olimpiadi? Giorgio Tosatti: «Di quanti abbiamo cantato le imprese? Quante emozioni, aggettivi, elogi, sentimenti sprecati per fenomeni fasulli, cavie trasformate in Frankenstein? Quante di queste son state uccise da chi ha sperimentato su di loro sostanze di ogni genere, indifferenti alle conseguenze, condannandole a morte precoce? [...] Siamo in credito di molti slanci, di molta buonafede tradita. Non è piacevole scoprirsi manipolati, non possiamo riprenderci gli articoli scritti, le emozioni trasmesse, le menzogne legittimate. Non possiamo abbattere i monumenti di carta eretti a dei bari». [2]

Una vicenda esemplare: i Giochi tornano romanticamente a Olimpia e vince una dopata. Corrado Sannucci: «Irina Korzhanenko, russa, 30 anni, è stata trovata positiva al test antidoping eseguito il 18 agosto dopo la sua vittoria nel lancio del peso. Erano state spese tante parole sulla prima donna che vinceva nel luogo di origine dei Giochi, nell’antichità riservati solo agli uomini: era tutta una truffa. ”Questo pomeriggio gli dei mi hanno aiutata” aveva dichiarato alla fine, possiamo dire adesso anche con una bella faccia tosta. Più semplicemente, ad aiutarla era stato il vecchio stanozolol, l’anabolizzante che fu la fortuna e poi la rovina di Ben Johnson». [3]

Il doping è sempre esistito. La prima vittima olimpica fu il maratoneta inglese Tom Hicks, stroncato da un cocktail di cognac e stricnina a Saint Louis nel 1904. Nel 1960 a Roma morì per collasso il ciclista danese Enemark Knud Jensen, overdose di anfetamina (sulle prime, per attutire lo scandalo, fu incolpato il caldo torrido). Il pentathleta svedese Liljnvall fu nel 1968 il primo squalificato (un test respiratorio accertò la presenza di alcool). Negli anni ’70 i paesi dell’Est inventarono il doping di Stato, nel decennio successivo ci fu il passaggio dagli anabolizzanti agli ormoni. Lo scandalo più grosso nel 1988 alle Olimpiadi di Seul: Ben Johnson che deve restituire la medaglia vinta nei 100 metri. Negli anni ’90 arriva l’Epo, poi l’ormone della crescita e gli steroidi. L’ultimo ritrovato è il Thg, sintetizzato a San Francisco, nei laboratori Balco, quello che ha messo fuori gioco per le Olimpiadi di Atene il velocista Usa Tim Montgomery, recordman del mondo nei 100 metri, e la sua compagna Marion Jones (che ha gareggiato in lungo e staffetta ma senza gloria). [4]

Il doping e lo sport sono nati insieme. Piero Mei e Carlo Santi: «Ma almeno questi Giochi manifestano una certezza, che poche cose saranno nascoste; non come accadeva a Los Angeles, dove la percentuale di asmatici dichiarati, per giustificare l’assunzione di sostanze favorenti l’ossigenazione, era da intervento dell’Organizzazione mondiale della sanità, peggio della mucca pazza o della Sars». [5] Tosatti: «Dopo decenni di silenzi e complicità, la battaglia sembra procedere in modo serio. Si è deciso, per esempio, di congelare i prelievi e tenerli a disposizione. Se a distanza di qualche tempo si scopre un nuovo metodo per identificare certe sostanze dopanti, viene esaminata una parte del prelievo congelato. E chi l’aveva fatta franca si vedrà togliere titolo e medaglie». [2]

La medaglia d’oro delle Olimpiadi pulite l’ha vinta un supersceriffo. Gianni Perrelli: «Dick Pound, l’avvocato canadese di 61 anni che dirige la Wada (l’Agenzia mondiale antidoping). stato lui, dopo decenni di tiepida lotta, a imporre ai signori degli anelli la tolleranza zero. lui che alla vigilia dei Giochi ha preteso i controlli a sorpresa sui campioni, anche fuori dalle gare e che, per evitare favoritismi, ha chiesto pure gli indirizzi privati degli atleti greci per poterli braccare perfino fra le pareti domestiche». [6]

Pound sa che la sua vittoria non sarà mai completa. Perrelli: «Troppo esposta a tentazioni la psicologia degli atleti anche già incoronati. Troppo radicata la suggestione dell’imbroglio, dell’aiuto artificiale che dà maggior risalto al talento. E troppo complice e veloce la sperimentazione scientifica: per ogni sostanza smascherata, se ne affaccia simultaneamente un’altra più potente, subdola e pericolosa sul mercato dei veleni che aprono corsie privilegiate verso la gloria. Ma un chiaro, sia pur parziale, successo Pound l’ha conseguito. I bari sanno di avere oggi una vita più difficile». [6]

Sul fattore doping pesa la nuova durissima pax americana. Mario Sconcerti: «Gli Stati Uniti hanno accettato a bocca storta di farsi decimare i loro campioni dalle scorribande devastanti dei controlli alle qualificazioni californiane. Lo sport americano ha accettato di diventare un caso nazionale e internazionale, si è scosso, ha cercato nuovi campioni nell’infinito gregge di cui dispone, poi ha chiesto tolleranza zero al Cio nei confronti di tutti. Questa rinnovata serietà viene anche interpretata come la fine di un patto. Chissà, forse qualcosa si era disposti a non vedere, a tollerare, prima. Dopo i fatti californiani, no». [7]

Le nuove sfide appaiono tremende. Perrelli: «Il grande incubo all’orizzonte è quello della manipolazione genetica. Tramite virus prodotti in laboratorio e poi inseriti nell’organismo per provocare un’alterazione cellulare. L’allarme è stato lanciato da Lee Sweney, docente di fisiologia e di medicina all’Università di Pennsylvania, che dopo i riusciti esperimenti sul potenziamento muscolare dei topi è stato subissato di offerte per trasferire i suoi studi sull’uomo». [6]

In un laboratorio nascosto chissà dove alcuni scienziati senza scrupoli ci sono già riusciti. Giacomo Amadori: «Hanno preso il dna di un aspirante campione e lo hanno modificato. Hanno isolato i geni che attivano la produzione degli ormoni incaricati di far crescere i muscoli, le ossa, di aumentare i globuli rossi nel sangue. Poi hanno iniettato un virus con il ”codice delle meraviglie” nell’atleta, per introdurlo nelle cellule. Risultato: il corpo ha iniziato a produrre cascate di ormoni. Senza sapere quando smettere. Ma quello è un particolare per loro ”irrilevante”, la soluzione si troverà. Ecco l’ultima frontiera dello sport gonfiato e truffaldino, quello del doping genetico, già annunciato per i prossimi giochi di Pechino». [8]

Il doping genetico, per ora, non ha contromisure. Ma anche quello ”tradizionale” viene scovato difficilmente. Amadori: «La fantasia degli stregoni del doping è assai vivace. Ma a volte non deve essere neppure stimolata. Infatti alcuni prodotti vietati, tra i più popolari, sono praticamente introvabili. Esemplari i casi dell’ormone della crescita o Gh, che ingrossa muscoli e ossa, e del suo derivato, l’Igf-1, sintetizzato nel fegato. assai difficile capire se a produrli sia stato il corpo dell’atleta o siano un regalino che arriva da fuori. Anche perché chi fa i controlli ha poche decine di minuti per trovarli ”liberi” nel sangue, dopo che sono stati iniettati in vena. Nei muscoli restano in ballo alcune ore in più. Addirittura introvabile il pieno di insulina, un ormone che trasforma i carboidrati in glicogeno, un carburante super per i muscoli, con uno speciale effetto anabolizzante». [8]

Se il doping corre, l’antidoping non sta fermo. Valerio Piccioni: «Le ultime edizioni delle Olimpiadi erano state caratterizzate da una sensazione di generale impotenza: quelli (del doping) scappano, noi (dell’antidoping) ci accontentiamo delle briciole. Qualcosa è cambiato: l’avvento della Wada, [...] è stato accettato dal Cio con uno spirito diverso. C’è meno gelosia, più collaborazione, magari anche una competizione tra le due istituzioni, che, marcandosi a vicenda, devono tenere il punto della severità con maggiore convinzione. [...] I Giochi erano stati preceduti da una serie di parole esultanti sulla predisposizione di nuovi sistemi di controllo. Primo fra tutti quel famoso Gh, l’ormone della crescita, fino a ieri invisibile per gli esami antidoping. Ma in realtà, il quadro delle positività risponde a un vecchio schema. E i numeri non presentano un boom di casi [...]». [9]

La vera novità è la lotta alle fughe o agli imbrogli prima del controllo. Piccioni: «Il caso del discobolo Robert Fazekas è esemplare. L’ispettore della Wada è piombato nel locale del controllo grazie a una soffiata che riferiva di un ”presidio”, questa è l’espressione usata per descrivere la ”sacca” che avrebbe utilizzato l’ungherese per tentare di frodare il controllo con una pipì che non era la sua. Questo genere di diavolerie sarebbe stato acquistato via internet grazie a un sito ungherese. L’antidoping sta dunque ricorrendo a una sorta di suo servizio segreto interno». [9]

L’iperattivismo della Wada crea anche qualche confusione. Amadori: «Sbianchetta in continuazione la lista dei prodotti dopanti (molti dei quali sconosciuti e catalogati con la formula ”affini”). Un giorno c’è la caffeina, un giorno no (ad Atene no), un giorno c’è la xilocaina (un anestetico locale), l’altro no (ad Atene no). [...] Inoltre, nel listone non sono mai entrati alcuni cardiotonici e altre sostanze stimolanti come la teofillina contenuta nel tè e nel cacao. Stessa sorte è toccata al bicarbonato di sodio che non combatte solo l’acidità di stomaco, ma anche quella muscolare. Persino l’aspirina potrebbe essere una droga. Uno studio sudafricano afferma che gli antinfiammatori non steroidei ridurrebbero la presenza nell’organismo di una molecola che trasmette il senso di stanchezza al cervello. Sarà questo il segreto dei nuovi dominatori del nuoto, gli ”squali” di Città del Capo?». [8]

A questo punto v’aspettate una filippica contro l’ipocrisia sportiva, il tramonto dei valori olimpici, eccetera. Beppe Severgnini: «Si può fare, se ci tenete. In fondo, il disgusto è un modo di reagire a certe storie. Gli altri sono il sarcasmo, il cinismo e l’illusione. Il sarcasmo è inutile, ma consolante. Consiste nel sapere e non dire; nell’allusione professionale; nel ghigno caustico. Molti commenti da Atene, in questi giorni, rientrano in questa categoria. Capisco chi li ha scritti/detti. Senza prove non si può accusare un atleta che, di colpo, migliora di un metro il proprio salto; o corre come un grillo dopo essersi trascinato per anni come una lumachina. Ma si può far capire, lasciare intendere, in attesa che l’interessato perda la faccia. Prima o poi, accadrà (vedi Kenteris, detto il genio dell’Ellade)». [10]

La scappatoia numero tre: il cinismo. Severgnini: «Forma estrema di realismo. Basta dire che il doping non si potrà mai debellare perché è sempre esistito: doping di Stato e doping sponsorizzato; doping fatto bene e doping fatto male (ricordate ”Hormone Heidi”, lanciatrice - poi lanciatore - della Repubblica Democratica Tedesca?). Basta aggiungere - come ”The Economist” giorni fa - che gli argomenti contro il doping non sono del tutto convincenti. Fa male agli atleti? Anche la boxe e il football americano fanno male, ma non saranno aboliti. Anche l’alcol e il fumo non fanno bene, ma non verranno vietati. Il doping è una forma d’imbroglio? D’accordo: ogni sport decida allora quali e quante sostanze gli atleti possono assumere, invece di nascondersi dietro utopistiche regole generali. Allenarsi in quota, in fondo, non produce effetti fisiologici simili all’Epo? E poi: come può una società dedita alle droghe che aumentano le prestazioni - Viagra, Prozac - permettersi certi moralismi?». [10]

La quarta via d’uscita: l’illusione. Severgnini: « la più frequentata, perché è la più luminosa. Illusi sono quelli che pensano allo sport come a un romanzo popolare: voi ed io, per esempio. Appena cuciniamo insieme sogni e realtà, però, ci accorgiamo che dalla pentola sale un odore amaro. Cosa facciamo, allora? Rifiutiamo d’assaggiare, e riprendiamo a mescolare fantasie. Prendiamo le Olimpiadi. Siamo pronti a dimenticare l’evidenza, la logica e la statistica per commuoverci davanti a un podio, a un salto, a un inno o una sfilata: i Giochi sono un’arcadia, e guai a chi ce la tocca. Qualcuno è pronto a mettere la mano sul fuoco su tutte le medaglie italiane, diciamo, del dopoguerra? I greci sono disposti a discutere le medaglie appena conquistate? E i cinesi? Penso di no. Non per ignavia, ma per tenerezza: è un modo di difendere i sogni». [10]

Buone notizie: sono rispuntati i seni sui corpi delle velociste. Mauro Covacich: «Non grandi ovviamente - e come potrebbero a quelle andature? - e tuttavia segni inconfondibili di una femminilità non più compressa nel coacervo di mitocondri ipertrofici, una femminilità rifiorita timidamente su donne dai colli snelli, dalle braccia affusolate, dalle ossa facciali di nuovo minute, insomma su donne-donne. Io credo che una prima prova antidoping sia proprio questa della bellezza. Intendo della bellezza secondo i canoni classici dell’armonia e della natura. Forse può sembrare poco garantista, ma nelle discipline anaerobiche - come i 200 piani, appunto - l’aspetto non pompato, non deforme, è già un segnale oggettivo dell’assenza di certe sostanze. Il Gh, ovvero l’ormone della crescita, ti fa diventare la faccia come quella di un cavallo, ti spinge gli omeri fuori dalle spalle, le teste di femore fuori dal bacino, in pochi mesi diventi la moglie di Shrek, solo più brutta». [11]

«E allora, guardando le batterie dei duecento, mi sono immedesimato nel giudice supremo dell’antidoping - che è poi ciò che fanno tutti ormai seguendo lo sport in tv - e ho fatto i miei personali controlli sulle vincitrici». Covacich: «Ripeto, i seni al posto dei pettorali sono un buon segno, lo dico senza voler spargere veleni (in effetti c’erano ancora alcuni ostinati pettorali). Così ho deciso che Ivet Lalova, bulgara, un bel sole tatuato sull’ombellico, non è dopata. E neanche Allyson Felix, americana, lo è. E neanche la sua connazionale Muna Lee - per nulla somatotropizzata, addirittura mingherlina. Non si farebbe prima così? L’estetica è etica. Kalòs kaì agathós, diceva quello. O no?». [11]

Sullo sfondo c’è infine lo scenario della clonazione. Il brasiliano Eduardo De Rose, membro della commissione medica della Wada: «Che cosa faremo il giorno in cui un paese potrà schierare una squadra di calcio con 11 cloni di Pelé?». [6]