Vittorio Zucconi Corriere della Sera, 19/08/2004, 19 agosto 2004
Google a Wall Street: Robin Hood per ora ha battuto i cattivi delle banche, Corriere della Sera, 19/08/2004 Forse se Sergey Brin e Larry Page avessero indossato giacca e cravatta e abbandonato il taglio di capelli da spettinati cronici per presentarsi alla comunità finanziaria, e avessero atteso la benedizione ufficiale del mercato per poi rilasciare l’intervista di rito al ”Wall Street Journal”, forse, avrebbero ottenuto di più
Google a Wall Street: Robin Hood per ora ha battuto i cattivi delle banche, Corriere della Sera, 19/08/2004 Forse se Sergey Brin e Larry Page avessero indossato giacca e cravatta e abbandonato il taglio di capelli da spettinati cronici per presentarsi alla comunità finanziaria, e avessero atteso la benedizione ufficiale del mercato per poi rilasciare l’intervista di rito al ”Wall Street Journal”, forse, avrebbero ottenuto di più. E non dovrebbero fare i conti con un clamoroso taglio dei prezzi di collocamento. Ma i due trentenni hanno preferito seguire il loro stile, quello ormai caduto un po’ in disgrazia della new economy: polo e toni informali. Interviste sulla quotazione rilasciate a ”Playboy” con relativa bacchettata da parte della Sec, che ancora deve esprimersi sulla rottura del silenzio pre-Ipo (la procedura di sbarco in Borsa). Ma questo sarebbe stato nulla se non fosse per la critica all’intero meccanismo finanziario di Wall Street: chi ha detto che le quotazioni in Borsa devono essere orchestrate dalle banche d’affari che gestiscono miliardi e si trattengono ricche percentuali per il servizio? Page e Brin hanno voluto fare i Robin Hood della finanza. E non solo hanno optato per un meccanismo d’asta curioso, quello olandese, che sostanzialmente invece di funzionare al rialzo si muove al ribasso. Ma hanno affidato l’incontro tra offerta e domanda al canale che per loro è il moderno sinonimo della parola democrazia: Internet. Con il risultato di far crollare le commissioni delle banche d’investimento anche se l’intermediazione minima era affidata comunque a due colossi come Morgan Stanley e Credit Suisse First Boston. Per settimane chi voleva prenotarsi per l’Ipo lo ha potuto fare accedendo al sito (o in alternativa via fax o telefono) attraverso un codice per lasciare in rete la propria offerta: numero di azioni desiderate e prezzo disposto a pagare. Tutti coloro che hanno registrato un prezzo maggiore di quello finale avranno il loro pacchetto di titoli. Con una particolarità. L’asta di tipo olandese lascia maggiore spazio ai piccoli investitori rispetto a quelli istituzionali come fondi o banche. E quindi quello che è successo, al di là del clamore del ridimensionamento e del grido di vittoria lanciato ieri da molte case d’investimento che lo hanno interpretato come un fallimento, forse è stato proprio il primo incontro ravvicinato tra risparmiatori e azienda. Senza filtri. Senza decisioni dall’alto. Alla fine chi ha deciso è stato proprio il mercato, inteso nella maniera più ampia. Non un’équipe di analisti con il loro microscopio sui conti ma anche con i loro conflitti di interessi (più è alta la quotazione maggiore è la commissione che si porta a casa). Ma, soprattutto, i piccoli investitori che nei sondaggi sui forum di Yahoo e dello stesso Google si dicevano disposti a pagare molto meno dei 108-135 dollari iniziali. Insomma, anche se alla strana coppia che ha inventato un algoritmo d’oro è riuscito solo in parte, come a Bill Gates e Steve Jobs, di trovare il trait d’union tra polo e alta finanza, è possibile che gli effetti della loro ribellione possano lasciare un solco profondo a Wall Street. Per ora la Sec, dopo l’intervista a ”Playboy”, sta pensando se non sia ora di cambiare una regola, quella del silenzio pre-Ipo, del 1933. Non resta quindi che aspettare e vedere se altre società e imprenditori seguiranno la strada di Brin e Page. Massimo Sideri il manifesto, giovedì 19 agosto Non c’è bisogno di essere cultori dei complotti per notare che l’andata in borsa di Google, il migliore tra i motori di ricerca internet, ha creato malumori e persino boicottaggi. Il motivo è presto detto: i due ex studenti di Stanford, Larry Page e Sergey Brin, depositando il loro prospetto in Borsa, l’hanno accompagnato con un’affermazione pericolosa e una decisione inquietante. Dissero dunque che non sentivano troppo bisogno di fare cassa, perché comunque gli utili già c’erano e che in ogni caso non volevano farsi condizionare dagli analisti, quelli che chiedono profitti a brevissimo termine e così facendo fanno schizzare in alto e in basso le azioni, impedendo alle aziende di guardare lontano. Il caso della Cisco che ha avuto un ottimo trimestre vendendo centrali telefoniche digitali, ma che ha perso valore perché «correva voce» che nei prossimi tre mesi i clienti ne avrebbero acquistati un po’ di meno, è esemplare delle distorsioni prodotte dalla finanziarizzazione spinta dell’economia. I due Googlers scelsero anche una modalità di vendita delle azioni inconsueta: anziché essere affidate alle banche, le azioni di Google erano prenotabili da qualsiasi nordamericano, via Internet: ognuno poteva offrire il prezzo che riteneva più adeguato, insieme dichiarando quante ne voleva. Proprio in queste ore il gruppo dirigente si appresta a esaminare le offerte e a fissare il suo prezzo di vendita: tutti coloro al di sopra potranno acquistare, quelli al di sotto no. Una sorta di sondaggio democratico del tipo: «Quanto pensate che Google valga davvero?» Una vendita del genere taglia fuori clamorosamente la finanza classica (anche se Google utilizza comunque la consulenza di Morgan Stanley e Goldman Sachs) perché nelle offerte tradizionali le banche erano abituate a ottenere un buon numero di azioni scontate del 10 o 15 per cento, da rivendere al volo a offerta ultimata e a prezzi schizzati in alto. Gran parte del miracolo della New Economy funzionava così, arricchendo pochi azionisti amici e privilegiati, a spese di tutti gli altri, chiamati solo a far salire le azioni. Da qui le contromosse: freni da parte della Sec che ancora ieri ha ritardato fino all’ultimo il giorno della chiusura dell’asta, editoriali dubbiosi e infine la decisione di Google di abbassare la stima delle sue azioni a 85-95 dollari rispetto ai 108-135 previsti; verrà diminuito in proporzione anche il numero delle azioni cedute. Dunque un discreto subbuglio, in parte generato dall’anomalia sostanziale Google e in parte addebitabile all’antipatia che le sue mosse hanno suscitato nei «templi della finanza». Come che sia alla fine le azioni saranno vendute, i due diventeranno miliardari (ma giurano che la cosa non gli cambierà la vita, chissà) e per fortuna non ci sarà una nuova ondata di bolle tecnologiche. Sarà interessante semmai vedere se oltre allo spirito un po’ iconoclasta originario, i due (e i loro manager ben più scafati) sapranno reggere la prossima vera ondata d’urto, ovvero il contrasto concorrenziale dell’altro grande portale internet, Yahoo!, e l’irruzione nella gestione delle informazioni in rete del «lungo corno» di Microsoft. «Longhorn» infatti si chiama il nuovo sistema operativo di Bill Gates che dovrebbe offrire le stesse prestazioni di Google e molto di più. Non prima del 2006, però. Franco Carlini la Repubblica, venerdì 20 agosto Si è fatta sospirare per ore, come la soubrette che vuole farsi desiderare e quando finalmente è apparsa sulla scena di Wall Street per la prima volta, il pubblico ha applaudito. Google, l’ultima «star» e l’ultima speranza della new economy devastata ha vinto, per ora, la sua scommessa con l’establishment finanziario che le profetizzava disastri per aver tentato un modo nuovo ed «eretico» di piazzare i propri titoli prima via Internet e poi in Borsa. Tra previsioni catastrofiche, ha visto il valore del proprio titolo salire dagli 85 dollari iniziali ai 100,33 della chiusura, il 18% di rialzo, percentuali inebrianti che non si vedevano più dai giorni della bolla. Eppure quando il Nasdaq aveva aperto alle 9 e 30 ora di New York, Google, l’ultima speranza di rimettere in piedi lo show dei titoli tecnologici, non c’era. Aprirà fra 15 minuti, dicevano alla Morgan Stanley e al Credit Suisse, le due finanziarie che l’avevano sponsorizzata accontentandosi di percentuali minime di commissione, respinte dalle altre concorrenti, poi fra 25, poi fra tre quarti d’ora. Colpa di un broker, che aveva immesso nel circuito con troppo anticipo due ordini di vendita. Quando finalmente si è presentata al pubblico degli investitori, con tre ore di ritardo, a mezzogiorno, il prezzo scontatissimo di 85 dollari ad azione ha retto e attirato offerte di acquisto individuali. «La presunzione della ricca debuttante in società li punirà» aveva profetizzato con ovvia schadefreude, con gioia per i guai altrui, John Dvorak, santone dell’informatica americana che aveva sconsigliato l’operazione. Ma è stata, per ora, e come tanto sovente accade, la presunzione degli esperti a essere punita. Non avrebbe potuto scegliere giorno peggiore di ieri, questa società costruita nel 1998 da due studenti fuori corso, un russo e un americano, attorno a un nuovo e brillante «motore di ricerca» in Internet, per mettere in vendita 17 milioni di azioni, dopo quelle già prenotate a 85 dollari online. In un mattino di mezzo agosto, un mese nel quale anche le gemelle siamesi che muovono le Borse, l’avidità e la paura, si prendono un poco di vacanze e il volume degli scambi è anemico, nella New York sulla quale pesano l’incubo del petrolio a 48 dollari, l’ombra del mullah di Najaf che fa ballare l’Iraq sul filo della violenza e la catastrofe annunciata della imminente Convention repubblicana che devasterà i conti di ristoranti, negozi e alberghi nell’ossessione della sicurezza, lo scarso entusiasmo del mercato per gli acquisti di titoli avrebbe dovuto sconsigliare i fondatori Brin e Page dallo scegliere proprio questo periodo. Ma se Brin e Page avessero dato retta agli esperti non avrebbero mai lasciato gli studi di dottorato e non avrebbero lanciato una società creata nel dormitorio di Stanford, in notti insonni di discussioni. La Google era ormai vittima del proprio carisma, intrappolata nel suo stesso gioco, in quel mix di ingenuità e di hybris, di audacia e di presunzione così tipico di quel mondo, l’ingenuità che spinse Page a farsi intervistare da ”Playboy” prima del lancio delle azioni e rischiare la sanzione della Sec, l’ente di controllo autentico di Wall Street. Era considerata come l’ultima perla ancora intatta, nel mucchio non più brillante dei titoli tecnologici devastati dal crollo del 2001, la più ambita e i due trentenni che la costruirono hanno sfidato la «mafia» della Borsa che li osteggiava. Avevano deciso, contro il parere professionale di tutte le case di Borsa e degli investment bankers, di fare da soli, proponendo 24 milioni di azioni per una prenotazione all’asta via Internet, il luogo virtuale e reale nel quale il loro «algoritmo», la loro formula per scovare informazioni, aveva avuto tanto successo. E quando si trattò di fissare un prezzo indicativo per l’asta online aperta a tutti per 2,7 miliardi di dollari in valore stimato, indicarono, tra lo sbalordimento di consiglieri ed esperti, una forchetta tra i 108 dollari, il minimo, e 135 dollari ad azione. Se questi prezzi fossero stati raggiunti dai partecipanti all’asta, la capitalizzazione della azienda avrebbe superato i 33 miliardi di dollari, e la fortune personali di Brin e Page si sarebbero arricchite di un miliardo. Ciascuno. Avevano esagerato. A quell’altitudine vertiginosa anche per le antiche ebbrezze da new economy, il «cavallo» non aveva bevuto. Il prezzo dell’asta, prolungata di una settimana nella speranza che almeno il cavallo sorseggiasse, era stato drasticamente ridotto, a 85 dollari, e il numero delle azioni offerte tagliato per non allagare il mercato, ieri. Alcuni investitori che inizialmente avevano finanziato la nascente Google con due milioni di dollari avevano accettato di non mettere in vendita la propria quota e rinviare l’incasso dei profitti. E il numero di tavoli da «calcio balilla» e di sagome di cartone a grandezza naturale con personaggi di ”Star Trek” che adornano la sede centrale di Google a Menlo Park, in California, potranno aumentare, insieme con il portafoglio di Brin, che non ha avuto il coraggio di essere a Wall Street quando il primo contratto è stato scambiato, alle 17 e 55 ora italiana, lasciando solo Page a trepidare. Piangeranno, invece, le banche e le finanziarie che hanno assistito «furiose», come scrive il sito di Bloomberg, al tentativo di Google di bypassare i meccanismi e i metodi tradizionale di Ipo, della prima collocazione pubblica di titoli. L’eco dei «ve lo avevamo detto» risuonavano con torva anticipazione, ieri, mentre il Nasdaq, Google e i tecnici della Borsa ritardavano l’uscita sul palcoscenico. «Hanno voluto fare di testa loro e pagheranno di tasca loro», commentava sempre la Bloomberg, a nome e per conto di un establishment finanziario terrorizzato dall’idea che altre società seguano il loro esempio e impongano una commissione di appena l’1,5 per cento per la loro assistenza, rispetto al 5 per cento normalmente estorto. Invece, hanno vinto loro, se anche questa non sarà una bolla, e la macchina inceppata del mercato tecnologico, delle «offerte pubbliche iniziali» che sono la linfa che alimenta il successo e l’innovazione americani, potrebbe, scricchiolando, ripartire. «Noi non faremo mai il Male», dice un cartello nella sede di Google, dove i due «padri» promettono di riservare in futuro l’1 per cento dei loro profitti per una fondazione che abbia il non modestissimo obiettivo di «risolvere i problemi principali dell’umanità» e questo cocktail di mistica, di ingordigia, di democrazia cibernetica non poteva piacere all’establishment bancario e finanziario. Molti, ieri sera, hanno brindato ai primi passi dell’ultima superstar della new economy e al successo dei due studenti che tentano di battere la Borsa al suo gioco. Vittorio Zucconi