Marina Cappa Vanity Fair, 26/08/2004, 26 agosto 2004
La metafisica solipsista elevata al Cubo, Vanity Fair, 26/08/2004 «Quando ogni faccia è al suo posto, provo una sensazione di pace e di sicurezza
La metafisica solipsista elevata al Cubo, Vanity Fair, 26/08/2004 «Quando ogni faccia è al suo posto, provo una sensazione di pace e di sicurezza. Eppure, avverto anche qualcosa di spaventoso, come se avessi a che fare con una bestia feroce pronta a scattare». La forza tranquilla è il Cubo. Così come lo descrive il suo inventore, Erno Rubik. L’uomo e il gioco in realtà si assomigliano. Spigolosi, difficifi da maneggiare, refrattari alle risposte facili. Rubik, che ha compiuto sessant’anni il 13 luglio, vive oggi sulle colline di Buda, alle spalle della capitale ungherese. Ama la solitudine, non vuole incontrare estranei. E, soprattutto, non intende dilungarsi nostalgicamente su questo giochetto che all’inizio nessuno voleva commercializzare e che lo ha reso poi il primo milionario (ufficiale) dell’Est. Si dedica a piante e fiori. Al gioco degli scacchi: solo contro se stesso. Alle gite in kayak sul lago Balaton, dove con i diritti accumulati negli anni si è costruito la casa delle vacanze. Mentre in Austria ha progettato e edificato un’altra villa: interamente in marmo. «Il Cubo», ammette, «mi ha fatto guadagnare molto, mi ha permesso di comperarmi una bella auto, di viaggiare per tutto il mondo, di vivere seguendo i miei sogni e facendo ciò che mi piace, soprattutto la progettazione di giardini». Il lavoro vero e proprio, per questo architetto che ai tempi della fortunata invenzione insegnava design all’Accademia di arti e mestieri, si limita alla supervisione dei Rubik Studios di Budapest, centri di progettazione. Idee, puzzle e giochi tridimensionali nati in questi studi non hanno però mai minimamente sfiorato la fama dell’intuizione originaria. La domanda è quindi: che cosa si prova nel diventare celeberrimi a 30 anni e sopravvivere per altrettanti alla propria fama? La risposta è ambigua: «La capacità di creare non è legata a un’età piuttosto che a un’altra. Nel caso di questo rompicapo si è trattato semplicemente di una serie di circostanze favorevoli». Come dire che l’evento potrebbe ripetersi. Salvo che non è mai successo. Piuttosto, succede che negli ultimi tempi il vecchio Cubo sia tornato in auge. Dopo alcuni anni di falsi venduti a un paio di euro l’uno (il costo ufficiale è 14-15), la produzione è tornata a crescere. Spiega Leo Colovini, importatore in Italia assieme a Unicopli e a sua volta inventore di giochi: «Il segreto di questo rompicapo non è tanto nella difficoltà di trovare la soluzione, quanto nell’enorme piacere della manualità. Sfido chiunque a tenere in mano un Cubo e a non provare la voglia di rigirarlo. Nei nostri studi ne abbiamo uno interamente argentato: benché non ci sia niente da risolvere, perché tutte le facce sono uguali, persino noi non resistiamo alla tentazione di giocarci». Alle origini, non era tutto così scontato. Allora, Rubik guadagnava l’equivalente di 150 euro al mese e viveva a casa della madre. Aveva 29 anni, nel tempo libero giocava con dadi di legno ed elastici. Un giorno il Cubo gli nacque fra le mani. «Era meraviglioso vedere i colori dei miei dadi che si mescolavano, come a caso. Però a un certo punto, come dopo una lunga passeggiata, mi chiesi: come faccio a tornare a casa, a riordinare le facce? Ho impiegato un mese a trovare una soluzione che non ero nemmeno sicuro esistesse». La soluzione c’era e a inizio ’75 l’inventore («pensare che non avevo mai sognato di fare questo lavoro») avviò le pratiche per il brevetto. Due anni dopo avviò la produzione in Ungheria. Ma se sistemare le facce del gioco non era semplice, convincere gli interlocutori a lanciarlo sul mercato si rivelò ancora più complicato. Con l’aggravante della personalità di Rubik, solipsista al limite del patologico. Un esempio. Quando si sposò - con «una ragazza tranquilla e testarda» che ancora oggi è sua moglie e dalla quale ha avuto tre figli, la primogenita ha 26 anni, l’ultima nata 16 - disegnò da solo la casa dove avrebbe abitato: una grande vetrata sul giardino, un piano superiore con camere da letto e studio, sauna, piscina, un ampio garage. Ma niente sala da pranzo. Strano? No, meditato: «Spero di non avere mai ospiti a cena». Per un uomo che ama la vita ritirata, che da ragazzo si sentiva «sempre fuori luogo, incapace di comunicare con i coetanei», il successo pubblico era di complessa gestione. La fortuna cominciò quindi solo quando Tibor Laczi, rappresentante di computer, vide un Cubo in mano a un cameriere e capì che quell’oggetto poteva cambiargli la vita. Andò a trovare Rubik. Lo ricorda così: «L’uomo che mi venne incontro sembrava un mendicante, vestito malissimo; d’altra parte, negli anni il suo stile non è cambiato granché, fuma solo sigarette migliori. Erno mi è subito piaciuto, ma una vera amicizia è sempre stata impossibile: lui non parla mai». La comunicazione fu laconica ma risolutiva, perché da quel momento Laczi cercò il partner giusto per il mercato internazionale. Finché conobbe l’inglese Toni Kremer, esperto di giochi, e il Cubo di Rubik fu venduto in tutto il mondo. La data di nascita ufficiale è l’uscita negli Stati Uniti: nel 2005 si festeggia il venticinquesimo compleanno. Ai festeggiamenti l’inventore non ha intenzione di partecipare. In compenso al tempo che passa dedica una riflessione: «I puzzle sono come i problemi della vita. Tutta la nostra esistenza consiste nell’affrontare rompicapi. La grande differenza è che nel gioco le regole sono chiare, nessuno mente e arrivare alla soluzione è solo questione di talento. Mentre trovare la felicità nella vita non dipende da noi». Rubik, la sua felicità, sembra averla trovata. Marina Cappa