Giampaolo Pansa, la Repubblica, 18/08/2004, 18 agosto 2004
De Gasperi nella campagna elettorale del 1948 (a Casale Monferrato)
Come «von Gasperi» salvò il Casalese, la Repubblica, 18/08/2004 Chi lo conosceva, Alcide De Gasperi, prima della campagna elettorale per il 18 aprile 1948? Se debbo fidarmi dei miei ricordi di dodicenne, non tantissimi tra gli italiani del tempo. Ma nella nostra famiglia larga, e appassionata di politica, il capo della Dc era una figura sempre presente nei dibattiti serali, attorno al tavolo della cucina. Agli uomini, tutti rossi, socialisti o comunisti, De Gasperi non piaceva per niente. Lo giudicavano un lacchè dell’America e del Vaticano, amico dei padroni e dei fascisti. Sul tavolo veniva squadernato il ”Don Basilio”, un settimanale satirico anticlericale, allora molto in voga. De Gasperi vi era effigiato in vignette al vetriolo. Sempre vestito da pretacchione e con un naso adunco da avvoltoio. L’appellativo più gentile era «monsignor von Gasperi». Gli uomini si passavano il giornale, ringhiando alle donne di casa: «Guai se votate per questo qui!». Ma le donne non si facevano intimorire. Non lo confessavano in modo aperto, però a loro la Dc piaceva. Pensavano, sia pure in modo confuso, che fosse il partito capace di portarle fuori da un dopoguerra senza fine. E consideravano De Gasperi un tipo più rassicurante dei capi comunisti che vedevano al cinema, nella Settimana Incom, il telegiornale dell’epoca. Più di quel Togliatti, troppo gelido e dalla vocina rauca. E ben più dei Secchia e dei Pajetta, «sempre faragginati» diceva mia madre, pronti a scaldarsi per un niente. Poi arrivò la campagna del 18 aprile. La ricordo soprattutto per due ragioni: la sua colonna sonora e il comizio di De Gasperi nella nostra piccola città, Casale Monferrato. La colonna sonora era un samba all’italiana. Faceva così: «O mama, o mama, o mama, / sai perché / mi batte il corazòn? / Mi piace una muchacha?». La canzone, parole di Dante Panzuti e musica di Carlo Concina, nella primavera del 1948 aveva sfondato. Soprattutto al circolo Stella Rossa, la rinomatissima sala danze del Pci. Chi ballava quel samba con movenze divine era la compagna Elvira, trentenne e tutta curve. Una giovane vedova di ferroviere, dalla serietà assoluta. Ma che alla Stella Rossa, il sabato sera, si tramutava in una Rita Hayworth casalinga, abito attillato, calze con la riga e tacchi alti. Capace, con la sola mossa dell’anca, di farti immaginare scenari peccaminosi. Più decisivo sotto l’aspetto politico fu l’arrivo di De Gasperi. Anche da noi, la campagna elettorale si rivelò al calor bianco. La città si divise, si combatté, si odiò. Sembrava ricominciata la guerra civile. Per fortuna le armi erano diverse: manifesti, comizi, giornali murali e parlati, mostre, pacchi dono. Si diceva che i capi del Pci locale avessero messo giù la lista dei borghesi da arrestare. E qualche industriale del cemento fece partire la famiglia per la Svizzera. De Gasperi comparve nel mezzo di questa guerra, il lunedì 21 marzo 1948. E prima di parlare alla città, si recò con la moglie al santuario di Crea, poco lontano da Casale. Ma non per pregare la famosa Madonna nera. Su quel bricco benedetto, che sovrasta il Monferrato, doveva incontrare un altro democristiano importante, il leader del partito in Francia. Era George Bidault l’uomo in attesa di De Gasperi tra i frati del santuario. Un signore piccolino, azzimato, che era stato il capo della Resistenza francese dell’interno. Conosciuto per un tipo duro, di poche parole, sempre pronunciate con una voce nasale e aggressiva. E con un fastidio che lui cercava di contenere, dal momento che, in Francia, era anche il ministro degli Esteri. L’incontro doveva rimanere segreto. Ma la ragione del vertice sulla sacra collina si conobbe quasi subito. De Gasperi voleva sapere da Bidault quale aiuto avrebbe potuto offrirgli, nella disgraziata ipotesi di una vittoria comunista il 18 aprile. Bidault non ebbe esitazioni. E di fronte alla Madonna di Crea, garantì asilo politico in Francia al leader della Dc e a tutti i democristiani che avessero deciso di fuggire da un’Italia caduta nelle mani dei rossi. Nel pomeriggio, poco dopo le 15, l’Aprilia presidenziale arrivò in città. De Gasperi fu subito portato in piazza del Cavallo, il centro del centro, dove lo aspettava una folla da sbalordire. Non s’era mai vista tanta gente attorno alla statua equestre di Carlo Alberto. La folla cominciò ad applaudirlo, frenetica, non appena si affacciò da un balconcino, sopra il Caffè Savoia. Accanto a De Gasperi c’erano i due diccì più in vista della città. Il sottosegretario agli Esteri, Giuseppe Brusasca, monferrino. E il segretario del partito, Francesco Triglia, molto noto per via del suo negozio di tessuti, la pregiata ditta Nobet. C’ero anch’io in piazza del Cavallo, da solo, per curiosità. E De Gasperi lo rammento bene. Un signore alto, secco, austero anche nell’abito stazzonato, il naso davvero a becco, la faccia stropicciata dalla stanchezza, dove si leggevano tutti i sessantasette anni che stava per compiere. Il volto aveva un’espressione singolare, tra l’assorto e il combattivo. Anni dopo, la trovai descritta così, dalla figlia Maria Romana: quella di un felino attento, gli occhi stretti come due fessure alzate agli angoli, le sopracciglia grigie e arruffate, un tratto che gli restava per un attimo sul viso quando aveva battuto un avversario. Dopo la mattinata al santuario di Crea, l’odiato-amato Alcide aveva le gomme sgonfie. E il suo discorso non passò alla storia. De Gasperi si limitò a battere sul chiodo che gl’importava di più: il voto del 18 aprile era un referendum sul futuro dell’Italia, in bilico tra un avvenire di libertà e un baratro d’oppressione. Quindi concluse con un monito ben scandito: «Chi non vota, commette una viltà. Votare è un dovere. Votare male è un tradimento!». La piazza si spellò le mani nell’applauso. A cominciare dalle donne, tantissime. Se qualcuno del Fronte Popolare fu tanto acuto da rendersene conto, di certo intuì, lì, sul momento, come sarebbe finita la battaglia del 18 aprile. Ma i capi frontisti della città avevano ben altro per la testa: il contro-comizio destinato a mandare al tappeto Von Gasperi, allestito sul lato opposto di piazza del Cavallo. L’oratore era un giovanotto entusiasta, che poi sarebbe diventato uno dei grandi sociologi italiani: Franco Ferrarotti. Dicevano che avesse interrotto da poco gli studi in seminario. Il Fronte Popolare contava molto su di lui. Il settimanale delle sinistre casalesi, ”Rinascita democratica”, lo descrisse pronto a scagliare «una stritolante requisitoria contro la politica nefasta dell’onorevole De Gasperi». Invece il giornale del vescovo, ”La Vita casalese”, prese malissimo il passaggio di campo dell’ex-seminarista. E lo bollò così: «Quel giovane ha l’inferno nel cuore». Il contro-comizio ebbe un effetto quasi nullo. L’unico fastidio De Gasperi lo incontrò appena iniziato il viaggio verso Milano: la sua Aprilia venne tamponata dalla vettura della polizia che la tallonava. Il seguito è presto detto. Anche a Casale, città rossa, vinse la Dc: 11.556 voti contro i 10.356 del Fronte. Il sottosegretario Brusasca paragonò la vittoria a quella di Lepanto contro i turchi. E il vescovo Giuseppe Angrisani volle un’ora solenne di adorazione nel Duomo, «per ringraziare il Signore del buon esito delle elezioni». Quanto a De Gasperi, anni dopo si seppe che, la notte del trionfo elettorale, chiese a chi stava in ufficio con lui: «E adesso che cosa ne facciamo di tutti questi voti?». Domanda retorica, perché lui sapeva benissimo che cosa farne. Giampaolo Pansa