Il Messaggero 04/01/2006, Luigi Vaccari, 4 gennaio 2006
Io e mia madre - Antonello Venditti. Il Messaggero 04/01/2006. <A bruciapelo, il primo pensiero che mi viene in mente è un bambino sul triciclo che guarda la mamma Wanda, da lontano, e vorrebbe ”simpaticamente” investirla>, scherza Antonello Venditti
Io e mia madre - Antonello Venditti. Il Messaggero 04/01/2006. <A bruciapelo, il primo pensiero che mi viene in mente è un bambino sul triciclo che guarda la mamma Wanda, da lontano, e vorrebbe ”simpaticamente” investirla>, scherza Antonello Venditti. E’ una madre ”simpaticamente” terribile? <Ha meravigliosamente 94 anni e una storia che continua a essere incredibile. E’ docente di latino e greco. Non è stata: è. Anche da pensionata con tanto di medaglia della scuola, che guarda con orgoglio ascoltando la radio. Il ruolo preminente, che ha alimentato e condizionato la sua vita, è quello di professoressa. Adesso insegna alle badanti, comandandole a bacchetta e non rinunciando neppure a una briciola del suo potere. Nella canzone Mio padre ha un buco in gola, che parla della mia famiglia, ho scritto che è una madre-professoressa, o meglio: una professoressa-madre. Mi ha dato sempre 4>. Perché? <Sono figlio unico e mi trattava come un alunno più o meno scadente: un demente. Qualsiasi cosa facessi non ero all’altezza. E io mi sono sentito sempre inadeguato rispetto a lei, che evidentemente aveva aspettative diverse sul mio futuro>. Ricorda un episodio emblematico? <Sono piccolo. Mia madre discute con mio padre. Origlio. La sento dire: ”Vincenzo, ma questo è cretino”. La parola cretino mi è girata per la testa a lungo, nonostante l’avesse pronunciata senza antipatia. Non ero cretino e tutto sommato andavo bene a scuola. Ma ero il figlio della professoressa Sicardi Venditti, studiavo al Giulio Cesare, dove lei insegnava, e avevo l’obbligo di essere il primo: dovevo dimostrare di essere bravo due volte. Avevo una grande responsabilità. Ho sentito questa pressione sin da piccolo>. Tanto da esserne schiacciato? <Profondamente. Ripeto spesso che mi ha avuto a 40 anni, essendo vergine. Crede di rappresentare la figura della donna moralmente perfetta: si è concessa a un solo uomo, mio padre, sposandolo a 38 anni. E’ raro. Ed è sicuramente una donna fuori del normale culturalmente e nell’approccio alla quotidianità. Ma ha dei limiti forti. Pensa la vita immutabile: ha paura del cambiamento, del futuro, del movimento. Era raro che le finestre in casa nostra fossero aperte. Vive tuttora in un’aula: che era la sua zona franca, rassicurante, con la cattedra, la sedia. Gli alunni non la smuovevano. Oggi insegna la nostra lingua all’indiana, alla polacca, e c’è l’italiana storica con la quale non smette di battibeccare. Dopo la morte del marito ha voluto giustamente restare nella casa dove è nata, ha vissuto il suo unico amore, la famiglia con me, e dove ha deciso che morirà. E’ un po’ come Ironside, che sviluppa la sua attività attorno alla sua sedia. Non si rende conto dei guai che può provocare quando giudica le persone>. Qual è stata la sua sofferenza di ragazzo? <Che fosse affettivamente e sentimentalmente impotente, e incapace di consigliarmi. Le madri, quando ti innamori, devono giustificare se stesse dandoti dei falsi obiettivi: ”Le camicie chi te le laverà e stirerà ?”, ”Che ti darà da mangiare?”... Aveva ipotizzato per me una brava ragazza, possibilmente impiegata statale: la commessa non andava bene, perché metà giornata la moglie deve stare in casa e aspettare il ritorno del marito, magari anche con la nonna. Noi abbiamo vissuto con nonna Margherita: a lei è servita perché, facendo da mangiare, le ha permesso di fare il suo lavoro. Mia madre non sapeva cucinare. Quando nonna è morta, avevo una ventina d’anni, con mio padre ci siamo detti: ”Adesso che cosa accadrà?”>. Come reagiva alla carenza di affetto? <Mangiando. E, lì, trovavo in lei un’alleata perché poteva imporre il suo potere: facendomi mangiare esageratamente, mi controllava meglio. A 14 anni pesavo 94 chili. E soffrivo: gli amici, le ragazze mi deridevano; ero il simpatico cicciabomba che si invita alle feste per prenderlo in giro. Poi mi sono innamorato e ho deciso di diventare, da bozzolo, farfalla. Mia madre è stata la più acerrima nemica. Sapeva benissimo che mi ero messo a dieta per dimagrire e mi faceva le torte per impedirmelo, per farmi restare ”bambino” e sottomettermi. Non dovevo crescere>. Cerca di controllarla anche adesso? <E’ entrata nella mia vita adulta senza bussare. Ha una rete di informatori: gli autisti, gli impresari, ai quali mi affida e nei quali confida. Indaga su di me: è Tom Ponzi. Mi ha sempre ritenuto incapace di essere autonomo>. Tuttora? <Oggi di meno. Forse. Ha sempre pensato che non so fare niente e tutti mi fregano. Non mi ha mai chiesto cosa pensassi della politica, della vita. Non c’è stata mai una confidenza. Mi sono laureato in giurisprudenza e ho preso la specializzazione in filosofia del diritto; ho fatto il Sessantotto; ho scritto le canzoni; ho 56 anni; ho un figlio e due nipoti, Alice e Tommaso. Lei è restata pressoché ferma sulle sue idee. Ogni giorno ci facciamo almeno due telefonate. Ma non mi ama: mi controlla. Amare, per lei, è controllare, avere il dominio sulla mia esistenza, investigare sui miei amici, sulle mie compagne. La tiene in vita. Ma ha sbagliato tutte le valutazioni, non ne ha azzeccata una. I suoi giudizi sulle donne che ho avuto sono stati sempre negativi: avrebbe trovato da ridire anche se mi fossi fidanzato con Rita Levi-Montalcini. Poi vive nel terrore che le dica delle bugie>. Gliele dice? <Probabilmente da bambino gliele avrò dette, ma vivendo terribili sensi di colpa. Mi ha fatto sempre sentire in colpa, senz’alcun motivo: è un grande castigo, per un figlio. Per fortuna ha prevalso la vena artistica e mi sono costruito il mio mondo. Ho dovuto lottare anche per suonare il pianoforte, che è diventato il mio spazio di libertà. Ho scritto Roma capoccia una domenica mattina, avevo 14 anni, fingendo di avere mal di pancia, per poter restare solo in casa. Le canzoni che ho pubblicato negli Anni Settanta, le ho fatte tutte negli Anni Sessanta>. La musica era una fuga? <La ricerca di me stesso: c’era un altro Antonello col quale dialogavo fortemente>. Come ha reagito sua madre alla sua scelta professionale? <Con paura. Il contrario di mio padre. Mio padre è tornato dalla prigionia nel 1948 con la medaglia d’argento, ha fatto una carriera rapidissima nell’amministrazione pubblica fino al grado di vice prefetto (era vice prefetto quando io facevo il Sessantotto), è andato in pensione nel 1974 con la legge dei superburocrati. Era un legalitario, ma anche uno spirito avventuroso, aperto al futuro, e aveva il dono dell’ironia. Anche se ufficialmente lo doveva negare, amava il mio spirito ribelle. Mi diceva: ”Vai”. Ho preso da lui la parte gaudente, laica, propositiva. E’ morto a 82 anni e usava Internet. Mia madre, cattolica di un cattolicesimo piuttosto bigotto, e rivolta al passato, non sa neppure cos’è Internet: ne ha terrore>. Viene ai suoi concerti? <E’ venuta con mio padre, che ha tentato sempre di stanarla. E penso che goda del mio successo. Ma se, per caso, avessi un insuccesso, non mi darebbe una mano. Mi direbbe: ”Hai visto?”. Il successo, per lei, dipende da quello che scrivono i giornali e dice la televisione. Il mio rapporto con Simona, la mia ex moglie, l’ha vissuto sui media. Non è andata mai in profondità. Non è adatta. Non mi ha mai parlato delle mie canzoni. Mio padre le capiva prima di me>. Quando vi sentite, di che cosa parlate? <Di italiano, di neologismi, degli strafalcioni radiofonici e televisivi. E’ una grande grecista, in grado di fare una traduzione simultanea greco-latino, greco-italiano. La interpellano ancora perché è lucidissima. Non ha fatto la carriera universitaria perché si credeva goffa>. Non le ha insegnato nulla? <Nel suo Dna c’è l’onestà. Ma non vorrei assolutamente una donna come mia madre. Mi ha insegnato a vedere il male in tutte le cose: non c’è speranza. Il bene forse è lei. Io ho cercato di insegnarle l’amore, che confonde con il possesso. Con mio padre ci siamo amati, odiati, scannati, ma è stata un’escalation di affetto e di comprensione, un rapporto che si è compiuto e auguro a tutti: non avere rimorsi né rimpianti. Con mia madre niente, perché ha paura della vita. Quando sono venuti a vedere questa casa, lui era contentissimo, lei non è entrata, è restata in piazza. E non è più venuta: ”Non vengo perché ci sono le scale”. Non era venuta neanche quando non c’erano>. Si è chiesto la ragione? <Questa, come le altre case, è un passo ulteriore della mia autonomia: rappresenta la mia vita, con un’altra donna>. Antonello Venditti fa una pausa, beve un bicchiere di Coca Cola light con ghiaccio, accende l’ennesima sigaretta. <Devo la voce, a mia madre: questo sì. La mia voce è la sua: lo squillo che ho è assolutamente suo. Le devo anche la predisposizione alle lacrime: la sua reazione alla vita è il pianto, me lo ha attaccato. Ma siccome piange nella buona e nella cattiva sorte, non sai mai se sono lacrime di gioia o di tristezza>. Le sue (poche) parole pesano ancora? <Contano un po’ di meno. Prima erano devastanti. Un no mi faceva precipitare nei sensi di colpa. Mi ha dato il complesso di colpa del vivere. Non riesco a godere la mia vita come potrei. Ma non le rimprovero nulla. Come posso rimproverare una madre che mi ha costretto a essere libero? Devo alla sua dittatura la mia libertà. E la ringrazio. Grazie, mamma. Ti amo>. Luigi Vaccari