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 2006  gennaio 09 Lunedì calendario

Lennon Sean

• New York (Stati Initi) 9 ottobre 1975. Figlio di John e Yoko Ono. Cantante • «[...] assomiglia a suo padre [...] gli stessi occhi castani che si muovono inquieti dietro gli occhiali rotondi, lo stesso naso, la stessa barba scura e riccioluta, persino lo stesso modo di fare anelli di fumo con le sigarette. Soltanto di profilo si riconoscono Yoko e la sua parte giapponese. Ha lo stesso modo di parlare di John e la sua stessa irrefrenabile capacità di inventare giochi di parole. La sua voce melodiosa dall’accento americano talvolta sembra assumere un’inflessione britannica, persino di Liverpool, come se qualche indistruttibile particella di John rimanesse ancora negli strati più profondi della sua personalità. [...] Quando John fu ucciso Sean aveva appena cinque anni, vale a dire l’età in cui la memoria sta appena iniziando a formarsi [...] “Ricordo mio papà che mi insegna a costruire un aeroplanino di carta - che so ancora costruire esattamente nello stesso modo - e poi a farlo volare. Mi ricordo che guardavamo insieme il Muppet Show e Jeckyll and Hyde, e che non mi era permesso vedere altro alla televisione”. Comunque, già a quell’età, Sean riconobbe, per citare le parole di una delle ultime autoanalisi dello stesso John, il piccolo bambino che stava dentro il grande uomo. “Ricordo che Alice, la nostra gatta nera, inseguendo un piccione si era lanciata dalla finestra ed era morta, e ricordo che quella fu la sola volta, credo, in cui vidi mio papà piangere. Molti ricordi hanno come sfondo l’acqua: il caldo e azzurro oceano delle Bermuda; le gelide e grigie onde di Long Island; la piscina piena di cloro della Ymca. Era orgoglioso del fatto che sapevo nuotare benissimo. Ricordo che a Cold Spring Harbor avevamo una barca a vela di colore verde e credo che io l’avessi chiamata Flower. Ricordo che una volta Fred Seaman la fece accidentalmente scuffiare e tutti noi ci ritrovammo in acqua; mio padre mi stava accanto, e ricordo di aver visto le ciabatte che mi avevano comprato in Giappone trasportate via dalla corrente: mi dispiaceva moltissimo perche adoravo quelle ciabatte, ma mio padre mi disse: ’Non ti preoccupare, te ne prenderemo un altro paio.’. Poi io gli chiesi: ’Ci sono pesci in acqua?’, e lui rispose di sì, facendomi venire una gran paura. Ma c’era lui a proteggermi, e in realtà è un bel ricordo: a galla in mezzo all’oceano con mio papà e la barca capovolta. Ricordo che in casa indossava sempre un kimono yukata a motivi floreali bianco e blu e che teneva i capelli raccolti a coda di cavallo. Faceva anche bruciare un sacco di incenso. Me lo ricordo suonare la chitarra, mentre anch’io toccavo le corde e cantavo insieme a lui. Cantava sempre una canzone su ’Popeye the sailor man, lives on the Isle of Man.’. Ricordo che girava sempre scalzo; non portava mai le scarpe, e quando lo faceva, erano quasi sempre delle ciabatte. E per qualche motivo cercava di insegnarmi ad afferrare penne o altri oggetti con le dita dei piedi. Lo faceva continuamente perche aveva una straordinaria abilità ed era estremamente snodato. Mi ricordo che, seduto sul sedile della nostra Mercedes familiare, riusciva a mettersi la gamba dietro la nuca. E mi ricordo che si divertiva un sacco a saltare sul letto [...] Ogni sera, quando andavo a dormire, veniva nella mia stanza e diceva: ’Buo-na-not-te, Sean’, accendendo e spegnendo la luce al ritmo delle sue parole". Sean rimase ignaro della morte di suo padre fino alla mattina seguente. Inizialmente non riuscì a spiegarsi il motivo dei tanti sconosciuti che andavano e venivano per casa con una espressione cupa sul viso, della strana assenza di suo padre e della baraonda: le barriere della polizia, le troupe televisive, i fiori, i gemiti di cordoglio che si sarebbero presto ripetuti in tutto il mondo. “Ricordo che ero nella mia camera da letto e che qualcuno venne a dirmi che mia mamma voleva parlarmi, e di aver percepito la stranissima atmosfera che c’era in casa e la gran folla di gente che stava fuori. Mia mamma era sul letto, sotto una coperta, e giuro di avere visto un giornale e di avere quasi capito qualcosa del titolo in prima pagina. Rammento che stavo davanti a mia madre e che lei mi disse: ’Hanno sparato a tuo papà, ed è morto’. Ricordo che in quel momento la cosa più importante per me era che lei non mi vedesse piangere. Ricordo di averle detto: ’Non preoccuparti, mamma, sei ancora giovane. Troverai qualcun altro’, perche, a cinque anni, quella mi sembrava la cosa più matura da dire”. Nei terribili giorni che seguirono ci furono momenti in cui quel bambino di cinque anni si sentì completamente solo. “Dopo, mia mamma sembrò estremamente stanca, diciamo così. Rimase a letto per parecchio tempo. Ricordo varie persone che cercavano di consolarmi. Ma i miei genitori non avevano veri e propri legami familiari: avevano ’tagliato molti ponti’, come diceva mia mamma. Perciò, non c’erano molte persone che potessero fungere da figure paterne. Mio papà era morto: punto e basta. Tutti gli altri erano soltanto dei dipendenti. E così ricordo che non c’era nessuno che potesse consolarmi”. Passarono diversi anni prima che Sean comprendesse chi e cosa era realmente stata quella figura che, con i capelli raccolti a coda di cavallo e le ciabatte ai piedi, gli insegnava le buone maniere a tavola e gli cantava ninne nanne per farlo addormentare. “Molte delle immagini che ho di mio padre mi sono giunte dai media, e queste immagini le condivido con il resto del mondo. Credo che, in un certo senso, quando ero piccolo provassi gelosia del fatto che il mondo intero lo conoscesse meglio di me e avesse trascorso più tempo con lui di quanto ne avessi passato io. Ma l’immagine di una persona che si ottiene osservando la sua opera non è assolutamente paragonabile a quella che si ottiene standogli in braccio”. A mano a mano che cresceva, Sean scoprì che il modo migliore per avvicinarsi a suo padre era mettersi a suonare lui stesso. “Me lo ricordavo seduto davanti al piano, e così cominciai anch’io a suonare il piano. E quando suonavo, mi sentivo sempre come se stessi comunicando con lui, come se fosse una sacra preghiera, o qualcosa del genere. Ogni volta che facevo progressi a livello musicale, mi sembrava di farli anche nel mio rapporto con lui. E ora, quanto più comprendo il modo di comporre musica, tanto più sento di comprendere anche lui, perche John era, più di ogni altra cosa, un compositore di canzoni”. Malgrado tutte le allettanti offerte da parte dell’industria musicale, Sean non si è lasciato trasformare in un clone di John Lennon, come lo è stato brevemente il suo fratellastro Julian alla metà degli anni Ottanta. A differenza del padre, che perlopiù suonava la chitarra ritmica, Sean si è specializzato nella chitarra solista; nelle sue canzoni, gli accordi e le parole prendono costantemente direzioni imprevedibili, con uno stile che ricorda soprattutto il primo David Bowie. La sua musica ha in comune con quella del padre soltanto lo spirito umanitario: [...] “La gente talvolta pensa che io cerchi di distanziarmi da John Lennon come musicista, ma non è affatto così. Il solo motivo per cui faccio musica è proprio che mio padre era un musicista e un compositore”. Il suo giudizio sul talento musicale del padre sarebbe stato certamente condiviso da John. “Penso che si sentisse insicuro su tutto: grammatica e scrittura, lettura e composizione musicale, il modo convenzionale di apprendere le cose. E questo difetto seppe volgerlo a suo vantaggio. Ha inventato la canzone dell’insicurezza: ’I’m a loser and I’m not what I appear to be’ (Sono un perdente e non sono quello che appaio) o ’Help!’. Diceva che Bob Dylan gli aveva insegnato a scrivere in prima persona sulla sua vita reale. Ma Dylan non ha mai scritto una canzone che riveli le sue emozioni in modo altrettanto diretto. Dylan osserva sempre le emozioni altrui; è come una specie di giornalista: non esprime un giudizio morale, ma registra e dà voce a qualcosa che è già nell’aria. Questo è stato anche un aspetto dell’opera di mio padre, ma, secondo me, non il migliore. ’Give Peace a Chance’ è eccezionale, ma non è la canzone che voglio ascoltare quando torno a casa; non è bella come ’You’ve Got to Hide Your Love Away’, ’Girl’ o ’In My Life’. Per me, queste canzoni sono a un livello completamente diverso. Esprimere la propria insicurezza e mettersi in discussione come ha fatto mio padre nelle sue canzoni è, per quanto riguarda gli uomini, un fenomeno postmoderno. E questo senso di insicurezza, che innumerevoli cantautori hanno poi cercato di copiare, è stato lui a inventarlo”. I Beatles, sostiene Sean, sono stati un trampolino di lancio per John, per quanto insopportabile potesse essere diventata alla fine la sua vita con loro. “Non credo che mio papà sarebbe diventato commerciale senza Paul e George Martin. Voglio dire, commerciale nel senso di rendersi appetibile alle masse: non mi pare che fosse questa la sua specialità. Penso che fosse inquietamente moderno e stimolante, e queste due cose non sempre coincidono con i gusti del pubblico. Credo che sia stato proprio lo zucchero spruzzato sui Beatles, con al centro mio padre come nucleo di esplosiva energia, ciò che li ha resi un prodotto insuperabile. Quando abbandonò i Beatles e formò la Plastic Ono Band con mia mamma, per me fu come quando Matisse abbandonò la pittura e decise che da quel momento in poi tutto quanto aveva da dire sul piano artistico poteva essere detto con poche semplici forme ritagliate nella carta. L’album ’The Plastic Ono Band’, per conto mio, è il miglior album rock che sia mai stato inciso”. Sean ammette di avere ben poco da condividere con i milioni di persone per cui suo padre è diventato un santo laico. “Mia mamma non capisce perché non voglio incontrare chi adora John Lennon, partecipare ai concerti in suo onore o visitare il John Lennon Museum. È semplicemente troppo doloroso. Vedere uno spettacolo su di lui a Broadway per me è stato come attraversare nudo le fiamme dell’inferno. Perche quei ricordi della mia infanzia per me sono molto importanti. Nel vederli cooptati per l’esposizione in un museo o per un musical di Broadway mi fa sentire come se fossi violato. A livello spirituale, non mi sento arricchito nel fare interviste, presenziare a cerimonie in suo onore, inaugurare musei e vedere i miei ricordi di mio padre trasformati in un evento mediatico. Non leggo libri su di lui, né vado a vedere film o spettacoli dedicati a lui. Non ho bisogno di dimostrare al mondo che ha fatto tutte queste cose. E non credo che lo avrebbe infastidito il fatto che io abbia ereditato la sua vena ribelle. Ho la musica e ho i ricordi, e questo è quanto c’è per me di più prezioso. Ho John nel mio cuore» (Philip Norman, “L”Espresso” 3/12/2009).