Note: [1] Sandro Viola, la Repubblica 6/1; [2] Antonio Ferrari, Corriere della Sera 5/1; [3] Maurizio Molinari, La Stampa 6/1; [4] Igor Man, La Stampa 6/1; [5] Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 6/1; [6] Zvi Schuldner, il manifesto 6/1; [7] Alberto St, 7 gennaio 2006
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 9 GENNAIO 2006
Quelle del prossimo 28 gennaio dovevano essere le prime elezioni israeliane in cui il tema della ”sicurezza” (con cui le destre hanno sempre giustificato la necessità dell’occupazione) sarebbe passato in secondo piano. Da quando mercoledì sera Ariel Sharon è stato colpito dalla seconda emorragia cerebrale (dopo l’ictus del 18 dicembre) la maggior parte dei commentatori di tutto il mondo avverte che senza il premier (e leader del nuovo partito Kadima) tutti gli equilibri rischiano di saltare. Sandro Viola: «Kadima aveva come slogan ”Sharon: un leader forte per la pace”, e il Labor di Amir Peretz avrebbe puntato sull’utilizzo nella spesa sociale delle risorse sinora assorbite dalle colonie. Ma adesso è diverso: con il Likud di Netanyahu che giocherà tutte le sue carte, ancora una volta, sulla questione ”sicurezza”, che poi vuol dire niente ritiri dai Territori, niente negoziato con i palestinesi, chi oserà lasciare la bandiera della ”sicurezza” nelle mani delle sole destre?». [1]
Da mesi quelli del Likud accusavano Sharon (che ne è stato a lungo il capo) di averli traditi con la decisione di ritirarsi da Gaza e di smantellare tutti gli insediamenti ebraici nella Striscia. [2] Il politologo Aluf Benn: «I grandi vincitori politici del deterioramento della salute di Sharon sono i due principali leader del Likud, Benjamin Nethanyahu e Silvan Shalom, perché il primo può tornare a sperare di guidare il governo mentre il secondo è l’artefice della decisione di non lasciare più l’attuale governo». [3]
Per il Partito laburista, principale forza dell’opposizione, non sarà tanto facile adattarsi alla nuova situazione. Antonio Ferrari: «Dopo aver scelto di liquidare gli anziani condottieri, come Shimon Peres, si è affidato al più giovane Amir Peretz nella speranza che quest’ultimo possa contribuire incisivamente al rilancio del negoziato di pace». [2] Shimon Peres, premio Nobel per la pace ed ex premier, è passato a Kadima. Sarà lui a prendere il posto di Sharon? Igor Man: « difficile, per non dire impossibile, che Shimon Peres, l’eterno secondo, possa assumere il ruolo unico di Sharon che con il ritiro da Gaza ha sparigliato le carte, proponendo non senza coraggio un ultimo giro ”al buio”». [4]
La fine dell’era politica di Sharon pone al cuore del dibattito il futuro del partito di centro fondato dal premier solo un paio di mesi fa. Lorenzo Cremonesi: «Tutto dipende dal nuovo premier ad interim Ehud Olmert. Se sarà in grado di mantenere l’unità ed evitare gli scontri interni per la premiership, nonostante il suo carisma sia infinitamente minore di quello di Sharon, allora ha ampie possibilità di successo alle elezioni del 28 marzo. Ma se lascerà che un transfuga dai ranghi laburisti per eccellenza quale è Shimon Peres si scontri con lui, o con l’attuale ministro della Difesa Shaul Mofaz, o ancora con un nuovo aderente ai ranghi del partito qual è l’ex capo dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) Avi Diechter, allora Kadima è destinato alla morte». [5]
Quando Sharon ha deciso di abbandonare il Likud per porre fine alle difficoltà creategli dai cosiddetti «ribelli», ha dato vita a un partito a sua immagine e somiglianza. Zvi Schuldner: «Il capo supremo deciderà chi saranno i futuri ministri; invita emeriti sconosciuti a unirsi alla lista. Un’anonima dottoressa arriva nel suo ufficio? Sarà deputata. Poco dopo, un giovane dal fisico atletico annuncia alla madre che ha appena discusso con il leader e già si vede alla Knesset. La direttrice generale del ministero dell’educazione, vice di una ministra rimasta nel Likud, dichiara ai media che non ricorda per chi votò alle ultime elezioni; non sa bene cosa pensare della questione della pace e dei territori, ”però non vuole continuare a essere la numero due” e trasloca nel nuovo partito. Per fare cosa? Per decidere cosa? In base a quale linea? Nessuno se ne cura, il leader deciderà». [6]
Adesso tocca a Olmert preparare la lista dei candidati alle elezioni. Dany Ben Simon: «Non esiste un vero testamento politico di Sharon. Il rischio è che ora ci si scanni per stilare la lista». Tom Segev: «Kadima non ha ancora avuto il tempo di crescere come partito. Non ha militanti consolidati, né scale gerarchiche, manca di una piattaforma politica. Per ora resta un gruppo molto eterogeneo di personaggi politici che si erano riuniti attorno alla figura mitologica di Sharon. Era lui il collante e il motore propulsore. Perché non c’è dubbio che questi è l’ultimo padre della patria paragonabile alla statura di David Ben Gurion. Ora solo Olmert offre il senso della continuità. il depositario della volontà del capo. Cercare di sostituirlo vorrebbe dire il caos». [5]
La figura di Olmert è destinata a riportare Israele alle «banalità della piccola politica quotidiana». Segev: «Tanto Sharon per la sua biografia, con i capitoli leggendari della sua carriera militare e gli alti e bassi della sua carriera politica, è diventato un leader intoccabile, quasi inumano; quanto Olmert è il risultato diretto della democrazia israeliana. Un esperto dei mercanteggiamenti alla Knesset (il Parlamento). Olmert ha compiuto sessant’anni. Ma fa politica da quaranta. stato un avvocato di successo, non immune da gravi scandali per corruzione. Da cui è riuscito sempre a districarsi... Ma è anche noto per il suo coraggio. Nel 1969, quando era ancora membro dei gruppi giovanili del Herut (l’ex partito della destra sionista che nel 1973 si unì ai liberali per formare il Likud, ndr.), non esitò a chiedere pubblicamente le dimissioni di un mostro sacro quale era allora l’ex padre del sionismo nazionalista Menachem Begin». [5]
La successione è complessa, come complesso è il personaggio Sharon. Alberto Stabile: «Il punto è, come ha scritto Alex Fishman su ”Yedioth Aaronot”, che Sharon non era soltanto un primo ministro capace. Era anche un ”ufficiale comandante”, che si era posizionato al vertice della piramide della sicurezza, in Israele la madre di tutte le competenze. Non solo Sharon prendeva la decisioni strategiche ma mediava anche tra l’esercito ed i vari apparati tutte le volte che si manifestavano conflitti. Per cui, già oggi, per colmare il vuoto lasciato in questo campo non basta Olmert da solo. Ci vorrà una troika composta dal Premier ad interim, dal ministro della Difesa, Shaul Mofaz e dal Capo di Stato maggiore, Dan Halutz». [7]
Secondo un sondaggio pubblicato la settimana scorsa da ”Haaretz”, se fosse Shimon Peres a guidare Kadima alle elezioni il partito si aggiudicherebbe 42 dei 120 seggi della Knesset, il Parlamento israeliano; con Olmert ne prenderebbe 40, con il ministro della Giustizia Zippi Livni 38, con quello della Difesa Shaul Mofaz 26; un sondaggio pubblicato da ”Maariv” il 30 dicembre stimava che con la guida di Sharon ne avrebbero presi 40. Il problema sarà mantenere questi consensi. L’ipotesi più accreditata è che Kadima si organizzerà per la campagna elettorale offrendo ai votanti un ticket Olmert-Peres. [8]
«Le conseguenze per noi palestinesi? Di male in peggio». Saeb Erekat, dirigente del team palestinese che si occupa dei rapporti con Israele: «La scomparsa politica di Sharon, almeno nel breve e medio periodo, rappresenta per noi palestinesi l’approssimarsi di nuove sofferenze. Ora si blocca tutto. Israele si chiude su se stesso alla ricerca di nuovi leader. Generalmente in campagna elettorale la nostra situazione nei territori occupati diventa peggiore. I dirigenti israeliani fanno a gara tra di loro per guadagnare simpatie tra l’elettorato e lo fanno giocando a chi è più duro nei nostri confronti». [9] Hafez Barghouti, direttore di ”Al Hayat al Jadida”, uno dei quotidiani palestinesi più letti: «Francamente mi stupiscono tutte queste dichiarazioni che sostengono che la scomparsa dalla scena politica mediorientale di Ariel Sharon danneggerà le speranze di pace con i palestinesi. Nei nostri confronti non penso che ci sia stato nessuno di peggiore. Ha fatto di tutto per allargare l’odio fra i nostri due popoli. Massacri, distruzioni, ha fatto costruire il Muro rubandoci altra terra, ha usato armi micidiali contro di noi. Mancava solo l’atomica». [10]
Mahmoud Abbas sa bene che senza Sharon potrà offrire ben poco a un popolo sfiduciato, che per protesta (non certo per convinzioni religiose o ideologiche) è pronto a sostenere gli integralisti di Hamas, come rilevano quasi tutti i sondaggi. Ferrari: «Per tutte queste ragioni le gravi condizioni di Sharon possono avere conseguenze politiche non soltanto in Israele e in Palestina, ma in tutta la regione: turbata dal tormentato dopoguerra iracheno, dall’aggressività dell’Iran guidato dal presidente estremista Ahmadinejad, dalla grave crisi che sconvolge la Siria, accusata d’essere responsabile dell’assassinio dell’ex premier libanese Rafic Hariri. Ecco perché il Medio Oriente ripiomba nella paura, proprio come la ex Jugoslavia durante la fatale malattia del presidente Tito, nel 1980». [2]
Israele è un paese democratico eppure in queste ore assistiamo a un fenomeno analogo a quello che avviene negli stati totalitari alla scomparsa di un leader. David Grossman: «Il governo di Sharon era centralizzato a tal punto che a momenti pare che nessuno possa prendere il suo posto. Si ha la sensazione che nonostante la chiara volontà della maggior parte dell’opinione pubblica - espressa a più riprese nei sondaggi - di terminare il conflitto e di stabilire una volta per tutte i confini definitivi di Israele, al momento non vi sia un leader che possa, al pari di Sharon, compiere il duro e faticoso cammino verso questi traguardi. difficile credere che qualcuno possa portare a termine un altro ritiro unilaterale, piccolo o grande che sia, senza spargimenti di sangue, un’eventualità evitata durante lo sgombero della striscia di Gaza soprattutto grazie all”accettazione da parte della maggior parte degli israeliani dell’autorità e della volontà di Sharon». [11]
Non che Sharon avesse dato una mano, dopo il ritiro da Gaza, ai dirigenti palestinesi. Viola: «Anzi, ne aveva in vari modi aggravato le difficoltà. Basta pensare che non uno dei coloni che tra ottobre e novembre, con prepotenza odiosa, avevano divelto o segato alla base migliaia di ulivi palestinesi, è mai stato arrestato. Basta pensare agli aerei da combattimento israeliani che passano su Gaza, più volte al giorno, rompendo il muro del suono e scuotendo i timpani, i nervi, la mente della popolazione. anche per questo, infatti, che il prestigio di Abu Mazen è andato sempre più precipitando: perché la sua gente s’accorgeva della sua incapacità di proteggerli, della sua totale impotenza nei confronti d’Israele. Eppure, si può esser certi che l’uscita di Ariel Sharon dalla scena angustia la parte moderata, la più realista e aperta ad un possibile negoziato, della dirigenza palestinese. Perché Sharon era, in Israele, il potere: ed è soltanto con chi ha il potere che è possibile trattare, intendersi». [1]
Soltanto il «soldatoArik» poteva imporre la pace. Igor Man: «Una pace monca, una ”bozza” di quella in buona e dovuta forma da tutti sospirata, magari un patto leonino acconciamente truccato, nulla di perfetto, d’accordo, ma sempre meglio che l’attuale disordine nutrito dall’integralismo di Hamas e dal furore dei coloni sfrattati da Gaza. Le premesse d’una svolta nel segno della road-map c’erano, e buone. Il partito fondato in quattro e quattr’otto da Sharon (Avanti) aveva pressoché prosciugato il Likud; i sondaggi lo davano vincente alle elezioni di marzo. Il ”vengo anch’io” di Shimon Peres, il visionario polacco che diede forma scritta al disegno pacifico di Rabin aveva dato corpo al grande slam politico di Sharon penalizzando il partito laburista in piena e faticosa ristrutturazione. Non sembrava dunque eccessivamente ottimistico pensare che Abu Mazen, l’anemico successore diArafat, avrebbe sfidato Hamas alle imminenti (?) elezioni palestinesi frenando il suo dilagare nei territori occupati. Tutto si tiene: la scontata vittoria elettorale di Avanti avrebbe comportato quella ”svolta negoziale” su cui America ed Europa puntavano in termini politici e di business». [4]
Raramente gli analisti di tutto il mondo sono stati tanto concordi nell’attribuire alla capacità di leadership di un uomo di Stato, alla sua personalità, al suo carisma un ruolo pressoché decisivo nella gestione e sulle prospettive di successo di un processo politico. Piero Ostellino: «Le sue qualità personali, la sua stessa storia, il modo con il quale egli ha guardato alla propria funzione, la specificità della situazione in cui si è trovato a operare, le condizioni politiche e ambientali che ne hanno esaltato il ruolo, sono tutti elementi che hanno contribuito a fare di Ariel Sharon il solo statista israeliano in grado di portare finalmente e felicemente a soluzione il lunghissimo e tormentato cammino verso la convivenza pacifica fra ebrei e palestinesi dopo oltre cinquant’anni di guerre». [12]
Hamas o, meglio, l’ala militante che con i sussidi distribuisce armi e alleva terroristi, convinta com’è d’aver costretto Sharon a sgomberare Gaza perché logorato da una instancabile guerra d’attrito, piccola ma perniciosa, starebbe organizzandosi in vista d’una terza intifada. Man: «Si annuncia un tempo boreale in Palestina. Sempre ché non arrivi uno dei miracoli di cui parlava Ben Gurion. Un ”miracolo” che parli yankee». [4] Luigi Geninazzi: «Insomma, le previsioni sono le più fosche. L’unica speranza è che in Medio Oriente i pronostici si rivelano quasi sempre sbagliati». [13]