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 2006  gennaio 06 Venerdì calendario

ANCESCHI

ANCESCHI Giovanni Milano 12 settembre 1939. Designer • «[...] è un incrocio, un trivio o più probabilmente un quadrivio: arte programmata, scuola di Ulm, grafica di pubblica utilità, insegnamento universitario, dal Dams di Bologna allo Iuav di Venezia. La sua persona ha attraversato, ed è stata attraversata, da mezzo secolo di cultura italiana, quella che ha praticato l’innovazione dei linguaggie delle forme espressive nel modo più utile e sintetico: mediante il fare. Anceschi rappresenta la linea lombarda, come recita il titolo di un libro del padre, il grande Luciano, filosofo, studioso di estetica. [...] ha studiato filosofia, a Milano, con Enzo Paci e Cesare Musatti. ”Cominciammo il corso commentando Le meditazioni cartesiane di Husserl, un testo arduo che Paci ci spiegava e discuteva con noi. Musatti si dedicava in quegli anni, parlo della metà degli anni Cinquanta, allo studio della Gestalt. Tuttavia nel 1957-58 ho detto amio padre: ”Non mi laureo, vogliofare il pittore”. Mi ha risposto: ”Devi imparare a disegnare”. E così mi ha portato da Achille Funi che insegnava a Brera”. Ecco il primo incrocio di Giovanni Anceschi: da una parte l’arte, dall’altra la filosofia. Sceglie l’arte. ”Frequentavo Brera come uditore. Ho imparato a fare l’affresco. Lì ho incontrato i futuri membri del Gruppo T, erano allievi di Funi. Conoscevo, per via delle frequentazioni di mio padre, anche Baj e Fontana. A un certo punto ho fatto anche una mostra con Baj a Parigi”. L’arte cinetica e programmata è stata una delle più affascinanti esperienze dell’arte italiana: il movimento, l’uso della luce, il coinvolgimento del pubblico, la mobilitazione dei cinque sensi. La sua influenza sul design, la grafica, la fotografia italiana degli anni Sessantaè stata notevole: Bruno Munari, Enzo Mari, Manfredo Massironi, Joe Colombo. La computerart, l’arte percettiva e interattiva vengono da lì. Umberto Eco ne è stato uno dei teorici. ”Alla fine degli anni Cinquanta abbiamo fatto la prima mostra, alla Galleria Pater. Abbiamo venduto tutto, e il gallerista ci ha detto: fate cinque mostre. Allora abbiamo fondato il Gruppo: T come tempo. Lavoravamo in sintonia con i gruppi francesi.Avevamo un’idea, cambiare il mondo con l’arte. Studiavamo molto, discutevamo, scrivevamo manifesti. Siamo durati sino al 1968, almeno ufficialmente; per me il GruppoT non si è mai chiuso”. Nel 1962 Anceschi è andato a studiare a Ulm. Perché? ”Pensavo fosse importante, in fondo non avevo mai smesso di farlo anche con il Gruppo. E poi Gillo Dorfles mi disse: ”Vai a Ulm, c’è una nuova scuola diretta da un argentino, Maldonado. Mi indirizzava a studiare design e invece seguii comunicazione visiva”. Ecco l’altro bivio,in un certo senso una specie di deviazione: dall’arte alla scienza dei segni. Non è così? ”A Ulm, la nuova Bauhaus, c’è stato l’innamoramento per la semiotica. Bonsiepe, in parallelo con Roland Barthes, aveva avviato la rinascita degli studi”. Ma perché ha rinunciatoa fare l’artista? ”Nessuna rinuncia. Noi pensavamo che l’attività artistica fosse un’attività intellettuale. Nella prima mostra del Gruppo T c’era anche una parte teorica, con le immagini dei lavori e gli scritti dei nostri predecessori: Klee, Kandinskij, Boccioni, Brancusi, Manzoni. Prendevamo alla lettera le parole delle avanguardie: faremo delle opere con dentro la luce elettrica. E il rapporto tra arte e vita. Poi è venuto il Sessantotto”. Lei dov’era? ”In Algeria. Seguivo gli avvenimenti del Maggio francese alla radiolina”. Come c’era arrivato? ”Da Ulm. Dopo 5 anni, sono andato in Algeria con una collega per lavorare all’immagine coordinata dell’ente del petrolio algerino, l’avevano appena nazionalizzato”. Da artista a studente, da studente a grafico? ”C’era il terzomondismo, e poi Maldonado parlava dell’intellettuale tecnico. Non ho mai pensato che il design o la grafica sostituissero l’arte; volevo solo fare qualcosa di altrettanto importante. La parola che circolava all’epoca era: cambiamento radicale; e poi: rivoluzione. Abbiano cambiato il colore delle stazioni di servizio dell’Algeria. C’erano le insegne e i colori delle compagnie straniere, e noi abbiamo dato il bianco a tutti gli edifici lasciando solo un paletto nero con il marchio SH. Ci sembrava un grande cambiamento”. E poi? ”Sono tornato in Italia negli anni Settanta. Argan e Menna mi hanno chiamato a Roma, avevano aperto un corso di Disegno industriale e comunicazione visiva. Ho iniziatoa insegnare Basic design, una cosa che aveva a che fare con l’arte, con tutte le mie esperienze. Allenavo gli studenti a padroneggiare problemi formali. Il maestro era stato uno degli ispiratori del Gruppo T, Bruno Munari, l’unica figura che aveva lavorato su questo design di base”. Dietro alla nascita del design italiano ci sono le avanguardie del primo Novecento, figure anomale come Munari, ma anche le rapide trasformazioni della società italiana. ”L’impegno politico era dominante. Si faceva un insegnamento pratico: usare i caratteri, come disegnare e stampare manifesti. Io stesso ho disegnato il logo di Potere operaio con Fabio Bonzi; me lo aveva chiesto Nanni Balestrini”. Arte e politica s’incrociavano? ”A Roma ho conosciuto Adriano Spatola e Giulia Niccolai, per loro ho inventato la testata di TamTam, la rivista di poesia. Avevo iniziato a vivere con Milli Graffi, la mia compagna, poetessa lei stessa. Ho attraversato quel decennio seguendo due itinerari paralleli: letteratura e politica, basic design e politica. Ho anche disegnato il logo per la Camera di Commercio di Roma”. L’itinerario di Anceschi in realtà è circolare: avanza retrocedendo. Ma è anche come una valanga di neve che ingrossa se stessa inglobando ciò che incontra sulla propria strada senza che la forma muti davvero. ”Alla fine degli anni Settanta sono andato a insegnare a Preganziol, sede distaccata di Architettura di Venezia. Lì si formavano gli urbanisti. Vivevo a Milano, andavo avanti e indietro”. Quando è finita quell’epoca? ”Quando è finito il Sessantotto e siamo entrati negli ”anni di piombo’. Stava arrivando l’esotismo. Una mattina Milli mi dice: ”Voglio dedicarmi allo yoga’. Le ho replicato: ”Ci sei cascata anche tu!’. Il giorno dopo penso: ”Ha ragione lei’. Erano iniziati gli anni Ottanta”. E la professione? ”Avevo fatto diverse cose: l’immagine coordinata del servizio trasporti della Provincia di Bolzano, sollecitato dagli urbanisti; poi la grafica del Verri nuova serie, la rivista di mio padre. E ancora libri e piccole case editrici”. Come conciliava questo con l’insegnamento? ”Insegnare mi permetteva di fare solo i lavori che m’interessavano, non dovevo dare da mangiare allo studio”. Negli anni Ottanta c’è un altro bivio: l’attività di saggista. Esce Monogrammi e figure (1981), il testo chiave di Anceschi, con cui fonda in Italia la progettazione degli artefatti comunicativi: un’opera di sintesi che trasforma la grafica in un’attività anche teorica; contiene saggi sul marchio, il manifesto, l’impaginazione della fotografia, una piccola storia della grafica dei giornali. C’è dentro tutta la sua esperienza di artista, la scuola di Ulm, la semiotica, la filosofia, la Gestalt, Max Bense,che Anceschi ha tradotto, ma anche la tradizione italiana. un saggio per immagini, secondo lo stile di Walter Benjamin. Il fatto di essere stato un crocicchio di tante storie e culture differenti fa sì che il posto di Giovanni Anceschi nella cultura italiana non sia ancora adeguato ai suoi meriti; inoltre, l’inquietudine, il rovello, la curiosità gli hanno impedito di definirsi in un solo modo. L’ultima frontiera, a cui molti hanno attinto senza pagar pegno, si chiama Interfacce, ovvero i pulsanti del cellulare, i bottoni dei distributori automatici, tutto il Web.’La maggior parte delle interfacce con cui abbiamo a che fare sono tonte. E invece dovrebbero danzare [...] Le discipline contengono un aspetto etico. Un grafico, un designer, oggi si misura con i grandi marchi, con le multinazionali, le veri eredi del nazismo: è il nazismo che ha inventato l’immagine coordinata creando un mondo di adepti. Ebbene l’etica serve per questo. Ma non basta. Ci vuole la politica”. E le interfacce? ”Servono a rendere migliore il mondo. Sono qualcosa di etico e di politico insieme. In fondo, in tutti questi anni ho lavorato sempre a una cosa sola: creare una disciplina complessiva che tenga insieme arte e politica, grafica e cultura. Si chiama teoria del progetto di comunicazione. Sono sempre rimasto un artista”» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 6/1/2006).