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 2004  agosto 02 Lunedì calendario

Vita breve e fulgida di Otis, l’ascensore per il paradiso del soul, il Giornale, 02/08/2004 Cleveland, Ohio

Vita breve e fulgida di Otis, l’ascensore per il paradiso del soul, il Giornale, 02/08/2004 Cleveland, Ohio. 9 dicembre 1967. Il giovane Otis Redding, con le sue ballate sensuali, inchioda davanti alla Tv milioni di americani. il simbolo della musica soul, un altro nero che ce l’ha fatta, legando il successo all’orgoglio della razza; una star di colore che controlla in piena autonomia il proprio destino, mattatore dello show televisivo ”Upbeat”. Con un pugno di canzoni tinte di gospel come I’ve Been Loving You Too Long (cavallo di battaglia anche di Aretha Franklin) diventa il ragazzo prodigio della musica giovane, l’uomo che ruba il trono a re Elvis conquistando sul campo il titolo di «miglior cantante del mondo». Nel dicembre 1967 Otis va forte. Non è selvaggio come James Brown o Wilson Pickett ma ha un carisma e un fascino irresistibili. La gente fa a botte per assistere ai suoi concerti e quella sera, al Leo’s Casino, Otis è costretto a un tour de force di tre spettacoli, uno alle otto di sera, uno alle dieci e mezzo ed uno all’una del mattino. Finita l’orgia di pubblico, si concede una bottiglia di whisky e qualche ora di sonno prima di partire per il prossimo palcoscenico: lo attende un megashow all’Università del Wisconsin. 10 dicembre 1967, nei cieli del Wisconsin, ore 15.28. Redding nonostante il tempo infame, è in volo sul suo bimotore Beechraft nuovo di zecca, insieme ai Bar-Kays, i cinque adolescenti che animano il suo formidabile gruppo. Pioggia, neve, la furia del vento trasformano il piccolo aereo in un giocattolo in balia delle intemperie. Otis è seduto davanti, accanto al pilota di lungo corso Richard Fraser, lì dove si balla di brutto strapazzati dal vento e dai vuoti d’aria. «Siamo nei guai - urla Fraser cercando di sovrastare il frastuono -, con questa tempesta non si vede nulla, i motori perdono colpi, meglio tentare un atterraggio d’emergenza all’aeroporto municipale di Madison». I frenetici contatti con la torre di controllo s’interrompono di colpo; il Beechcraft finisce in un vortice, i ragazzi sono paralizzati dal terrore. Il pilota riesce a riprendere la rotta una, due, tre volte; ora punta diritto versa l’aereoporto, mancano un pugno di miglia all’atterraggio... Poi, improvvisa, la discesa a precipizio e lo schianto nelle acque ghiacciate del lago Monona. Una scena già vista il 3 febbraio 1959, quando [...] precipitarono con un monoelica Buddy Holly, Big Bopper e Ritchie Valens. O il 21 ottobre 1977, quando il tonfo di un Corvair lasciò orfano il rock blues di parte dei Lynyrd Skynyrd, o ancora pochi anni fa quando uno schianto si portò via il fenomeno blues Stevie Ray Vaughan. 10 dicembre 1967, Lake Monona, ore 16.15. I sommozzatori recuperano i resti di Otis Redding, 26 anni di puro talento spezzati da uno stupido incidente. C’è una fotografia impressionante, rimasta negli annali della storia del rock, in cui si vede il corpo senza vita del re del soul che emerge dall’acqua, ripescato con un argano e issato su una lancia di soccorso. Con lui i corpi straziati del pilota e dei musicisti diciottenni Ron Caldwell, Carl Cunningham, Jimmy King e del segretario della band, il diciassetteme Matthew Kelley. Al disastro sopravvive solo Ben Cauley, uno dei Bar-Kays che continua a ripetere: «Otis e gli altri sono lì sotto, li sento urlare, chiedono aiuto [...]». Dopo soli cinque anni di attività, annunciato da una serie di macabri presagi, cala così il sipario sulle sue prediche soul. Chi crede ai simboli ricorda che il gruppo che quella sera avrebbe dovuto aprire il suo spettacolo si chiama The Grim Reaper (ovvero ”La spietata mietitrice”). Ironia della sorte, Redding ama l’acqua, compra una casa galleggiante nel porto di Sausalito, come va di moda tra artisti come Pete Seeger o la star della tv Bill Cosby e passa i giorni di riposo a vagabondare nella baia di Sausalito. Lì scrive un brano, inciso solo tre giorni prima di morire, che uscirà postumo e diventerà il classico dei classici soul. Otis lo sa, lo sente, telefona al suo agente e gli dice: «Ho il pezzo che ci farà vendere un milione di copie». Peccato che lui non lo saprà mai. Lento, melanconico, sognante, con effetti speciali come il grido dei gabbiani e le onde che si infrangono, si intitola (Sittin’On) The Dock of the Bay e recita: «Sono seduto sul molo della baia / a guardare le onde che si infrangono... Ho lasciato la mia casa in Georgia / per venire nella baia di San Francisco / non ho nessun obiettivo nella vita / ... Sono seduto qui a riposarmi / e la solitudine non mi lascerà / ho vagabondato per tremila chilometri / per trasformare questo molo in casa mia». Sembra quasi sentire che la fine è vicina. Pochi mesi prima del disastro dice: «So che da qui a 5 anni i ragazzi si stancheranno del mio modo di cantare. Quel giorno, se avrò ancora una mente sana e il buon Dio mi aiuterà, mi ritirerò a produrre dischi». Così il mito di Otis Redding entra nella leggenda. Nonostante , i percorsi paralleli tra rock’n’roll e soul, quest’ultimo manca di una figura eroica in grado di conquistare il pubblico dei bianchi e di competere con Elvis. Otis ci riesce, e diventa l’idolo del popolo rock consacrato ambasciatore di un nuovo suono che ha allattato artisti come Animals e Rolling Stones, illuminati sulla via di Damasco dalle sue Thats How Strong My Love Is e Pain In My Heart. Già nel ’65-’66 l’artista è un simbolo del riscatto dei neri, l’apostolo della black music, incide brani come These Arms of Mine, Pain In My Heart, Fa Fa Fa, Hard To Handle, ma la strada per entrare nell’empireo del rock è ancora irta di ostacoli, di amarezze, di umiliazioni. I rock’n’rollers, gli hippie, i figli dei fiori non se lo filano proprio, e anche chi ammira il suo stile, soprattutto nel Sud, lo fa con molte riserve. Parlando con alcuni ragazzi di Mobile, Alabama, il giorno dopo un concerto di Redding, il leader degli Animals Eric Burdon, emigrato dall’Inghilterra, scopre il lato oscuro del razzismo. «Otis è grandissimo», dice Burdon. «Sì, è il migliore e My Girl è fantastica», ribattono i giovani. «Siete andati a vederlo ieri sera?». «Starai scherzando, amico, quel posto era pieno di negri». Ma gli artisti che contano, quelli cresciuti a whisky e blues come Paul Butterfield, Grateful Dead, Jefferson Airplane, Janis Joplin sognano di vederlo cantare sul palco del Fillmore di San Francisco. Un evento storico: Redding sfida gli hippie sul loro terreno e nel dicembre ’66 calca le tavole del tempio del rock accompagnato dall’organista Booker T. Jones e dai suoi Mgs (il cui chitarrista Steve Cropper è oggi membro dei Blues Brothers). All’inizio non è molto convinto («Questo mondo è troppo lontano dal mio», dirà al suo manager) ma quando parte è una furia. Ha una presenza scenica formidabile; alterna brani ballabili e ballate melodiche per poi passare ai pezzi veloci, ritmatissimi, che infiammano il pubblico. Tutti ballano sotto il palco applaudendo e scandendo il suo nome; Janis Joplin, arriva in sala con 3 ore d’anticipo, pur imbottita di acidi, considera quello show una delle esperienze più profonde della sua vita. Ora Otis è davvero un Dio, ha conquistato il mondo del rock. L’investitura ufficiale arriva nel giugno successivo, davanti a 100 mila persone, nel fine settimana caldo e piovoso di Monterey che celebra il «1° festival internazionale della cultura rock». Quel giorno Otis è nervoso, spaventato. Dopo lo show dei Jefferson Airplane va dal suo manager, JerryWexler, e dice: «Abbiamo fatto un grosso errore. Hai visto quelli, con le luci psichedeliche e coloratissime, la gente è qui per quel genere di cose». Pochi secondi prima di entrare in scena non ha ancora deciso che pezzi cantare. All’una di notte di domenica 17 entra in scena gridando: «Vi amate tutti, non è così», e attacca i suoi classici improvvisando. Alle prime note di Shake Brian Jones scoppia in lacrime dall’emozione; a metà dello show Bob Weir dei Grateful Dead dice: «Si dimenava sul palco come una tigre in gabbia, ho avuto la sensazione che dai suoi occhi uscissero fulmini e saette». Il pubblico è in delirio. «Mi sembra che ce l’abbiamo fatta no?», chiede timidamente Redding a Wexler rientrando in camerino. «Sì, Otis. Ce l’abbiamo fatta. Come sempre». Antonio Lodetti