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 2004  agosto 05 Giovedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 9 AGOSTO 2004

Il mercato del petrolio ormai balla da solo.
Il petrolio ha sfiorato la settimana scorsa i 45 dollari per barile, il livello più alto dal 1983. [1] Riva: «Non durerà, non può durare: sono settimane che i più accreditati osservatori del mercato petrolifero si sforzano di lanciare messaggi rassicuranti sulla fiammata che ha investito il prezzo del barile. Ma, a dispetto di costoro e dei loro sofisticati ragionamenti, non passa giorno senza che le quotazioni del greggio raggiungano nuovi primati». [2]

Siamo di fronte al classico paradosso del calabrone, che vola a dispetto delle leggi dell’aerodinamica. Riva: «Ci si concentra perciò nella ricerca di ragioni contingenti ed estemporanee per spiegare ciò che, altrimenti, sembrerebbe inspiegabile. E, in effetti, la cronaca quotidiana offre sempre qualche motivazione plausibile. Un giorno si scaricano le colpe sul clima di tensione e d’attesa che circonda il referendum ferragostano sulla sorte del presidente Chavez e, quindi, del petrolio venezuelano. Un altro giorno la causa degli eccessi viene indicata nell’ennesimo attentato che paralizza gli oleodotti d’Iraq». Un altro giorno è tutta colpa della Yukos e della Russia. [2]

Ci sono molte ragioni per spiegare gli strappi più violenti nelle quotazioni del barile. Riva: «Ma non il fatto (questo sì più preoccupante) che da tempo ormai i prezzi si stanno stabilizzando più vicini a quota 40 che 30 dollari. Il fatto è che non si avrebbero i primati toccati in questi giorni se di fondo non ci fosse un mercato nel quale la domanda continua ad essere elevata e crescente. E ciò per una causa che, almeno al momento, non appare transitoria: la rapida crescita economica in atto in tutta l’area asiatica, dalla Cina al Giappone fino all’India. Tre paesi molto popolosi il cui sistema produttivo è fortemente dipendente dalle importazioni di petrolio». [2]

In realtà il petrolio non manca. Il problema è che si teme mancherà in futuro. E gli speculatori ne approfittano. Pasquale De Vita, presidente dell’Unione Petrolifera: «Speculazione internazionale che, deve essere ricordato, non è realizzata dal settore petrolifero, ma ha come protagonisti i fondi di investimento e le istituzioni finanziarie che comprano e vendono greggio nello stesso modo in cui comprano e vendono in Borsa». [3] Alan Blinder, professore di economia a Princeton e consigliere del candidato democratico alla Casa Bianca John Kerry: «Ma serve un chiarimento. Quando usiamo il termine speculatore, ci viene subito in mente una persona cattiva che sta facendo qualcosa di illegale o immorale. In questo caso non è così. Gli investitori sono giustamente preoccupati per una possibile crisi dell’offerta, e si cautelano per il futuro». [4]

«La domanda cinese è forte, il rischio terrorismo alto. Con i tassi così bassi, dove volete che li metta i soldi la gente?». Così rispondono alle accuse i gestori di hedge fund. Federico Fubini: «Letteralmente, gli hedge fund sono fondi ”recintati” dalle possibilità di perdite attraverso un sistema di coperture. In realtà sono i più esposti e spesso i più redditizi. Ci lavorano i più bravi (o presunti tali) a comprare carta che salirà di prezzo più in fretta dei soldi che hanno preso a prestito. Pretendono dal cliente commissioni del 20%, ma guadagnano anche se il mercato va giù: vendono e poi ricomprano quando lo stesso titolo varrà meno del prezzo a cui l’hanno ceduto». [5]

Nel 1992 c’erano nel mondo 700 hedge fund che gestivano meno di cento miliardi di dollari. Secondo i calcoli di Pimco, un centro d’analisi, oggi sono quasi mille e raccolgono quasi settemila miliardi. Fubini: «Certo nessuno di loro accetta clienti con meno di un milione di dollari in dote, a volte 2. E con quelli fanno il bello e cattivo tempo sul monetario o le materie prime. Con il petrolio alle stelle, per esempio, seguono consigli-lampo per il loro ”canestro corto” (portafoglio a breve) come ”energia contro consumatori di energia”: comprare azioni petrolifere vendendo quelle di compagnie aeree. [...] Alcuni investono milioni per i ”pareri” di spie o potenti di Paesi strategici per l’energia come Nigeria o Venezuela». [5]

La roulette dei rialzi dipende dalle modalità delle quotazioni. Giancarlo Galli: «Nel senso che il petrolio viene scambiato a termine. In soldoni: i 45 dollari di ieri sono un’ipotesi a 3 o 6 mesi. Ma da subito è trasferita sul prezzo al consumo. Scenderà? Tanto di guadagnato. Salirà? Ancora profitti. In aggiunta, abbiamo gli speculatori puri: quelli che scommettono come fossero all’ippodromo. Qualcuno talvolta ci rimette le penne, ma si tratta di eccezioni. Verità è che nessun governo (persino George W. Bush ha rinunciato) può mettere la mordacchia al mercato petrolifero. Per la semplice ragione che questo mercato non esiste, se lo si intende come un momento di incontro fra domanda e offerta. Esso è alla mercé delle multinazionali che hanno spesso (dalla Russia al Golfo Persico, dal Sudamerica all’Africa) una politica estera autonoma, orientata alla massimizzazione dei profitti». [1]

Non esiste un «grande burattinaio» che, dietro le quinte, manovra per fini propri il rialzo dei prezzi del greggio. Mario Deaglio: «Non esiste un comodo capro espiatorio sul quale far piovere i fulmini del nostro scontento. Esistono quasi certamente molti aspiranti burattinai ma nessuno è in grado di far ballare un mercato ampio e complesso come quello del petrolio; e la realtà, meno sensazionale e più scomoda, è che il mercato sta ballando da solo a un ritmo che nessuno riesce a controllare. Il prezzo del greggio appare quindi come una variabile impazzita che semina il caos nelle previsioni di governi e compagnie petrolifere e rischia di provocare sensibili conseguenze negative a tutti i livelli». [6]

Negli anni Settanta i pianificatori della Exxon previdero il petrolio a 100 dollari per barile entro il 2000. Giancarlo Radice: «E gli esperti del Dipartimento Usa dell’Energia stimarono addirittura che, alla stessa data, sarebbe costato 250 dollari. Una serie di iperboli basate sul vecchio modello elaborato fin dal 1956 (e valido solo per l’estrazione negli Usa) dal geologo americano M. King Hubbert, secondo il quale il picco massimo di produzione negli Stati Uniti sarebbe stato raggiunto nel 1972 e da quel momento avrebbe cominciato a diminuire, fino a svanire, allo stesso ritmo con cui era cresciuta. Un concetto esteso dai suoi discepoli a tutte le riserve mondiali». [7]

Hubbert non teneva conto dei progressi tecnologici, delle dinamiche economiche e dei nuovi giacimenti scoperti. Leonardo Maugeri, direttore per le strategie dell’Eni: «A fine ’90 i rilievi geologici compiuti nell’immenso giacimento di Kashagan, in Kazakhstan, stimavano riserve fra 2 e 4 miliardi di barili. Nel 2002 la stima è stata elevata fra 9 e 13 miliardi. Allo stesso tempo, la tecnologia ha permesso di ridurre il costo medio di sviluppo di un giacimento dai 21 dollari per barile del periodo ’78-’81 a meno di 6 dollari nel ’97-’99, a meno di quattro adesso». Radice: «Conclusione: nel 1948 si pensava che le riserve mondiali si sarebbero esaurite in 20 anni, ora si parla di 40 anni, di 60 anni e anche oltre. [7]
Se di petrolio ce n’è tanto, perché le compagnie non lo estraggono? Deaglio: «Sia i petrolieri, sia i paesi produttori hanno sbagliato i calcoli. In parte perché i mercati finanziari danno maggiore importanza agli utili di breve periodo, in parte per le previsioni sbagliate sulla domanda, per molti anni gli investimenti in nuovi impianti, nuove esplorazioni, nuove tecnologie sono rimasti quasi fermi e solo negli ultimi tempi hanno ripreso slancio». [6]

I giganti mondiali del petrolio si comportano come fossero banche d’investimento. Gaggi: «Quelle che un tempo venivano chiamate le ”Sette sorelle” si difendono sostenendo che le Borse chiedono alle imprese di rendere molto e rischiare poco: quindi perché investire miliardi di dollari in giacimenti che hanno alti costi di estrazione quando domani i prezzi potrebbero crollare? E citano l’esempio della Gulf: nell’81 investì in alcuni giacimenti ”costosi” quando il petrolio era ai massimi. Poi il mercato cambiò e nell’83 la società fu spazzata via: oggi è un pezzetto di Chevron». [8]

Un’altra spiegazione meno nota al pubblico. Rampini: «Nella lunga catena di scandali finanziari che va dal crack Enron alla bancarotta Parmalat c’è un capitolo petrolifero di importanza notevole. accaduto infatti che uno dei big mondiali del petrolio, la Shell, ha per anni ingannato mercati, clienti e azionisti, ”gonfiando” l’entità dei propri giacimenti. Un enorme e gravissimo imbroglio per aumentare il proprio valore in Borsa, con ricadute generali inquietanti: gli esperti del mercato energetico temono che la Shell non fosse la sola a truccare spudoratamente i dati. Di conseguenza ci siamo cullati per anni nell’illusione che il mondo abbia riserve energetiche superiori alla realtà. Il petrolio con ogni probabilità è una risorsa ancora più scarsa di quel che sapevamo, e il suo esaurimento seguirà una curva più ripida di quel che credevamo». [9]

Negli anni Settanta l’impennata del prezzo del petrolio portò a una delle crisi economiche più lunghe, complesse, dolorose della storia del capitalismo. La maggior parte degli economisti esclude però il rischio di una nuova recessione. Paul Samuelson: «La situazione è molto diversa da quella degli anni Settanta. In quella fase ci fu un’improvvisa stretta nell’offerta di petrolio e di derrate alimentari. Il prezzo del greggio si quintuplicò. Cominciò la cosiddetta ”stagflazione”: la presenza contemporanea di inflazione e recessione, per la quale economisti e politici non sembravano avere una ricetta pronta, efficace». [10]

Oggi assistiamo a processi differenti. Samuelson: «Innanzitutto il petrolio non ha lo stesso peso di allora sul pil americano. Poi i rialzi sono dovuti spesso a problemi contingenti come il caos in Medio oriente: basterebbe, ad esempio, che l’Iraq, che ha probabilmente le seconde riserve mondiali dopo quelle dell’Arabia Saudita, fosse in grado di mettere il suo greggio sul mercato, per imporre un cambiamento di direzione». [10]

Fra il ’78 e l’87, il consumo di petrolio calò negli Usa del 17%, a fronte di +27% per il pil. Fu l’effetto di una serie di leggi sul risparmio e l’efficienza energetica (come la Corporate average fuel economy, in acronimo Cafe) introdotte dopo l’embargo arabo. Radice: «Ma a fine anni ’80, su pressione dell’industria automobilistica (interessata a spingere la vendita di nuovi tipi di autotreni e Suv, quei lussuosi ”gipponi” ormai diffusissimi anche in Italia) i limiti fissati dalla ”Cafe” sono stati enormemente dilatati, riportando l’’efficienza energetica” dei veicoli da trasporto americani agli stessi livelli di 20 anni prima». [7]

Sognando l’auto ad idrogeno. Gaggi: «Se mentre pompate benzina nel serbatoio della vostra auto (ed euro nelle tasche del benzinaio e del ministro del Tesoro) sognate il momento in cui una vettura a idrogeno vi libererà da questa schiavitù, svegliatevi subito: non guideremo nessuna auto a idrogeno. Probabilmente non ci riusciranno nemmeno i nostri figli. Forse i nostri nipoti. Più promettenti sono i carburanti biologici, quelli derivati da produzioni agricole e, soprattutto, le vetture ”ibride” (propulsione in parte a benzina, in parte elettriche) che già cominciano ad essere disponibili sul mercato. Nel mondo dell’auto il risparmio energetico (e il disinquinamento) inizierà da qui». [8]

La nostra bolletta elettrica dipende largamente dal petrolio. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Enel: «A suo tempo l’Italia ha fatto la scelta di utilizzare per produrre energia elettrica l’olio combustibile al posto del nucleare e del carbone, utilizzato solo in minima parte. Perciò, quando il petrolio sale noi soffriamo enormemente, a differenza degli altri paesi occidentali che per produrre energia elettrica hanno fatto scelte diverse. Ora noi stiamo puntando sul gas, ma questo non ci mette al riparo dagli effetti degli aumenti del petrolio, perché anche il gas è legato ai valori del greggio, solo con una differenza di 6-9 mesi». [11]

L’unico modo di invertire la tendenza è la nascita di nuove centrali. Scaroni: «E la riconversione di quelle esistenti, in modo da utilizzare prevalentemente carbone e combustibili a basso prezzo. In Germania il 50% dell’energia elettrica è prodotta con il carbone. In Italia invece col carbone viene prodotto solo il 20% del totale dell’energia, mentre circa il 70% è realizzato con olio combustibile e gas, i cui prezzi dipendono sempre dal petrolio». [11]

La Francia ricava il 75% dell’energia elettrica dal nucleare. La Svezia ne ottiene il 17% dalle biomasse, soprattutto attraverso il riciclo dei rifiuti. Radice: «Secondo i ricercatori della multinazionale Shell il consumo di gas supererà entro il 2010 quello di carbone (che oggi rappresenta il 24% della produzione di energia primaria nel mondo) e nel 2020 raggiungerà il petrolio (ora al 35%). Uno scenario ottimista viene dipinto anche dall’Ocse, quando pronostica che entro il 2020 le energie rinnovabili potrebbero soddisfare il 20% del fabbisogno mondiale complessivo. In fondo, seguendo la celebre citazione dello sceicco Ahmed Zaki Yamani, potentissimo ministro saudita del petrolio negli anni ’70, ”l’età della pietra non è finita per mancanza di pietre, l’età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio”. Prossima fermata, 50 dollari?». [7]

Cosa succederebbe se il prezzo del petrolio superasse i 50 dollari il barile? Samuelson: « chiaro: ci sarebbero conseguenze immediate sull’inflazione. E con il rialzo di tutti i prezzi, la Federal Reserve, che finora ha promesso di manovrare i tassi in modo lento e prudente, sarebbe costretta a dire: ”Scusatemi, devo aumentare il costo del denaro, di mezzo punto oggi e magari di un punto domani”. Alan Greenspan finirebbe per seguire l’esempio del suo predecessore Paul Volker. La stretta creditizia porterebbe alla stasi economica e occupazionale: il futuro presidente Usa si troverebbe nei guai». uno scenario da brivido, «ma non lo ritengo molto probabile». [10]