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 2004  luglio 22 Giovedì calendario

Benito, «dromediere» e «buffone col pennino», è finito nella Treccani: La Jacovi(gne)tteide, Il Messaggero, 22/07/2004 Arriva Jacovitti, a risata larga, nell’austero Dizionario Biografico degli Italiani, dell’Enciclopedia Treccani

Benito, «dromediere» e «buffone col pennino», è finito nella Treccani: La Jacovi(gne)tteide, Il Messaggero, 22/07/2004 Arriva Jacovitti, a risata larga, nell’austero Dizionario Biografico degli Italiani, dell’Enciclopedia Treccani. E come ci arriva? Per uno scherzo della sorte alfabetica, che lo avrebbe certamente divertito (perché giocava con le parole, non meno che con le vignette), Jacovitti Benito viene subito dopo un pittore minore del ’400, quasi suo omonimo: Jacovetti Rinaldo. E subito prima di un giurista, Jaeger Nicola, avvocato che avrebbe potuto dargli una mano in tribunale quando lo chiamavano in causa per certe sue trasgressioni caricaturali, salamini e dintorni. Dei tre (con rispetto per l’arte rinascimentale e la professione forense), Jacovitti non è certo un «minore». Il 62° volume del Dizionario, appena uscito, gli riserva due pagine fitte, con una densa bibliografia. Per la prima volta si legge la ”storia” completa - con inedite curiosità - della movimentata esistenza di Benito Jacovitti: scomparso a 74 anni, il 3 dicembre 1997, a Roma sua città d’elezione, nato a Termoli, il 9 marzo 1923. «Mondo pistola!»: l’irriverente saluto di Cocco Bill - suo eroe più famoso, creato nel 1957, molto prima dei film spaghetti western - siglò pure il suo ultimo fumetto, pochi mesi prima di morire. S’intitolava (ironia profetica) Di qua e di là, e segnò l’inattesa quanto meritata riscossa di Jac e del suo sciamannato cow-boy, accanito bevitore di camomilla. Il padre di Jacovitti era ferroviere. Più dei treni gli piacevano i film muti (fumetti del primo cinematografo) e faceva anche il mestiere di operatore. La madre era d’origine albanese. Da ragazzo, Benito (secondo nome Franco) si orientò subito verso studi che gli erano congeniali: liceo artistico a Firenze, tra il 1937 e il ’40, prima d’iscriversi ad Architettura. Ma preferiva essere autodidatta, formatosi su illustratori come Schmidt (da cui apprese la tecnica del controcampo nelle vignette) o il francese Duboit, al quale s’ispirerà per la sua ”sigla” grafica: tavole stracolme di cose e personaggi, senza uno spazietto bianco. Diceva Jac di avere paura del vuoto. Già da studente, nel 1939, cominciò a collaborare a ”Il Vittorioso”, settimanale cattolico per ragazzi, dove disegnò i primi suoi eroi: Pippo, Palla e Pertica. Nell’Italia in guerra, Jac firmava anche strisce propagandistiche - Pippo e gli inglesi, per esempio - per sghignazzare pure lui sulla «perfida Albione». Nel 1940, su un altro settimanale, ”Brivido”, aveva messo in caricatura gli eventi bellici con una storiella intitolata Come ha visto la guerra un ragazzo sul fronte occidentale: campo di battaglia e di applicazione, per la prima volta, della tecnica tutta jacovittiana di panoramiche affollatissime. Tra il 1940 e il ’41, invece, s’inventò un antieroe: Patacca, protagonista della storia a puntate Caccia grossa. Nel 1942 fu invitato a Weimar per un raduno della gioventù fascista europea, per fare la caricatura dei personaggi più in vista. Questi trascorsi gli valsero la taccia di filofascismo. Ma lui se ne fregava. Gli piaceva gridare «eia, eia, baccalà», prendendo in giro pure se stesso, «estremista di centro», come si definiva. E pagò pure lui l’8 settembre del ’43: fu arrestato dai nazisti e portato in un campo vicino Udine, da dove evase dopo aver dovuto lavorare per la contraerea tedesca. Proprio nel 1943 illustrò il suo primo Pinocchio, pubblicato tre anni dopo anche su ”Il Vittorioso” (e come illustratore curerà altri libri con le favole dei fratelli Grimm). Sullo stesso settimanale (per il quale inventò il Diario Vitt, dal 1949 al 1980, prima agenda scolastica ”trasgressiva”, due milioni e mezzo di copie l’anno) a Jacovitti fu assegnata l’intera ultima pagina, tutta a colori: abbastanza spazio per inserire, per la prima volta, nelle vignette di Alì Baba e i quaranta ladroni, i ”segni” estranei che rimarranno la sua inconfondibile sigla: nasi volanti, barchette, mozziconi di sigarette, tronchetti di salami, ossi, spezzoni di matite, pettini spezzati. E, su tutti, la lisca di pesce che fu la sua firma d’arte (apparsa in principio nella serie Caramba, ambientata nella Spagna del XVII secolo). Proprio questi segni strampalati gli valsero l’ammirazione di Federico Fellini, che frequentava al ”Marc’Aurelio”, insieme con l’umorista Marcello Marchesi, dopo essersi trasferito definitivamente a Roma. Con Fellini e Marchesi sperimentò anche alcuni giornali satirici, prima di prestare il suo estro alla propaganda elettorale dei comitati civici di Luigi Gedda, punta oltranzista dello schieramento cattolico alle elezioni del ’48: non solo manifesti, ma anche cartoline e carte da gioco, contro il diabolico avversario Stalin truccato da Garibaldi. Dopo aver collaborato anche al ”Travaso”, Jacovitti trovò in Marchesi le parole giuste per le tavole erotiche di un’improbabile Kamasutra (Kamasultra, secondo altre versioni), per ”Playmen”, una delle prime riviste italiane per soli uomini. Anche questa estemporanea «esibizione» gli procurò guai con la severità degli editori cattolici. Il ciclo si concluse solo nel ’93, con una quarantina di disegni per il Kamasutra spaziale. Quando aveva già collaborato anche a ”Linus” di Oreste del Buono e Umberto Eco, dal ’73, dove prendeva in giro i sessantottini con le avventure di Gionni Peppe. E dopo che i suoi personaggi si erano prestati pure alla pubblicità televisiva (a cominciare da Cocco Bill). La televisione, però, lui non la guardava mai, se poteva. In una vignetta, dell’82, c’è un tizio che sfiora mezzo salame, con un televisore tra le mani. E dice a un altro: «Lo porto dall’oculista, sai, è giù di video». Peccato che la sobria edizione del Dizionario della Treccani non preveda illustrazioni. Ma se ne è ammirato il meglio in una mostra antologica nell’ottantesimo anniversario della nascita di Jacovitti, curata dalla figlia Silvia che l’ha dedicata alla madre, Floriana Lojodice: la Lilli, che Jac sposò nel ’49, e ogni settimana le donava una rosa, fino all’ultimo, quando anche lei se ne andò, lo stesso giorno, sette ore dopo di lui. «Attento ai mutamenti della realtà contemporanea, continuò a creare personaggi che nel corso degli anni rappresentarono una testimonianza delle trasformazioni politiche e sociali dell’Italia»: si legge nella voce Jacovitti del Dizionario Treccani, quasi motivazione dell’averlo inserito nella monumentale opera che documenta vita e opere d’italiani illustri, a partire da quindici secoli fa. Ma a Jac, le celebrazioni andavano strette. Quando nel 1995 fu nominato Cavaliere della Repubblica, esclamò: «Io sono dromediere». Si sentiva un po’ gobbo, buffo come i suoi eroi, e alla porta di casa aveva messo un cartello: «Attenti al dromedario». Diceva: «Mi sento come un clown, solo in mezzo alla pista, con tanta gente intorno. Ma lontana». Diceva anche, di sé: «Buffone con pennino». E ci fa ancora ridere. Pietro M. Trivelli