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 2005  dicembre 23 Venerdì calendario

Ritratto dei kamikaze iracheni (che in realtà sono spesso sauditi). Il Venerdì di Repubblica 23/12/2005

Ritratto dei kamikaze iracheni (che in realtà sono spesso sauditi). Il Venerdì di Repubblica 23/12/2005. Contrariamente al senso comune, il terrorismo suicida non è un fenomeno che riguarda esclusivamente i jihadisti. Prendendo in considerazione il numero complessivo degli attacchi suicidi dal 1983 alla fine del 2003, è evidente che una parte consistente degli attacchi sono riconducibili a formazioni secolariste come il Ltte cingalese – 76 operazioni per un totale di 245 suicidi – o il Pkk curdo. Il 67 per cento dei 384 kamikaze di cui conosciamo i dettagli anagrafici fanno parte di formazioni laiche, contro 166 (43 per cento) bomber ispirati da una causa religiosa. In termini generali, la ricerca esistente sull’argomento dimostra che tra gli attentatori suicidi non ci sono casi di malattia mentale, di psicosi o particolari segni di un passato criminale. Secondo Robert Pape, direttore del Chicago Project on Suicide Terrorism, il terrorista suicida è motivato in primo luogo da ragioni di carattere politico, in particolare l’occupazione militare del paese di origine, o da uno stato di veiled colonialism (colonialismo mascherato) nei termini di Bin Laden. La prospettiva di ordine religioso appare meno rilevante. Quarantatré dei 71 bomber di Al Qaeda – Iraq incluso – fino al dicembre 2003 provengono da paesi dove gli americani mantengono basi militari: Arabia Saudita, Turchia, Afghanistan ed Emirati Arabi Uniti, mentre il restante 36 per cento proviene da Marocco, egitto, Pakistan e Indonesia, tutti regimi storicamente vicini agli Stati Uniti. Pape conclude che il credo salafita – apparentemente alla radice del suicidio politico/militare – è in realtà un fattore secondario rispetto alla dimensione politica, cioè all’occupazione straniera o alla vicinanza geopolitica a Washington. Sicchè sono i paesi tradizionalmente amici degli Stati Uniti a produrre kamikaze, mentre nemici storici degli Usa come Libia e Sudan non hanno ”prestato” un solo suicide operative al network di Al Qaeda. Il jihadismo fornisce l’occasione, non la spiegazione di questi attacchi. Nel caso dei bomber di al-Zarqawi, lo schema si ripete, elevato a potenza. Perchè se Al Qaeda ha espresso 71 attacchi suicidi tra il 1995 e il 2003, i gruppi legati a Bin Laden in Iraq ne hanno portati a termine approssimativamente 110 in 26 mesi. Nonostante manchino numeri precisi riguardo all’entità della guerriglia anticoalizione, lo Stato maggiore americano quantifica i ribelli intorno alle 10-20 mila unità, incluso il network di supporto logistico. Di questi sono il 5 per cento – circa tre mila uomini – è costituito da militanti stranieri. I numeri cambiano radicalmente quando si tratta di kamikaze. A novembre, in base agli interrogatori dei terroristi arrestati, il ministro della Difesa iracheno Saadoun al-Dulaimi conferma che il 90 per cento degli attentatori suicidi sono stranieri che hanno attraversato il confine in Siria, soprattutto sauditi. La brigata internazionale di al-Zarqawi è un insieme eterogeneo di mujahidin provenienti in grande maggioranza dall’Arabia Saudita, con una presenza significativa di reclute da Siria, Marocco, Algeria, Palestina e Stati del Golfo. Secondo i pochi dati a disposizione, circa il 40 per cento sono sauditi, a conferma che la presenza di truppe americane sul suolo del paese d’origine delle reclute è una variabile fondamentale per quanto riguarda l’affiliazione alla guerriglia irachena e in particolare alla fazione di al-Zarqawi. Reuven Paz – un analista israeliano che da anni monitora il terrorismo suicida in Medio Oriente – afferma che tra il settembre 2004 e il marzo 2005 il 61 per cento degli arabi uccisi in Iraq sono sauditi, che rappresentano il 70 per cento dei martiri elencati da websites islamisti, seguiti da siriani, iracheni e kuwaitiani, complessivamente il 25 per cento degli esecutori. La fonte migliore per una conta non necessariamente attendibile sono gli stessi islamisti, nella forma di un website in lingua araba, Martiri della terra dei due fiumi, che raccoglie i ritratti di 430 martiri ”iracheni”, di cui 175 sono sauditi, 50 siriani, 28 iracheni, 13 giordani e 15 provenienti dal Kuwait. I bomber di al-Zarqawi sono solitamente benestanti: universitari e professionisti i sauditi, statali quelli provenienti da Siria e Giordania, commercianti i kamikaze originanti dal Marocco e dalla Palestina. Il modello di riferimento – il set di caratteristiche che emerge regolarmente – è quello dei ”magnifici 19” dell’11 settembre, individui che sacrificano il proprio status sociale prima che il suicidio diventi un’opzione reale. Si tratta spesso di individui che hanno riscoperto la prospettiva religiosa da adulti, indipendentemente dal background familiare, ragazzi che hanno toccato con mano i valori ”occidentali” che stanno al centro della critica salafita/jihadista. Qualche esempio tratto da forum islamisti: Faysal Zayd al-Mutayri, kuwaitiano, impiegato militare al ministero della Difesa; Fahd al-Fayzi, figlio di un grande costruttore saudita; Tariq al Huwaiyti, laureato in meteorologia, saudita di Jedda; Ahmad Said al Ghamid, studente di medicina, saudita; Redouane el-Hakim, studentte, proveniente da Parigi. I martiri della terra dei due fiumi sono appunto testimoni. Nelle intenzioni della guerriglia la loro esperienza deve servire ad altri per rendere più breve il percorso verso il martirio: uno studente di ingegneria di Jedda, martire a Bagdad, diventa simile a un testimonial, serve a sciogliere i dubbi degli altri, sceglie per loro, e li salva da un Phd a Toronto, ”che serve solo a sporcarsi le mani e a morire più tardi”. I resoconti si riferiscono spesso alla scoperta della dottrina jihadista come momento rivelatore che rompe con una ”vita inutile” e priva di senso e offre una prospettiva nuova e dinamica per il futuro. Il modello di riferimento è senza dubbio Mohammed Atta, ma è interessante notare la fascinazione delle reclute – spesso esponenti della media e alta borghesia saudita – per al-Zarqawi il reietto, un leader formato in prigione, che sembra funzionare perfettamente quando si tratta di riempire la fantasia suicida/omicida di questi ragazzi. Gli interrogatori degli arrestati rivelano un periodo di training centrato su disciplina fisica e mentale, sotto la supervisione di una guida spirituale – solitamente un esponente religioso – e di un supervisor, di solito un alto quadro della guerriglia, una specie di mentore militare che si occupa dell’addestramento e dei dettagli tecnici. Marwan – un bomber intervistato da Time mentre era in attesa della missione giusta, ama passare il tempo libero leggendo dei grandi martiri del passato e recitando parti selezionate del Corano. Molti – racconta Marwan – compilano una lista di settanta nomi di amici da ”portare” in paradiso, un altro dei privilegi riservati ai martiri. I giorni immediatamente precedenti all’attacco i bomber li trascorrono segregati nei covi della guerriglia, impegnati in preghiera e meditazione – soprattutto nel caso degli stranieri, facilmente riconoscibili dall’accento. Gli esecutori non hanno voce in capitolo rispetto alla scelta dell’obiettivo, né sono a conoscenza dei particolari dell’attacco fino a poco prima dell’operazione, di solito un giorno o due, a volte ore. Al momento dell’attacco, i bomber sono letteralmente bombe umane, individui destrutturati, disumanizzati. Al-Zarqawi conta sugli attacchi suicidi per garantire alla sua fazione la massima visibilità in circostanze avverse. Paradossalmente però, proprio l’incredibile numero di attacchi kamikaze rischia di normalizzare la pratica contribuendo a spegnere i riflettori sui martiri suicidi. Claudio Franco