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 2005  dicembre 23 Venerdì calendario

Il lungo viaggio del Natale. Il Venerdì 23/12/2005. Anche se la pioggia somiglia ormai a quella di Blade Runner e la crisi a un tunnel della Tav, l’avrà vinta un’altra volta, la frenesia

Il lungo viaggio del Natale. Il Venerdì 23/12/2005. Anche se la pioggia somiglia ormai a quella di Blade Runner e la crisi a un tunnel della Tav, l’avrà vinta un’altra volta, la frenesia. Anche se Ratzinger, al suo primo Natale da papa, esorta un ritorno alla sobrietà, alla gioia intima, al raccoglimento. E, di nuovo, per molti sarà una frenesia gaia, per quanto faticosa e consumista, mentre per altri sarà più oscura e inquietante. Perché il Natale, lieto evento che muove milioni di persone e di euro, smuove pure temi e patemi antichi come l’uomo: il corso del tempo, i bilanci, l’attesa, il compimento, la nascita, la morte, la fame, la sazietà, l’unione, la separazione e tutti i dualismi sui quali si sono strutturati l’inconscio e le culture. Così, andar per regali, preparare albero, presepe, cenoni e pranzi, rivedere parenti dimenticati dal Natale scorso non è solo una corvée più o meno gratificante, ma un ritorno alle radici più sommerse dell’umanità. Per dirla un po’ difficile, una di conti con il simbolico, in cui ognuno gioca la sua parte. L’antropologo Marino Niola ha appena pubblicato ”presepe” (l’Ancora del Mediterraneo, pp.145, euro 15), un saggio che racconta bene cosa c’è dietro questo fantasmagorico bricolage del sacro esploso a Napoli alla fine del 1600: la riproduzione seriale domestica, anzi addomesticata, della Natività rappresenta l’ansia di miniaturizzare l’assoluto per controllarlo, prenderci confidenza, averne meno timore. Sarà per questo che ancora oggi il per cento degli italiani, credenti o meno, mantiene la tradizione di fare il presepe o l’albero. Oppure tutti e due. «I riti sono principi d’ordine: hanno funzione di ridurre l’angoscia, la complessità sociale» dice Niola. «Un rito, definizione, ricorre e questa ricorrenza una delle poche certezze che resistono nel mare tempestoso che circonda persone. una bussola: orienta, rassicura, costituisce l’architettura della realtà». Come fa il Natale a mantenere questa funzione, visto che per molti ha perduto ogni senso religioso? «Un rito non è necessariamente religioso e in questo caso parlerei di ritualizzazione: non si condivide l’intero spirito della festa, se ne scelgono alcuni aspetti che vengono rifunzionalizzati. Poi, il Natale è una specie di enciclopedia del festivo, perché a differenza di molte altre ricorrenze, compresa la Pasqua, racchiude la dimensione pubblica, quella privata e perfino quella cosmica». Nel senso del cosmo? «Ha un fortissimo legame con il solstizio invernale, dopo il quale le giornate cominciano ad allungarsi e l’oscurità allontana. Non dimentichiamo che Natale è una sincretizzazione delle feste romane per il Sol Invictus, il Sole Invitto. Secondo molti calcoli, Cristo sarebbe nato a marzo, ma nei primi secoli la Chiesa avrebbe strategicamente spostato la data a dicembre per sovrapporla ai Saturnali, alle feriae decembris che andavano da metà dicembre ai primi di gennaio. A dir la verità, agli albori del cristianesimo di Natali ce n’erano due: quello di Gesù e quello di San Giovanni, che cadeva intorno al solstizio d’estate. Anche Giovanni era un personaggio mitologico per antonomasia, un trasformatore: quello che trasforma Cristo battezzandolo. Una rete di simboli così complessa e stratificata da far tremare». E cos’è che fa tremare nel Natale? « una notte incantata che, per incanto, sovverte la realtà». In tutte le culture? «Il più antico folklore cristiano riprende i temi di quello pagano e mediorientale riadattandoli ai suoi scopi. E così giorni dal Natale all’Epifania era previsto che gli uomini perdessero la parola gli animali l’acquistassero, insieme facoltà di comandare sugli uomini. Come i bambini sugli adulti, al punto esigere i doni, che non erano una graziosa concessione ma un diritto rituale. una notte ricca di prodigi, quella di Natale: la stella cometa, il ritorno dei morti, la venuta del bambinello. In molte altre culture, anche lontanissime dalla nostra, sono i bambini ad avere il rapporto privilegiato con i morti, e nelle feste erano i piccoli a recitarne la parte, perché sono l’incarnazione del ciclo che unisce vita e morte, un ciclo che noi abbiamo spezzato. Anche Mitra era un dio bambino e, per di più, nato in una grotta». Il presepe, vivente e non in miniatura, nasce a Greccio, per opera di San Francesco, nel 1223. Perché è stata Napoli, quattro secoli dopo, a impadronirsi e a incrementare la tradizione fino a diventarne la capitale mondiale? «Prima dell’exploit napoletano c’era la diffusa tradizione del ’500: natività con pochissime statue – sacra famiglia, bue e asinello – allestite dalle chiese e quindi istituzionali, ma la commitenza perse presto il controllo. Gli aragonesi chiamarono a Napoli gli Alamanni, scultori tedeschi operanti in Italia e quelli, a San Michele a Carbonara, fecero una natività con le sibille che annunciavano il prodigio. Il primo presepe veramente napoletano fu quello degli Scolopi nel 1627, subito dopo, quello dei Gesuiti. I primi facevano nascere il bambinello in una grotta, rivisitando gli umori sotterranei della città. I secondi sceglievano come location le rovine di un tempio pagano e anche questo ha un suo senso: la proiezione verso l’altro e l’intenzione di sovrapporsi al persistente paganesimo. La macchina teatrale si stava mettendo in moto, ed essendo Napoli la città più teatrale del mondo era inevitabile che la scena si delocalizzasse da Betlemme al Vesuvio. Con delle connotazioni sociali rivoluzionarie». Il presepe di Masaniello? «Non fino a questo punto, ma il presepe diventa subito una passione borghese, piccolo-borghese e più in là anche popolare. Segna l’emergenza di una classe che strappa alla Chiesa e all’aristocrazia il monopolio della devozione e delle sue forme». Con tutte le contaminazioni del caso, a partire dalla figurina del salumiere che espone le sue collane di salsicce di maiale, che gli ebrei di Betlemme non avrebbero certo acquistato. «Il rito non è una macchina storica ma acronica, quindi mette in scena tutti i tempi in tutti i luoghi, incorporandone miti e tradizioni. A Napoli questa stratificazione si è verificata rapidissimamente. Le salsicce rappresentano il piacere della carne, le botti di Ciccibacco, oste che rimanda chiaramente a Bacco, rimandano allo spirito orgiastico della festa. L’orgia, in greco orgheia, non era solo un’abbuffata e quant’altro, ma la manifestazione del sacro con il quale si poteva entrare in contatto». Questi elementi sono riscontrabili anche nell’ebbrezza postprandiale dei Natali di oggi? «Questa ebbrezza è quantomeno la rappresentazione di un contatto: con i commensali, i parenti, la comunità. Un contatto che magari non c’è, perché la gente non è più abituata a stare insieme». Rappresentare qualcosa che non c’è non è potenzialmente esplosivo? «Certo che lo è. Ma lo abbiamo detto fino adesso: le feste sono una resa dei conti. E ogni tanto i conti bisogna pur farli». Paola Zanuttini