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 2005  dicembre 31 Sabato calendario

«La grande stagione delle privatizzazioni? Partì al Tesoro con l’operazione Bagni puliti». Corriere della Sera 31/12/2005

«La grande stagione delle privatizzazioni? Partì al Tesoro con l’operazione Bagni puliti». Corriere della Sera 31/12/2005. «Gli anni delle privatizzazioni? Sì, sono stati indimenticabili, come li ha definiti Mario Draghi. A cominciare da una grande battaglia che abbiamo combattuto insieme per quasi un anno: quella dei bagni». Dei bagni? «Sì. Le toilette del Tesoro. Per non parlare della "questione" sughi. Mi creda, gli episodi possono far sorridere, ma rendono bene l’idea di un mondo che si è trovato improvvisamente di fronte a un’autentica rivoluzione». Francesco Giavazzi, docente in Bocconi, conosce il nuovo Governatore da 35 anni: frequentano a Boston il "mitico" Mit. Il primo si laurea con il grande economista americano Rudi Dornbusch. Il secondo con Stanley Fischer, oggi numero uno della Banca centrale d’Israele. Nasce una consuetudine personale che diventerà anche professionale nel ’92 quando Guido Carli, ministro del governo Andreotti, chiama Giavazzi al Tesoro su segnalazione di Draghi, nominato sei mesi prima direttore generale del dicastero. Allora, i bagni... «Erano un disastro. Vecchi, malconci, senza nemmeno la carta igienica perché la rubavano. Ben diversi da quelli della Banca d’Italia, belli, scintillanti, che guardavamo con grande invidia. Bene, immagini quando, avviata per davvero la stagione delle dismissioni di Stato, cominciano a sfilare per i nostri uffici banchieri americani, inglesi, francesi. E il presidente di Mediobanca Franco Cingano. Che è semplicemente inorridito, dicendo: ma come fa lo Stato a ridursi così... Per mesi abbiamo combattuto con ogni mezzo perché si rendessero almeno presentabili i servizi. E per far sì che gli ascensori non si guastassero sempre. Un giorno, in agosto, è arrivata da New York una delegazione di banker corpulenti. Bene, sono rimasti chiusi fra il primo e il secondo piano per due ore. Alla fine erano sudatissimi. Un disastro. E sono andati, appunto, in bagno. Non le dico la vergogna...». E i sughi? «Beh, in parte la cosa era piacevole. Ma non proprio dignitosissima: sotto di noi c’era la Guardia di finanza con un piccolo alloggio dove ogni giorno i ragazzi cucinavano dei sughi. Ottimi profumi invadevano i nostri locali. Può immaginare i banchieri...». Fissiamo una data simbolica: quando è cominciata per davvero la stagione delle privatizzazioni? «La notte del 31 luglio ’92. E non è una data simbolica». Perché? «Il Consiglio dei ministri ha approvato a notte fonda il decreto che trasformava gli enti in spa, ne trasferiva la proprietà al Tesoro e stabiliva in tre i componenti i board. Il premier Giuliano Amato ha dimostrato in quella occasione una grande abilità. Raggiunto l’accordo con il ministro dell’Industria Giuseppe Guarino, sostenitore di un piano che prevedeva la costituzione di superholding, Amato ha vinto, diciamo così, per stanchezza. Al momento di votare era tardissimo e praticamente non c’era più nessuno». Il decreto notturno è stato uno choc? «Molto di più, direi una bomba. Ricordo benissimo quelle ore. Febbrili. Immagini i superconsigli di Eni o Enel, con decine di amministratori, che si scioglievano dall’oggi al domani. E infatti una settimana dopo, al termine di una guerra sulle nomine che ha visto in campo partiti e consiglieri, i "vecchi" vertici erano tutti presenti alle assemblee, increduli. O comunque speranzosi di "sopravvivere" in qualche modo. Anche noi, Draghi, io e altri colleghi dei ministeri incaricati di definire il riassetto dell’industria pubblica, eravamo lì, con i nostri fogliettini...». Fogliettini? «Sì certo, partecipavamo alle assemblee degli enti diventati spa come rappresentanti dell’azionista unico, il Tesoro appunto, e ciascuno aveva un foglietto nel quale erano indicati i nomi di presidente, amministratore delegato e consigliere». Decisi da chi? «Concordati dal premier Amato e i ministri del Tesoro Piero Barucci e dell’Industria Giuseppe Guarino». E i boiardi in cosa speravano? «Di trovarsi inclusi negli elenchi, ovviamente. I criteri però erano prestabiliti: presidente e amministratore delegato erano di provenienza aziendale, il consigliere era di nomina del Tesoro. Da un lato sono così rimasti Franco Nobili all’Iri, Gabriele Cagliari all’Eni, Mario Fornari all’Ina, Franco Viezzoli all’Enel. Dall’altro, io sono entrato all’Ina, Corrado Fiaccavento all’Iri, successivamente anche Draghi all’Iri, e così via». Alcuni però scelgono come data d’inizio della stagione che ha smantellato il capitalismo di Stato il 2 giugno ’92... «La famosa crociera sul Britannia? Ma via...Draghi ha fatto solo ciò che doveva istituzionalmente: ha introdotto i lavori del convegno sulle nostre privatizzazioni ed è sceso a terra. Non ha partecipato ai "salotti" successivi con i banchieri». L’ex amministratore delegato di Mediobanca, Vincenzo Maranghi, ha in seguito protestato. Lui sullo yacht della famiglia reale non è salito.... «Certo, era una presentazione riservata ai banchieri d’affari inglesi. Sa, in quel periodo tutti noi giravamo il mondo con un obiettivo: far capire che si faceva sul serio. Ricordo una riunione all’Ocse: per anni erano stati tutti sommersi da documenti italiani nei quali venivano illustrate strategie e modalità delle nostre privatizzazioni. Che però non erano mai partite. Ebbene, ho dovuto faticare per convincere i miei interlocutori che eravamo alla svolta». Proseguiamo con i simboli: cosa secondo lei racconta di più lo "spirito" di quegli anni? «Senz’altro il calendarione che il premier Carlo Azeglio Ciampi sfogliava con noi almeno una volta al mese. Ci teneva moltissimo: per ciascuna società da privatizzare erano segnati con precisione tutti i passi da fare e i relativi tempi. Con lui verificavamo il lavoro fatto. Guai a sgarrare...E poi le riunioni del comitato per le privatizzazioni. Appuntamenti fissi scandivano con rigore il nostro lavoro. Draghi era il presidente, io il segretario. C’erano Piergaetano Marchetti, Ariberto Mignoli, Lucio Rondelli e Ottavio Salamone. Ci trovavamo spesso a Milano, nella bella (quella sì) sede del Tesoro dietro la stazione Centrale». Lavoravate sodo e con fiducia. Perché nel ’94 lei ha lasciato il ministero? «In Bocconi è possibile un distacco di due anni al massimo. Per fortuna: ho scelto di restare in Università perché il mio mestiere era ed è il professore». Draghi non ha tentato di trattenerla? «Ha cercato di convincermi a restare. Era agosto e mi ha detto: in vacanza pensaci bene. Ho comunicato la mia decisione da lontano. Durante una passeggiata sulle Dolomiti mi sono fermato al rifugio Fanes. Ho fatto due telefonate. La prima a Mario Draghi. Gli ho detto: lascio. La seconda a Mario Monti, rettore della Bocconi. Per dirgli: ho vissuto l’esperienza più bella della mia vita. Ma ora torno». Sergio Bocconi