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 2005  dicembre 27 Martedì calendario

AliKarimi Mohammad

• Teheran (Iran) 8 novembre 1978. Calciatore. Ha giocato in Germania con Bayern Monaco e Schalke 04 • «[...] La finta di troppo è il marchio di fabbrica del fantasista un po’ rockstar [...] Con l’Al Ahli di Dubai, Ali Karimi è stato una stella assoluta: dribblomane fino all’impossibile e beffardo nelle conclusioni davanti al portiere[...] pigro, egoista, immaturo anche a detta dei suoi tifosi che da sempre sognano per lui un futuro nel calcio che conta. [...] Figlio di un impiegato statale e di una casalinga, nato nella periferia povera di Teheran, Ali Karimi ha cominciato a giocare a pallone per strada come tutti, con fratelli e amici. Facevano il tifo per il Persepolis e, anni dopo, col Persepolis ci ha vinto un campionato. Prima di emigrare negli Emirati Arabi, nel 2000 si era presentato a Perugia per un provino. Addirittura. E andò benissimo, salvo che l’avventuroso Gaucci non si mise d’accordo sul prezzo richiesto, circa due milioni di dollari. Peccato. Alla nazionale, poi, ci è arrivato in fretta, guadagnandosi un posto da trequartista dietro Ali Daei [...] Riuscì tra l’altro a partecipare a una delle partite storiche dell’Iran, l’eliminatoria mondiale vinta con l’Iraq nel 2001. E ai suoi gol si deve il terzo posto del Team Melli (il soprannome della nazionale) al campionato asiatico 2004, prestazione che gli ha garantito il premio come miglior giocatore asiatico dell’anno. Considerato parte integrante della nuova “generazione dorata” del calcio iraniano, Ali Karimi è definitivamente <ssss l’80% delle moschee registrate, ha iniziato ondate di arresti di “fondamentalisti”, senza emettere contro di essi accuse definite - a volte basta portare “barbe sospette”. In questo senso Karimov è un precursore nell’utilizzo dell’armamentario propagandistico della “guerra al terrorismo”. E però la persecuzione cieca dell’islam politico si è risolta nella radicalizzazione dei suoi adepti. In Uzbekistan si è diffusa la propaganda di filiere islamiste transnazionali (quale l’Hizb-ut-Tahrir el Islami, “Partito della Rinascita islamica”) ed è emersa la lotta armata. Nel 1999 questa si manifestava sin nella capitale, Tashkent, segnando una rottura. Da quel momento apparve in modo netto come, nonostante le ambizioni smodate del suo presidente, l’Uzbekistan indipendente non era in grado di trasformarsi in un nucleo aggregatore per lo spzio centrasiatico. Le incursioni islamiste di quell’anno misero inoltre a nudo l’errore di calcolo strategico della presidenza. Questo si basava sulla volontà di scalzare la Russia dall’Asia centrale, per dominare la scena come ancella regionale degli Stati Uniti che nel frattempo avevano iniziato il loro “grande gioco” nella regione. Nel frattempo emergevano altre contraddizioni. Il regime aveva cercato di mantenere la presenza dello Stato nell’economia, tentando di preservare la società dalla disintegrazione sociale neo-liberale che aveva sconvolto i suoi vicini. Ma questo, oltre a mettere il paese in contrasto con le istituzioni finanziarie internazionali, non poteva funzionare in un paese con le dimensioni e le condizioni strutturali d’isolamento proprie all’Uzbekistan post-sovietico. Negli anni ’90 l’Uzbekistan è stato investito dagli effetti dell’onda lunga demografica permessa dai precedenti decenni di welfare sovietico, un aumento della pressione umana in un contesto ambientale già pesantemente eroso dallo sfruttamento intensivo delle risorse - in modo particolare di quelle idriche, per le quali il paese, uno dei principali produttori mondiali di cotone, dipende dai vicini Tagikistan e Kirghizistan. Inoltre lo sbocco naturale della produzione uzbeka è la Russia, e su questo s’infrangeva la volontà d’antagonismo di Karimov. Iniziò così una lotta interna, (assolutamente opaca per gli osservatori esterni, dato il controllo totalitario della vita pubblica) fra i clan regionali che definiscono la piramide del potere di Karimov. Così, anche quando il regime dichiara che l’ennesimo attentato è stato compiuto dalla mano dei “fondamentalisti islamici”, molti vi vedono piuttosto l’azione di forze interne, quali clan tribali esclusi dal potere o servizi segreti deviati, espressione in ogni caso del numero crescente di quanti si preoccupano per la strada senza uscita in cui il presidente ha messo il paese. [...] A dispetto delle sue dimensioni ragguardevoli, l’Uzbekistan è in gran parte desertico: così che la vita si concentra nelle aree pedemontane del sud-est, in particolare in questa vasta valle divisa dalle frontiere sovietiche, di cui la repubblica occupa la parte principale, incuneata tra montagne appartenenti ai vicini Tagikistan e Kirghizistan. Un buon quinto della popolazione di tutta l’Asia centrale risiede in questa valle in cui pressione demografica, crisi ecologica e pauperizzazione estrema creano condizioni sociali esplosive. È qui che da oltre un decennio prendono piede le organizzazioni islamiche più radicali. Nonostante la crescente natura dittatoriale l’Uzbekistan coltiva sin dalla metà degli anni ’90 una special relationship con gli Usa, emersa dopo l’11 settembre 2001. Dapprima Washington aveva esecrato il regime uzbeko, non tanto per le sue repressioni dei diritti umani ma perché rifiutava di svendere la sua parte di eredità sovietica al Fmi. Poi però Washington ne ha fatto il proprio campione - non appena Karimov ha assicurato la sua disponibilità a condurre una politica anti-russa ed anti-iraniana. Dopo l’inzio dell’occupazione americana dell’Afghanistan Karimov credette di cogliere nell’arrivo degli Usa nella regione la grande occasione per ridare fiato al suo sistema di potere. Poi però il regime si è reso conto dei pericoli del “partenariato strategico” con Washington per tornare a cercare l’appoggio di Mosca. [...] Karimov ha sottoscritto con Putin un accordo di cooperazione strategica che prevede la possibilità per ciascuna delle due parti d’utilizzare le infrastrutture militari presenti sul territorio dell’altra - ossia un diritto teorico per Mosca di ficcare il naso nei movimenti attorno alla base americana in Uzbekistan. [...] con il dilagare della strategia Usa delle “rivoluzioni di velluto” nello spazio post-sovietico, pur mantenendo la presenza militare straniera, Karimov ha accentuato il suo distacco dalla Nato. [...]» (Fabrizio Vielmini, “il manifesto” 14/5/2005).