???, 27 dicembre 2005
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ANDREASI Felice. Nato a Torino l’8 gennaio 1928, morto a Cortazzone d’Asti il 25 dicembre 2005. Attore
ANDREASI Felice. Nato a Torino l’8 gennaio 1928, morto a Cortazzone d’Asti il 25 dicembre 2005. Attore. «[...] Era considerato uno dei maggiori esponenti del teatro comico-satirico milanese. [...] faceva parte di una generazione di attori profondamente e positivamente segnati dalle loro origini regionali, capaci di una comunicazione immediata e concreta proprio per il loro legame con un paesaggio umano preciso e con forme linguistiche determinate. Andreasi aveva scelto come sua terra d’elezione il Monferrato astigiano e ne aveva tratto un certo atteggiamento, un modo di porsi che segnava i suoi personaggi e dava loro individualità e concretezza. Il suo successo artistico era venuto però a Milano, dove Andreasi aveva fatto parte dall’inizio della generazione di comici e performer radunati intorno al Derby Club fra gli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta: Jannacci, Cochi e Renato, i Gufi, Toffolo, e sullo sfondo Gaber e Dario Fo. Le fortune artistiche di questi attori sono state assai diverse, ma la loro eredità continua a essere vitale: la vicenda di attori come Paolo Rossi, Enzo Catania, Claudio Bisio e dei loro allievi ed epigoni deve molto a quel mondo, alle esperienze tentate allora di mescolare musica d´autore e comicità, cultura alta e bassa, critica sociale e intrattenimento, teatro e cabaret. Felice Andreasi in questo gruppo era l’interprete del ”cabaret dell’assurdo”, cioè di una forma particolarmente surreale di quel genere di spettacolo, che fa del nonsense la sua materia prima fondamentale. Andreasi arrivò in televisione nel 1972 con Il poeta e il contadino, ma aveva già alle spalle una buona carriera teatrale, che l’aveva portato a interpretare, per esempio, nel 1968 una notevole edizione di Mercadet l’affarista di Balzac accanto a Tino Buazzelli. E faceva molto cinema: la sua prima interpretazione importante è nel Sospetto di Francesco Maselli con Gian Maria Volonté (1975). Ma poi vengono Sturmtruppen di Samperi (1976), Saxofone di Pozzetto, Come perdere una moglie... e trovare un´amante di Pasquale Festa Campanile e Geppo il folle di Adriano Celentano (tutti del ´78), ancora con Festa Campanile Nessuno è perfetto (1981) e Bingo Bongo (1982) e poi Mani di fata di Steno (1983), Storia di ragazzi e di ragazze di Pupi Avati (1989), Pane e tulipani di Soldini (1999), che gli valse un nastro d’argento come migliore attore non protagonista, fino agli ultimi film: nel 2002 La collezione invisibile di Gianfranco Isernia e Due amici di Spiro Scimone, nel 2004 Ora e per sempre di Vincenzo Verdecchi. Nel frattempo Andreasi proseguiva anche il suo lavoro teatrale, con alcuni spettacoli di grande successo, come L´antiquario di Goldoni con Gianrico Tedeschi (1986) e un celebre Apettando Godot con Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Paolo Rossi (1990). Negli ultimi anni questa attività così ricca e multiforme si era un po´ calmata e Andreasi era tornato a occuparsi soprattutto della sua arte preferita e mai del tutto abbandonata, la pittura, con alcune mostre importanti. Il mondo dello spettacolo lo ricorda come una presenza discreta ed efficace, di grandissima intelligenza e professionalità, uno di quegli attori che convincono il pubblico per umanità e personalità» (Ugo Volli, ”la Repubblica” 27/12/2005). « Non ci voleva mica Giovanni Arpino per scoprire che il riso amaro di Felice Andreasi era fatto apposta per le pedane del cabaret. Ma Andreasi [...] sul palcoscenico non ci voleva andare. Voleva fare il pittore, non l’attore. Aveva una venerazione per Tiziano e Rembrandt, amava fino alla sofferenza Van Gogh, e prima o poi gli sarebbe davvero piaciuto andare a Arles e vedere come può esplodere una vita sotto il cielo lucente della Provenza. Ma Arpino aveva ragione. Il palcoscenico era in agguato. Complici le ”cattive compagnie”, in una sera che sembrava del tutto normale, il musicista Maurizio Jona prese Andreasi sottobraccio e lo portò a ”Los Amigos”, un cabaret con le pareti di vetro, un finto giardino d’inverno con le abat-jours rosse, a due passi dalla Fiat Mirafiori. Dopo quattro o cinque whisky, Andreasi si trovò sul palcoscenico a declamare Piemonte di Carducci. ”Fu la mia rovina”, riconobbe. Ossia, seguendo un’altra scala di valori, fu il successo. Andreasi fu ”deportato” a Milano, al Derby (e dove, se no?). Entrò in un gruppo di svitati che si chiamavano Enzo Jannacci, Cochi, Renato, Lino Toffolo. Nel 1972 apparve in tv nel Poeta e il contadino. Per lui, nato a Torino e con la pittura come ossessione, era una sofferenza. Recitava di notte, tirava l’alba e poi a letto. Ma le ore di sonno diventavano sempre più precarie, ormai confinavano con l’insonnia, e lui, per respirare, forse per salvarsi, non appena poteva, scappava, andava per mostre a Roma e a Parigi, studiava Modigliani. Un conflitto quasi epico: durerà decenni. Dopo il cabaret, Andreasi approdava al cinema e al teatro di prosa, ma le tele, i colori, l’odore di trementina lo accompagnavano come un fantasma. Il critico Luigi Carluccio, che non era facile agli entusiasmi, lo lodava e lo spronava. Che fare? Per un po’ di anni Andreasi mise la sua espressione stralunata al servizio del cinema [...] Era una maschera fantastica, impastata di surrealtà, venata d’assurdo. Gli occhi, pungenti come spilli, mandavano all’occorrenza lampi impassibili. Sembrava ideale per un Aspettando Godot di Beckett al fianco di Enzo Jannacci, Giorgio Gaber e Paolo Rossi: un ineguagliabile momento di follia interpretativa che scavalcava le altre prove di palcoscenico [...] Tuttavia, il cuore di Andreasi restava fermo tra le tele e l’odore di trementina. Viveva in quella specie di eremo, a Cortazzone, una cascina aperta sui campi, i boschi, le ondosità delle colline. Aveva stabilito con la terra una mezza simbiosi, non avrebbe voluto staccarsene, e lì dipingeva, raccoglieva funghi, si accorgeva delle piccole cose. ”Voglio fare il pittore, non l’attore”. Quella frase lontana, detta ad Arpino con la voce bassa, adesso sembrava un pezzo di verità. Andreasi faceva quasi soltanto il pittore, conservava i colori in una specie di bunker accanto alla cascina, nell’estate del 2004 Asti gli dedicava la personale ”I colori della collina”. Consacrazione? Forse soltanto il trionfo della passione» (Osvaldo Guerrieri, ”La Stampa” 27/12/2005).