Giuseppe Scaraffia Il Sole 24 Ore, 18/07/2004, 18 luglio 2004
Simenon non volle diventare il signor (Joséphine) Baker, Il Sole 24 Ore, 18/07/2004 «L’avrei sposata se non mi fossi rifiutato, sconosciuto com’ero, di diventare il signor Baker» diceva Georges Simenon nel 1981
Simenon non volle diventare il signor (Joséphine) Baker, Il Sole 24 Ore, 18/07/2004 «L’avrei sposata se non mi fossi rifiutato, sconosciuto com’ero, di diventare il signor Baker» diceva Georges Simenon nel 1981. La realtà era più complessa. Quando l’aveva incontrata, il 7 ottobre 1925, al Théâtre des Champs-Elysées, la ventenne Joséphine non era ancora, come diceva Colette, «la più bella pantera e la più affascinante delle donne», ma solo una delle tante ballerine di colore della ”Revue nègre”. Georges al contrario era un poligrafo ben noto nella Parigi notturna degli anni folli. Frequentava artisti come Picasso e Vlaminck, viveur come André de Fouquières. Aveva ventitre anni e scriveva ottanta pagine al giorno. Non si rileggeva mai, preferendo passare sempre a un nuovo soggetto. La fama della sua prolificità era tale che gli avevano proposto di scrivere in tre giorni e tre notti un romanzo in una gabbia di vetro sospesa sulla terrazza del Moulin Rouge. Sim, come allora si firmava, aveva accettato, ma il progetto era andato a monte. Il che non impediva che tutta Parigi fosse convinta di averlo visto all’opera. In una foto scattata alla ”Coupole”, lo scrittore in smoking, seduto vicino a una radiosa Joséphine Baker, ha un’aria sorniona. I rispettivi accompagnatori non sembrano accorgersi di niente. L’impresario Pepito Abatino sorride sereno. La bella, nevrotica Tigy, in tubino nero e capelli corti, fissa l’obiettivo con aria fatale. Eppure molti anni dopo Simenon si lamentava ancora della malsana, a suo vedere, gelosia della moglie che l’aveva obbligato a nascondere la relazione con Joséphine. I Simenon si erano sposati tre anni prima. A Georges piaceva stare con una donna con cui poteva parlare di Schopenhauer o di Rembrandt, ma c’era un problema: Tigy detestava il sesso ed era morbosamente gelosa. In quel periodo la coppia era giunta a un compromesso che sarebbe stato sopportato da tutte le successive mogli di Simenon. Alla famiglia si era aggiunta una bionda pienotta di ventanni, soprannominata appunto Boule, che, oltre a fare la cuoca, soddisfaceva ogni giorno i bisogni del suo «bel padroncino». Presto i nottambuli si erano abituati allo strano quartetto - i Simenon, la Baker e Abatino - che ogni sera si ritrovava ”Chez Joséphine Baker” il locale notturno da lei creato. Georges tentava di cammuffare la situazione dicendo di fare il segretario della star. In effetti Sim cercava di mettere ordine nella frenetica vita dell’«Uccello delle isole». Rispondeva alle lettere, rivedeva i conti e mandava alla madre dell’artista un assegno mensile. Pensava addirittura a una rivista popolare, ”Joséphine Baker’s Magazine”. L’impresa non lo spaventava, dopo avere scritto interamente con dodici pseudonimi diversi il patinato ”Frou-frou”. Gli amici di Joséphine consideravano Georges «un monello» senza interesse che la distraeva dai magnati che la corteggiavano. Ma lei si comportava con la stessa libertà che la faceva ballare nuda o stravolgere la bella faccia simulando lo strabismo. Simenon non aveva mai incontrato una persona altrettanto libera e avida di vita. Intanto, giorno dopo giorno, la Baker diventava sempre più celebre. Entrava sulla scena sulle spalle di un nero gigantesco, interamente nuda tranne una piuma di fenicottero rosa tra le cosce. Non si sentiva volare una mosca mentre il portatore le faceva fare la ruota tenendola per la vita. Quando Joséphine toccava terra, la sala scoppiava in un boato. I giornali contavano le banane con cui appariva in scena: sedici. Appena si era laccata d’oro le unghie, una sofisticata poetessa, Anna de Noailles, l’aveva battezzata «la pantera dagli artigli d’oro». I sedili della sua lussuosa auto, una Delage, erano in pelle di serpente. I parrucchieri spingevano le clienti a «bakerfissarsi» i capelli come lei. Tutte si abbronzavano a Deauville sperando di avvicinarsi alla sfumatura intensa delle sue carni sode. Chiquita, il suo leopardo, aveva una serie di collari coordinati con gli abiti della padrona. I rotocalchi elencavano i nomi dei suoi animali: Ethel, lo scimpanzè, Albert il maiale, Kiki il rettile e via dicendo. Nel 1927, il loro amore era quasi completo, come il ”Joséphine Baker’s Magazine”, che aveva già pronta la copertina per il primo numero, quando era svanito nel nulla. La fama di Simenon era cresciuta, ma con una velocità molto inferiore a quella della sua amante. Quando aveva deciso di scrivere le sue memorie, Joséphine non si era rivolta a Georges, ma a un estraneo. Invece insieme a lui aveva formulato il folle progetto di un finto rapimento. Per fortuna si erano fermati in tempo. «Che bella réclame! Joséphine ed io abbiamo rischiato di caderci... l’inevitabile pubblicità ci ha fatto paura. Un falso scandalo che diventava un vero scandalo!». Poco dopo Simenon decideva di mollare. Non voleva essere un principe consorte. «Essere il marito o l’amante di una donna famosa e non essere nessuno non sarebbe la peggiore tortura per l’orgoglio di un uomo?». Si rifugiò con la paziente Tigy all’isola d’Aix, di fronte a La Rochelle, per cercare di dimenticarla. Si rincontrarono solo trent’anni dopo a New York, «sempre innamoratissimi l’uno dell’altra», sostiene Simenon. Lei si comportò come se il tempo non fosse passato. Sgranò gli occhi scuri e chiese: «Georges! Perchè mi hai abbandonato?», mentre la povera, fedelissima Boule mugugnava: «Ancora quella!». Da quella passione troncata sbocciò un anno dopo, nel 1928, un romanzo avventuroso e sentimentale, Chair de beauté. La danzatrice in copertina, seminuda sotto un velo trasparente, era molto più chiara di pelle di Joséphine, ma come lei aveva origini africane, essendo una tuareg. Stella di un locale notturno parigino, era corteggiata da uno scrittore avventuriero, Jarry. Bellissima e molto disponibile, Nadia veniva sfruttata dal fratello a fini politici, innestando una serie di reazioni a catena. L’Africa di cartapesta di quel libro era molto diversa da quella che Simenon avrebbe conosciuto nel 1932. Per finanziare il viaggio si era impegnato a fare dei reportages per i giornali. Si sentiva a disagio e un po’ ridicolo sotto il casco coloniale, ma desiderava intensamente esplorare quel mondo primitivo. «Se si vuole conoscere il vero volto di un paese, bisogna visitarlo alla massima intensità» ripeteva risalendo il Nilo. A Kartum rimase colpito dalla tenuta dei militari inglesi - calzoni al ginocchio, camicia con le spalline e calzettoni - che presto avrebbero riempito il suo guardaroba. Si era innamorato anche di una grossa scultura da cui non si sarebbe più separato. Tiki, un totem di ebano scuro, pesava quaranta chili e rappresentava il dio degli elefanti, metà scimmia e metà uomo. Forse in quella duplicità tra umano e bestiale Sim riconosceva la sua. In Congo belga aveva rivisto il fratello che lavorava in un’impresa commerciale. Mentre visitava i villaggi aveva scattato settecentocinquanta foto, per lo più nere nude. Detestava il colonialismo, ma riteneva gli indigeni dei bambini inetti. Esemplare la scena di un gruppo di manovali che aspettava la morte di un compagno, maciullato dalla caduta di un albero, per mangiarselo. Aveva descritto l’incapacità dei funzionari europei, il collasso morale e fisico e il cinismo dei bianchi espatriati. Aveva sperimentato l’ostilità della natura. «Non una zona d’ombra. Camminavo, sudavo, mi sentivo bruciare la nuca. E, dopo cinque minuti, mi chiedevo se ne sarei uscito vivo». In compenso aveva sentito delle storie interessanti sorseggiando champagne nei caffè. Durante una sosta in un piccolo albergo di Libreville aveva notato l’avvenenza della padrona e la rozzezza dei clienti ubriachi che, poco dopo, sarebbero andati a stuprare un’indigena. Nessuno era salvato da quel viaggio e nessuno si sarebbe salvato dal Colpo di luna, il libro nato da quella delusione. «Me ne vado dall’Africa odiandola». Nel romanzo, uno dei più belli di Simenon, un giovanotto senza qualità viene sedotto dalla sensuale albergatrice di Libreville, una femme fatale abituata a girare nuda sotto l’abito di seta nera. Lentamente il protagonista capisce di essere solo usato dalla donna che ha ucciso il marito e un servitore nero. La febbre, un accesso di follia e il ritorno in Francia saranno la conclusione dell’avventura. Per una curiosa distrazione o per un senso di estraneità al mondo africano, Simenon non si era curato di cambiare il nome dell’albergo e tutti i personaggi erano ben riconoscibili. Madame Mercier, che aveva, come la dark lady del libro, il marito sulla coscienza, gli fece causa, chiedendo duecentomila franchi di risarcimento e il sequestro del romanzo. In tribunale però lo scrittore potè contare su un grande avvocato, Maurice Garçon, che rivendicò il diritto degli autori a basarsi sulla realtà. La sentenza lo assolse. L’accusatrice non poteva rivalersi perchè l’assassina di Simenon non portava il suo nome. Nessuno, tranne forse Joséphine, si era accorto di quanto le somigliasse, nel Colpo di luna, il ritratto di un’indigena nuda. «La ragazza aveva un seno abbondante e sodo. I fianchi, come quelli di un maschio adolescente, erano meno larghi del busto, ma il ventre aveva ancora la tipica rotondità dell’infanzia». Giuseppe Scaraffia