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 2004  luglio 22 Giovedì calendario

Vita di Giovannino Guareschi scritta da sé medesimo, Il Giornale, 22/07/2004 Roncole Verdi, 13 giugno 1964 Gentilissima Signora, rispondo a Lei pregandoLa di ringraziare il Signor Preside e di spiegare alla Signorina Gianna Donadon il ritardo col quale riscontro la raccomandata del 29 maggio

Vita di Giovannino Guareschi scritta da sé medesimo, Il Giornale, 22/07/2004 Roncole Verdi, 13 giugno 1964 Gentilissima Signora, rispondo a Lei pregandoLa di ringraziare il Signor Preside e di spiegare alla Signorina Gianna Donadon il ritardo col quale riscontro la raccomandata del 29 maggio. Il fatto è che io, da circa nove mesi mi trovavo in Svizzera per cercar di sistemare l’infarto di mia spettanza che aveva movimentato la mia vita, quando... (Buon Dio come è difficile, per un povero scrittore, scrivere a una Professoressa di Lettere!) Insomma: la raccomandata era indirizzata al ”Borghese”: il ”Borghese” l’ha passata a Roncole. Mio figlio l’ha mandata in Svizzera. Intanto io viaggiavo verso l’estero (Italia) e, dalla Svizzera, rimandavano la raccomandata a Roncole. Probabilmente è troppo tardi per i ragguagli sulla mia vita. E forse è meglio perché, per studenti che affrontano l’esame di abilitazione, può risultare «controproducente» includere il mio nome fra gli scrittori contemporanei. Il massimo che mi è stato concesso in Italia è di essere «contemporaneo», ma nessun critico o nessuna autorità nel campo delle Lettere m’ha concesso d’essere uno scrittore. Probabilmente hanno ragione loro. Inoltre, mentre la mia spiccata tendenza di destra mi rende sgradito alla sinistra, il mio passato di polemista (culminato con la galera) mi rende sgradito al centro. In compenso, la destra mi considera un estremista e mi mette sullo stesso piano della sinistra. In definitiva sono «a Dio spiacente ed ai nemici sui». Se poi consideri che mi sono macchiato - nei confronti dei giornalisti e degli scrittori - della criminosa scorrettezza di aver riscosso notevolissimo successo in Italia e all’estero, è chiaro che la mia posizione non potrebbe essere peggiore. Presentare il mio nome fra quelli degli scrittori contemporanei può essere fatale, per un esaminando. Comunque, a titolo di semplice curiosità, la mia vita non è ciò che comunemente si dice un romanzo: infatti (e di questo particolarmente mi fanno colpa i miei colleghi) la mia vita ha un principio, un seguito ma manca della fine. Passando ai dettagli, Le dirò che sono nato troppi anni fa a Fontanelle, un paese sparso fra l’erba medica della Bassa parmense. Il fatto increscioso è avvenuto il 1 maggio del 1908 al primo piano della locale cooperativa socialista (non sono figlio di una cooperativa, però!) e mia madre era maestra (insegnò per 49 anni) mentre mio padre si occupava di macchine agricole. Ho scarsi ricordi dei miei primi anni: ma sembra davvero che io fossi un personaggio molto riservato e mi industriassi a non mettermi in vista. Verso i sei anni, qualcuno però si accorse che ero nato e fu una scoperta sgradevole perché l’uomo mi colse mentre svaligiavo un susino del suo orto. Non comprese, il brav’uomo, che io essendo nato in una rovente atmosfera socialista non potevo possedere un concetto molto preciso della proprietà privata. Mi trasferii nella sthendaliana (sic) città di Parma (ma io, lo confesso, non mi accorsi che si trattasse d’una città stendaliana - sic) e qui frequentai le prime quattro classi elementari imparando quel poco e approssimativo italiano che poi doveva permettermi di scrivere articoli di giornale e libri. Mio padre, che era un fissato delle macchine a vapore, aveva stabilito che io diventassi ingegnere navale. Pertanto venni iscritto di prepotenza al locale Istituto Tecnico. Il primo anno mi riuscì perfetto. Infatti, mio padre non mi accompagnò in classe ma mi abbandonò nel corridoio e io potei andarmene sul Lungo-Parma senza essere notato. Correva l’anno 1918 e io lasciai correre anche perché era un anno difficile, tanto è vero che, il 4 novembre scoppiò la pace e incominciarono i guai. Allora, per tener tranquillo il popolo lavoratore che non aveva la minima voglia di lavorare, avevano inventato quel tipo di lavoro che, mi pare, si chiama a regìa. Mi spiego: si assume un lavoratore, gli si consegna una carriola pregandolo di non andare a vendersela assieme al badile. Poi gli si fa caricare della terra o della ghiaia nel punto A e lo si induce a portarla nel punto B. Di qui lo si convince a riportarla nel punto A. Dopo una trentina di andate e ritorni, il lavoratore ha capito il meccanismo della faccenda e, caricata la ghiaia nel punto A, la porta nel punto B dove si siede e incomincia a giocare a carte con gli amici. Poi gli viene sete e, siccome c’è lì, sempre tra i piedi, un ragazzino coi capelli alla bebè, lo manda a comprare vino e sigarette. Il ragazzino va, pure non essendo sul foglio paga. In compenso i maridèn (cosi erano chiamati quegli «scarriolanti») gli insegnano a fumare, a bestemmiare e lo informano diligentemente su particolarità molto interessanti ma non adatte a essere riferite a studentesse e a professoresse degli istituti tecnici. Durante quel primo anno d’Istituto Tecnico, nessuno della scuola mi aveva notato. Mio padre aveva molto da fare e mia madre era convinta che non si può strappare un angioletto coi capelli alla bebè dalle gonne della signora maestra e buttarlo come un agnellino tra i lupi nell’inferno della scuola secondaria. Il fatto che io dovessi ripetere l’anno venne accettato pacificamente. Ma il secondo anno m’andò male. Mio padre, il primo giorno di scuola, mi portò fin dentro l’aula dove fui costretto a rimanere fino al termine della prima ora. Poi ritornai ai miei lavori nel greto del torrente: ma ormai era troppo tardi. La dannata professoressa di Lettere mi aveva notato e, non vedendomi più ricomparire nei giorni seguenti, incominciò a domandare ai ragazzi: «Ma quello con la frangetta non viene più?». (Allora, coi capelli lunghi alla bebè, facevo molto colpo sulle donne: adesso, anche coi capelli alla Beatles non mi riuscirebbe più, anche perché i capelli alla paggio non quadrano molto bene coi baffi grigi.) Nella scuola, come nella vita militare, l’unica regola valida per chi intende passarsela bene è di non farsi notare. Per questo, il secondo anno d’Istituto Tecnico mi andò male. Mi lasciarono finire l’anno e poi mi spedirono in collegio. Lì mi raparono a zero, mi introdussero a forza dentro una divisa che mi andava stretta soprattutto nei punti dove doveva essere «comoda« e ricominciai da capo. Ginnasio, adesso. Mio padre aveva litigato con un ingegnere e si era accorto che gli ingegneri sono tutti dei cretini. Perciò aveva stabilito che dovessi diventare avvocato. Per la storia: diventai un «ginnasiotto» formidabile e con voti incredibilmente alti - merito della maturità cui mi avevano portato i compagni lavoratori del greto del torrente Parma - arrivai alla fine della quinta classe come un trionfatore. Sempre per la storia il collegio è il ”Maria Luigia” di Parma. Era stabilito che io frequentassi, sempre da collegiale, anche le tre classi del liceo. Ma ciò non risultò possibile per una questioncella amministrativa: l’amministrazione del Collegio, infatti - nella sua grettezza quasi medievale - non accettava il pagamento della retta in cambiali. Frequentai le tre classi di Liceo da esterno con la spesa complessiva di lire due al giorno: una lira di caffelatte e una pagnotta di pane da una lira per «passare» il mezzogiorno. In seconda liceo commisi una grave imprudenza: io, fino a quel momento avevo praticato soltanto studentesse che - allora - conducevano un treno di vita molto sobrio e, coi compagni di scuola, parlavano soltanto di faccende scolastiche. Conobbi, invece una ragazza «esterna» che, paga della sua licenza di terza elementare, si disinteressava completamente di cose scolastiche pur possedendo moltissime altre nozioni interessanti. Inoltre aveva vizi perversi come quello di fumare o di andare al cinema e, così, mi mangiava in fumo e fotogrammi pagnotta e caffelatte. Superato brillantemente, a luglio, l’esame di Stato, la famiglia, con la scusa che ero «maturo» mi tolse l’appannaggio delle due lire quotidiane. Allora mi iscrissi all’Università e incominciai a lavorare per vivere. Così presi appunto il grave vizio di lavorare per vivere e non me ne sono ancora liberato. Provai una infinità di mestieri: elettricista, caricaturista, cartellonista, xilografo, scenografo, disegnatore meccanico, custode di depositi di biciclette. Non me ne riuscì bene nessuno e, allora, ripiegai sul giornalismo. Scrissi dapprima sulla ”Voce di Parma”, poi sulla ”Gazzetta di Parma”. Nello stesso tempo, facevo la campagna saccarifera tre mesi ogni anno come aiutante portiere nello zuccherificio di Parma. Fui per un anno anche istitutore al collegio Maria Luigia dove tutti mi prendevano sul serio eccettuati i ragazzini a me affidati. La fortuna, però, mi aiutò perché riuscii ad evitare di frequentare l’Università e potei affrontare la parte decisiva della mia vita senza essere ostacolato da lauree o diplomi. Frequentai il corso di ufficiale di complemento d’Artiglieria di Corpo d’armata a Potenza e andai a prestare il servizio di prima nomina a Modena, nel 6° reggimento, comandato allora dal colonnello Marras che poi diventò generale e capo dello Stato Maggiore. Io, invece, arrivai fino a tenente e tenente sono ancora. Finito il servizio militare, mi trasferii a Milano dove rimasi 25 anni. Stavano mettendo in piedi, dalla Rizzoli, un settimanale umoristico chiamato ”Bertoldo”. Riuscii a infilarmi nel gruppo che comprendeva nomi importantissimi come Mosca e il grande Marotta. Lo stesso Saul Steinberg, oggi il più celebre disegnatore umorista degli Stati Uniti, uscì dal ”Bertoldo”. Per cause indipendenti dalla mia volontà, scoppiò la guerra mondiale. Io ero stato fascista dal 1922, quando avevo solo 14 anni: venni arrestato nel 1942 dai fascisti per aver comunicato al rione Gustavo Modena, Ciro Menotti, Castelmorrone ciò che in quel momento pensavo di tutta la faccenda. Per salvarmi dal processo mi fecero richiamare: l’8 settembre del 1943 fui catturato dai tedeschi che gentilmente mi domandarono se preferivo continuare a combattere assieme a loro o se preferivo essere mandato in campo di concentramento. Risposi che avevo deciso di continuare la guerra per conto mio e, così, mi trovai in un campo di concentramento presso Varsavia in Polonia. Dicono i miei compagni di prigionia che mi comportai molto bene in quei 19 mesi di prigionia. Può anche darsi. Quando vennero gli inglesi a liberarmi, ero 46 chili compresi gli zoccoli di legno all’olandese. Poi gli americani mi liberarono dagli inglesi e, dopo sei mesi di attesa, potei tornare a casa dove trovai che una sconosciuta aveva occupato il mio letto: si chiamava Carlotta ed era nata due mesi dopo che ero stato catturato dai tedeschi. Mi rimisi subito al lavoro: riconquistato il mio appartamentino di Milano occupato da quelli che avevano vinto la guerra, fondai assieme a Mosca e Mondaini il ”Candido”. Incominciai a rompere seriamente le scatole alla gente e continuai imperterrito anche dopo aver ricevuto una condanna a 8 mesi di carcere per non aver trattato con sufficiente rispetto il Presidente della Repubblica. Poi inciampai contro un pezzo grosso oggi defunto e monumentato e mi feci, nel carcere San Francesco di Parma, tredici mesi di galera: e, a onore del vero, ricevetti un trattamento che solleticava molto il mio orgoglio perché mi vedevo considerato alla stregua dei più stimati professionisti in rapine, furti con scasso, violenze carnali, omicidi eccetera Trascorsi i miei sei mesi di libertà vigilata, mi trasferì a Roncole dove abito ancora assieme ai miei due figli e alla mia unica (ma sufficiente) moglie. Mio figlio ha studiato a Cremona ed è geometra. Mia figlia ha studiato a Cremona e, arrivata alla terza liceo e alla vigilia dell’esame di Stato, si è accorta di percorrere una via sbagliata e ha abbandonato la scuola. Attualmente mio figlio e mia figlia (che si chiamano rispettivamente Alberto e Carlotta) gestiscono un piccolo ristorante a Roncole (un’altra delle mie brillanti imprese). Mia moglie soprassiede. Soprassiede a tutto, si capisce: un po’ come il sole che illumina e scalda ogni cosa dall’alto dei cieli. Amen. Fra una disgrazia e l’altra, ho scritto alcuni libri: La scoperta di Milano, II destino si chiama Clotilde, Il marito in collegio (anteguerra). La favola di Natale, L’Italia provvisoria, Don Camillo, Lo Zibaldino, Diario clandestino, Don Camillo e il suo gregge, Corrierino delle famiglie, Il compagno Don Camillo. Questi libri sono stati tradotti in tutte le lingue principali (anche in Braille, per i ciechi) eccettuata la italiana ed è forse per questo che i critici italiani non hanno mai preso in considerazione i miei scritti. Ho scritto anche sceneggiature tratte da miei libri e poi rovinate irrimediabilmente dal cinema. Adesso sono seduto alla macchina per scrivere: in mutande perché fa caldo, ma fiero. Ho un’ora più di quando ho incominciato a scrivere questa lettera: però non mi sento vecchio. Detesto Rita Pavone e vorrei essere un gigante smisurato per poter falciare (come quel vecchio che vedo dalla finestra sta facendo nel prato di erba medica) tutte le antenne della Tv che levano i loro tentacoli dal culmine delle case. Detesto i «tifosi» anche se un atteggiamento del genere è assai impopolare. Il mio cane si chiama Anileto e zoppica nel treno anteriore. Fisicamente mi presento come un uomo di 56 anni con grossi baffi. Sono sviluppato più nel senso verticale che in quello orizzontale e, pertanto, sono più alto che largo. Siccome il dottore mi ha proibito di fumare, fumo soltanto quando il dottore non c’è. Dimenticavo l’hobby. Tutti hanno un hobby (ammesso che si scriva cosi) e il mio hobby è originalissimo perché ho l’hobby di non avere nessun hobby. Questa sarebbe la mia vita. Non servirà a niente. O, con più precisione: servirà soltanto a dimostrare che ho cercato di farmi perdonare di non aver aiutato le Sue allieve. A Lei e a tutta la Quinta A i più cordiali saluti di Giovannino Guareschi