[1] ཿCorriere della Sera 7/7/2004; [2] ཿLa Stampa 6/7/2004; [3] Massimo Alberizzi, ཿCorriere della Sera 28/5/2004; [4] Pietro Veronese, ཿla Repubblica 17/2/2004; [5] Sergio Romano, ཿCorriere della Sera 11/7/2004; [6] Massimo A. Alberizzi, ཿCorriere d, 7 luglio 2004
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 26 LUGLIO 2004
Altri Ruanda: il festival della viltà s’è spostato in Sudan.
Trentacinque dei 48 Paesi più poveri del mondo si trovano in Africa. Un quarto degli 830 milioni di abitanti del continente è malnutrito. La produzione alimentare media per persona è in calo da oltre 40 anni. Negli ultimi 50 anni ci sono stati oltre 180 colpi di Stato, la metà negli anni ’80 e ’90. Le guerre in corso sono 20. L’ultima emergenza è nel Darfur, in Sudan, dove in pochi mesi ci sono stati 20 mila morti e oltre un milione di profughi. [1]
Il Sudan ha ventidue milioni di abitanti divisi in seicento etnie. [2] Dal 1999 è diventato un paese esportatore di petrolio grazie alla scoperta di importanti giacimenti. I pozzi sono concentrati nelle zone degli scontri. [3] Pietro Veronese: «L’espressione ”guerra dimenticata” è stata inventata proprio per il Sudan, segnato da esodi biblici di popolazione, raid e razzie e stragi di poveri abitanti di villaggi, indicibili violazioni della più elementare umanità, un’atroce guerra civile che ha lacerato le viscere del sud oltre allo scontro maggiore che opponeva il sud al nord, due spaventose carestie - alla fine degli anni ’80 e poi di nuovo dieci anni dopo - e la più costosa, massiccia, duratura operazione umanitaria mai lanciata dall’Onu. Il risultato è che in questo territorio gigantesco grande come quattro Italie non c’è una via asfaltata, una linea ferroviaria, quasi nessuna scuola, nessun ospedale». [4]
Quelle che vengono chiamate strade sono piste per il bestiame. Veronese: «Il Nilo non ha ponti e non è attraversabile se non a rischio della vita. Due generazioni sono passate senza alcuna istruzione, precipitate a tassi di analfabetismo assoluti, esperte solo nell’arte di maneggiare il kalashnikov e di sopravvivere. Nessuno ha più piantato nulla e tutti si sono messi ad aspettare i sacchi di farina scaricati dal ventre degli Hercules, la manna dell’uomo bianco. Questi sono i fortunati, perché intere regioni sono rimaste lontane dagli aiuti e abbandonate a uno stato di arcaico isolamento». [4]
La guerra civile tra nord e sud dura da quasi cinquant’anni. Sergio Romano: «La regione chiamata Sudan (in arabo ”la terra dei neri”) entra nella storia moderna quando un riformatore egiziano, Muhammad Ali, si affranca dalla signoria dell’Impero ottomano e decide di estendere i suoi domini verso il deserto nubiano, le coste meridionali del Mar Rosso e le terre dove il Nilo azzurro si congiunge al Nilo bianco. Conquistato da Ismael, figlio di Muhammad, il Paese diventa da quel momento un vespaio di contrasti politici e religiosi. La Chiesa cattolica vede nella discesa egiziana verso il cuore dell’Africa una grande occasione apostolica e lancia i suoi missionari alla conquista spirituale delle popolazioni animiste del Sudan meridionale. L’Islam marcia con l’intendenza degli eserciti e diffonde il proprio monoteismo lungo le sponde del Nilo». [5]
Nella prima metà del ventesimo secolo il Sudan fu, di fatto, una colonia britannica. Romano: «Ma quando divenne indipendente nel 1956 (l’anno in cui la Gran Bretagna dovette rinunciare al possesso del Canale di Suez), riapparvero alla superficie tutti gli ingredienti che ne avevano fatto, nel secolo precedente, uno dei Paesi più turbolenti e ingovernabili dell’Africa. Fu subito evidente che le popolazioni africane del Sud, prevalentemente cristiane e animiste, non avrebbero accettato il governo delle popolazioni arabe e musulmane del Nord». [5]
All’inizio il motivo degli scontri fu soprattutto sociale ed economico. Romano: «Il Sud vive soprattutto di agricoltura mentre gli arabi sono pastori; e i conflitti scoppiano, come ovunque in queste circostanze, per l’uso dell’acqua e della terra. Ma vennero inaspriti dalle differenze religiose allorché un governo ispirato dai Fratelli musulmani (la casa madre del fondamentalismo islamico) promulgò all’inizio degli anni Ottanta un codice penale ispirato ai principi della legge coranica (la sharia). Le truppe africane dell’esercito sudanese si ribellarono e trovarono rifugio in Etiopia da dove, costituite in Esercito di liberazione, scatenarono una nuova guerra civile». [5]
All’inizio degli anni Novanta la guerra divenne ancora più aspra. Romano: «Secondo Yves Ternon autore di un libro sui genocidi (Lo Stato criminale, Corbaccio 1997) le vittime, dopo dieci anni di combattimenti, erano ormai non meno di mezzo milione. Quando il suo libro apparve in Francia nel 1995 il Sudan era diventato una roccaforte del fondamentalismo islamico. Aveva ospitato Osama bin Laden prima della sua partenza per l’Afghanistan e sarebbe stato, di lì a poco, bersaglio di un attacco missilistico americano lanciato dal presidente Clinton contro un laboratorio per la fabbricazione di armi chimiche. Si trattava in realtà di un’azienda farmaceutica, ma le responsabilità del Sudan erano state nel frattempo riconosciute e condannate dall’Assemblea generale dell’Onu [...]». [5]
L’ultimo conflitto è scoppiato nel 2003. Il Darfur è un’immensa provincia nella zona occidentale, popolata da quattro milioni di persone. [2] Massimo A. Alberizzi: «Sono musulmani, ma non arabi. Appartengono a tribù africane che abitavano quelle zone molto, molto prima che i califfi importassero l’islam e Maometto. Sono fur (da cui il nome della regione), zaghawa (i più numerosi), masalit, berti, midoub. Accusano il governo di Khartoum di averli marginalizzati, di considerarli cittadini di serie B, di trattarli insomma come schiavi, loro che ne sono i discendenti. Le richieste di maggiori garanzie, avanzate per anni, hanno preso corpo in due movimenti di guerriglia: lo Sla (Sudan Liberation Army, apparentemente laico) e lo Jem (Justice and Equality Movement, islamico e più politico che militare)». [6]
Il regime militar-islamico di Khartoum ha reagito con la solita spietatezza. Alberizzi: «Alla fine dell’anno scorso si è rifornito d’armi. Ha comprato 12 aerei da bombardamento Mig 21 e armi pesanti dall’Ucraina. Mediatrice dell’affare una società franco-algerina. E nel Darfur è cominciato l’inferno». [6] Romano: «Ha messo in campo una milizia araba, montata su cavalli e cammelli. Si chiamano Janjaweed (i «diavoli a cavallo») e vengono usati principalmente per bruciare i villaggi e cacciarne la popolazione». Avvolti in turbanti bianchi, usano armi tradizionali, scimitarre e coltelli, ma anche fucili automatici. Il loro compito è terrorizzare le popolazioni non arabe massacrando, stuprando, mutilando. [5]
I darfuriani sono così terrorizzati che non osano abbandonare i campi dove hanno trovato rifugio. William F. Deedes: « impressionante sentirli parlare dell’incombenza domestica quotidiana più consueta in tutta l’Africa, andare a far legna. ”Se mandi gli uomini saranno uccisi. Se mandi le donne o i bambini saranno violentati. Se mandi le vecchie si limiteranno a picchiarle”». [7]
Kofi Annan ha evitato per mesi la parola «genocidio». Domenico Quirico: «Quel termine, così scomodo, impone risoluzioni, interventi, caschi blu, sanzioni, guai, seccature, polemiche». [8] Alla fine si è dovuto arrendere. Alberizzi: «Durante il discorso di commemorazione del genocidio del Ruanda, il 7 aprile scorso, ha fatto esplicito riferimento al Sudan: ”C’è il rischio spaventoso di un altro genocidio” ha detto. Il genocidio è già in atto ma la comunità internazionale, nonostante abbia chiesto scusa per non essere intervenuta in Ruanda nel 1994, non pare voglia rendersene conto. Lacrime da coccodrillo». [6]
giusto parlare di genocidio? Romano: «La parola appare per la prima volta in un libro di Raphael Lemkin, professore dell’Università di Yale, pubblicato in America nel 1944. Secondo Lemkin vi è genocidio quando uno Stato adotta «un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali per annientare questi gruppi stessi». La parola ha perduto da allora questo significato e si è allargata sino a comprendere politiche che non si propongono l’annientamento di un popolo, ma mirano a cacciarlo con la forza dai luoghi in cui abita. Se vogliamo evitare che la parola, inflazionata, diventi trita e banale cerchiamo di evitarne un uso eccessivo. Nel caso del Sudan l’espressione giusta è ”catastrofe umanitaria”. E dovrebbe bastare a suscitare orrore e riprovazione». [5]
La «catastrofe umanitaria» ha proporzioni ancora incerte. Edoardo Albinati: «Se i nostri tempi di reazione politica saranno ancora una volta lenti, forse tra qualche mese saremo costretti a parlare di genocidio, a cose fatte». [9] Deedes: «Banalmente, serve con urgenza una forza di pace. L’ipotesi che il governo del Sudan dispieghi il suo esercito terrorizza la popolazione. L’Onu è impegnato in Iraq. L’Unione africana ha promesso 300 uomini, del tutto insufficienti; e il governo sudanese ha stabilito che dovrà limitarsi a vigilare sul cessate il fuoco mentre la protezione dei sudanesi spetta solo al governo nazionale. Impasse». [7]
Quello che sta accadendo nel Darfur ha molti precedenti. Ma fino al 2003 questa parte del Sudan non era stata coinvolta nella guerra civile. Veronese: «Il motivo per cui tutto ciò tocca adesso al Darfur è il calcolo politico e in definitiva il cinismo. Da oltre un anno sono in corso in Kenya colloqui di pace tra governo sudanese e guerriglia del sud. Queste trattative hanno fruttato risultati importanti: accordi parziali sono stati raggiunti e sottoscritti su punti specifici, anche se continua a mancare la parola fine a decenni di guerra. probabilmente per questo, perché la pace è vicina, che i capi dei movimenti ribelli dei Fur hanno deciso di impugnare le armi nel febbraio del 2003. Sparano per poter avere un posto al tavolo delle trattative. Secondo gli specialisti della questione sudanese, inoltre, uno di questi due movimenti, il Jem [...] è legato a fazioni islamiche che adesso si trovano all’opposizione a Khartoum. Destabilizzare il Darfur è per costoro un modo di creare un problema politico al governo del generale Bashir». [10]
Si avvicendano movimenti di liberazione che offrono al governo le scuse per i massacri. Quirico: «Sigle ambigue, annegate nel vuoto. ”Il movimento per la giustizia e la legalità”, per esempio. Nessuno sa quanti miliziani abbia, per cosa combatta concretamente dietro queste filosofiche intenzioni. Forse, si sussurra, è solo il braccio armato di una pericolosa rivincita. Quello di Hassan al Tourabi, diplomato alla Sorbona e padre spirituale di bin Laden, ideologo un po’ avvizzito dell’internazionale islamica, che il solerte discepolo ha trasformato in incubo concreto. Il grande vecchio del fondamentalismo sudanese, troppo ingombrante e molesto per Bashir che non ama avere padroni, ha conosciuto la vergogna del carcere. Poi, con misteriosi maneggi, è uscito e forse ora ricatta da lontano il regime scatenando l’apocalisse nel Darfur». [8]
Gli Usa hanno sottoposto al Consiglio di sicurezza dell’Onu un progetto di risoluzione. Colin Powell: «Chiede al governo sudanese di assolvere immediatamente a tutti gli impegni che ha preso per mettere fine alla violenza e aprire l’accesso alla regione ai membri delle organizzazioni umanitarie e agli osservatori internazionali. Il progetto di risoluzione fa pressione sulle parti in guerra affinché concludano un accordo politico senza ulteriori rinvii. Inoltre prevede sanzioni mirate contro le milizie Janjaweed e quanti le aiutano e le appoggiano». [11] Scrivevano a maggio Emma Bonino e William Shawcross: «Il Consiglio di sicurezza dovrebbe immediatamente autorizzare ogni misura tranne l’uso della forza contro il Sudan, ma anche ammonire Khartoum che se non cambia immediatamente rotta avrà come risultato l’intervento militare. Solo un ultimatum così diretto dimostrerà che la comunità internazionale fa sul serio quando dice ”mai più”, intendendo che non assisteremo passivamente ad un nuovo massacro di innocenti che si svolge sotto i nostri occhi». [12]
Il ruolo di Bush e Blair. Emanuele Piano: «La pace in Sudan è una delle priorità per il 2004, ha detto Charles Snyder, influente sottosegretario per l’Africa del Dipartimento di Stato Usa. E c’è da credergli. Sarebbe un bel colpo pre-elettorale per George W. Bush». [13] Il ”manifesto” di venerdì: «Downing street si è personalmente spesa per un intervento militare in Sudan. Tre le opzioni proposte: truppe britanniche impegnate nell’aiutare le organizzazioni umanitarie nella distribuzione di aiuti; supporto logistico (non meglio specificato) garantito da una forza di 300 militari; truppe impegnate nella protezione dei campi profughi con la creazione di cosiddette ”zone sicure”. Quest’ultima opzione in particolare dà adito a sgradevoli sospetti: che si voglia controllare soprattutto che i profughi non cerchino di lasciare il Sudan?». [14]
Il Congresso Usa ha rotto gli indugi: venerdì ha approvato un documento in cui chiama la tragedia del Darfur «col suo vero nome: genocidio» e chiede a Bush di abbandonare la dizione «catastrofe umanitaria». Il punto è che se nella risoluzione che circola al Palazzo di Vetro si parlasse di «genocidio», le Nazioni Unite potrebbero automaticamente inviare truppe per bloccarlo. Sempre sabato Kofi Annan ha intimato per l’ennesima volta al governo sudanese di bloccare i massacri. Da Khartoum invitano tutti, Washington e Londra soprattutto, a farsi gli affari propri. [15]
Il rischio del contagio. Emma Bonino: «Questa crisi politica ed umanitaria - la più grave in corso oggi nel mondo - rientra pienamente nella categoria delle crisi create dall’uomo (manmade disasters) e rischia di provocare oltre 350 mila morti nei prossimi nove mesi, di portare un danno irreparabile all’equilibrio etnico di sette milioni di persone tutte di religione musulmana - a riprova del fatto che non si tratta di una guerra di religione ma di un conflitto etnico per il dominio del territorio e delle sue risorse - e di rappresentare un elemento catalizzatore per altre insurrezioni in diverse parti del paese, creando instabilità in tutta la regione [...] Occorre agire subito, anche se nel Darfur non ci sono i cameramen della Cnn». [16]
L’Africa non fa notizia. Il cardinale Renato Raffaele Martino: «O diamo dignità di notizia alla sua sofferenza, o ne verrà un dramma per tutti. Se la comunità internazionale l’aiuterà a trovare una sua via di sviluppo, questo continente, grazie alle sue risorse umane e naturali, sarà una benedizione per tutti. Ma se sarà lasciato alla sua disperazione, da esso potrebbe venire una nuova ondata terroristica». [17]