Massimo Mucchetti Corriere della Sera, 07/07/2004, 7 luglio 2004
La privatizzazione della Rai sembra solo un bluff, Corriere della Sera, 07/07/2004 Con un certo ritardo sui tempi fissati dalla legge Gasparri, i consigli di amministrazione di Rai Spa e di Rai Holding hanno avviato le procedure per la fusione
La privatizzazione della Rai sembra solo un bluff, Corriere della Sera, 07/07/2004 Con un certo ritardo sui tempi fissati dalla legge Gasparri, i consigli di amministrazione di Rai Spa e di Rai Holding hanno avviato le procedure per la fusione. Poi, nel giro di 4 mesi, il ministero dell’Economia, azionista pressoché unico, avvierà il non meglio precisato «processo di alienazione della partecipazione dello Stato nella Rai». In teoria, la prima tranche di azioni potrebbe essere offerta al pubblico ai primi del 2005. Ben pochi credono che la classe politica italiana voglia davvero rinunciare all’azienda che sente sua più di ogni altra. E tutti quelli che ricordano la nozione del conflitto d’interessi rimangono colpiti dalla circostanza che tocchi personalmente a Silvio Berlusconi, ministro dell’Economia ad interim lungo e padrone di Mediaset, il potere di stabilire quando e quante azioni della Rai e a che prezzo e in quali condizioni giuridiche e concessorie debbano essere poste in vendita. Ma chiudiamo per il momento tra parentesi questa trave e dedichiamoci alle pagliuzze. Ci si può chiedere, per esempio, a quale prezzo la Rai possa essere messa sul mercato. Non esistendo stime ufficiali, vale il paragone con i concorrenti. In questi giorni, Mediaset quota 30 volte i profitti e capitalizza 11 miliardi di euro. Secondo il piano industriale firmato dal direttore generale Flavio Cattaneo (e contestato dall’ex presidente Lucia Annunziata), nel triennio 2004-2006 il gruppo Rai dovrebbe realizzare un utile medio di 33 milioni di euro l’anno. Che darebbe, applicando il multiplo Mediaset, un valore teorico della Rai pari a un miliardo di euro: una miseria. Per spuntare prezzi presentabili, l’azionista potrebbe enfatizzare altri parametri: per esempio il risultato operativo. In quest’ottica più generosa, medie europee alla mano, le previsioni del piano Cattaneo porterebbero la valutazione a quota 2,5 miliardi: meglio della prima, ma sempre lontana dalla capitalizzazione di Mediaset. Una distanza che impressiona, avendo la Rai un marchio di grande popolarità e ascolti superiori, sia pur di poco, a quelli della tv berlusconiana. Ma valutare di più questa Rai sarebbe un’operazione spericolata. La tv di Stato non è un’aziendina della new economy che possa presentarsi al nuovo mercato dicendo: nei prossimi anni non guadagnerò quasi nulla e non vi darò dividendi, ma sto investendo su un piano speciale che vi farà ricchi più avanti. Cinquant’anni di storia la smentirebbero. E ancor più la smentirebbe la struttura del suo conto economico sul quale grava l’equivoco del servizio pubblico che la Rai ha in concessione fino al 2016. Che cosa sia sulla carta il servizio pubblico lo stabiliscono la legge e il contratto triennale tra la società e il ministero delle Comunicazioni. La Gasparri, tuttavia, è generica e il contratto di servizio trabocca di dettagli irrilevanti quanto rimane vago nella sostanza. Prima di privatizzare Autostrade ci vollero anni per definire il regime concessorio. Qui non si chiarisce nemmeno che cosa accadrà dopo il 2016. D’altra parte, il servizio pubblico è come l’Araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Tanto meno gli abbonati. Basta scorrere le tabelle che riassumono la ricerca effettuata dallo Studio Frasi sui palinsesti Rai e Mediaset tra il 16 e il 22 maggio, una settimana scelta a caso. un confronto organizzato sul principio di sussidiarietà: lo Stato non invasivo fa solo quanto i privati non sanno o non possono fare. Il primo esito della ricerca è che Mediaset non lascia alla Rai generi da seguire in esclusiva: informazione, sceneggiati, cronaca, sport, cinema e così via, la sovrapposizione è totale. All’interno di questa sovrapposizione, alla Rai resta qualcosa di suo: Formula Uno invece del Moto GP, qualche tv movie europeo (40 minuti su oltre 300 trasmessi) e soprattutto l’informazione regionale. (Si potrebbe eccepire che pure l’informazione regionale è fornita, non di rado con perizia, dalle emittenti locali, ma non siamo pignoli). L’insieme delle trasmissioni esclusive rispetto a Mediaset occupa il 30% del palinsesto nelle 24 ore. Ciò vuol dire che per i due terzi del tempo Rai e Mediaset sono la stessa cosa. E qui emerge la grande stranezza: il canone e gli altri contratti con la pubblica amministrazione danno il 60% dei ricavi e, poiché la Rai non guadagna quasi nulla, coprono un’analoga percentuale dei costi. La pubblicità, con il 40% dei ricavi, finanzia il 70% delle ore trasmesse nella settimana indagata. Ovviamente, è ben noto che il servizio pubblico comprende anche la radio (una parte), Rai International (che per lo più ricicla programmi nazionali), l’archivio, l’orchestra, le trasmissioni per le minoranze linguistiche. Ma giustificare il canone con il mero elenco delle funzioni rischia di assomigliare al latinorum di un Azzeccagarbugli di fronte alla realtà percepita dai telespettatori. La Rai svolge dunque un servizio pubblico ingiustificabile sul piano editoriale e però particolarmente costoso. Fino a quando resta per intero di proprietà dello Stato, questa attività rappresenta un problema politico. Ma quando le azioni della Rai venissero proposte al mercato, gli interessi in gioco cambierebbero: chi fosse invitato a investire avrebbe diritto a veder remunerato l’investimento. Sfortunatamente, la Rai ha una struttura di costi e di ricavi che la legge Gasparri sembra pietrificare nella situazione di svantaggio competitivo con Mediaset. La serie storica dei bilanci delle due emittenti parla da sé: nel 1994 i ricavi di Mediaset erano pari al 75% di quelli della Rai; 10 anni dopo si sono portati al 109%. Avendo il canone, la Rai può offrire meno spot di Mediaset: su base giornaliera viaggia in ragione, più o meno, di uno a tre. Pertanto, al di là di estemporanei successi congiunturali, la raccolta pubblicitaria della Rai crescerà sempre meno di quella di Mediaset perché la base di partenza dei ricavi di mercato è minore. E la compensazione del canone è insufficiente e incerta, legata alla discrezionalità del governo come dimostra la storia degli ultimi anni. Non bastasse questo tipo di duopolio sbilanciato, l’espansione internazionale - già in atto per Mediaset, improbabile per una Rai pubblica - ha dato il contributo marginale al sorpasso del Biscione e ora consoliderà il vantaggio. Quale investitore razionale potrà mai volere le azioni di un’azienda condannata a correre con l’handicap senza pretendere lo sconto? Corriere della Sera, giovedì 8 luglio La Gasparri dice che il Ministero dell’Economia, oggi retto dal padrone di Mediaset per un periodo non determinato, dovrà uscire dalla Rai. Ma non precisando i tempi, lascia supporre un regime transitorio con lo Stato comunque azionista di riferimento. In tale nebuloso contesto, i 9 consiglieri di amministrazione della Rai vengono eletti dall’assemblea mediante voto di lista, ma, fino a quando non verrà ceduto almeno il 10% del capitale, 7 saranno designati dalla Commissione parlamentare di vigilanza e 2 dal ministero, e cioè da Berlusconi. Ciò vuol dire che, nel caso di un’offerta di titoli inferiore al 10%, i privati non avrebbero alcuna rappresentanza al vertice. Nel caso di un’offerta più ampia, il ministero farà comunque eleggere un numero di consiglieri proporzionale alle azioni possedute sulla base delle indicazioni dei 40 membri della Commissione parlamentare che possono votare un nome solo ciascuno. In ogni caso, il presidente della Rai dovrà avere il placet della Commissione parlamentare. In buona sostanza, l’influenza della classe politica - e della maggioranza in particolare - viene confermata sine die. Rimane perfettamente in piedi la struttura proprietaria e di governo che giustifica la lottizzazione degli incarichi. Elargendo spazi di intervento politico e un certo numero di posizioni professionali su segnalazione dei leader o dei loro collaboratori, la Rai si conferma il principale sistema di finanziamento dei partiti dopo Tangentopoli. Talché ogni tentativo di razionalizzazione o di riduzione dei costi susciterà sempre, com’è stato finora, il legittimo sospetto che, in realtà, si tratti di un’astuzia per togliere risorse alle cordate perdenti. Non è questo un ostacolo che precluda ogni rapporto con il mondo della finanza, uso a lavorare secondo realpolitik. Certo, un segno lo lascia: la Rai potrà sempre emettere obbligazioni, ma come potrà convincere il fondo delle vedove scozzesi che le sue azioni sono buone? Se gli analisti finanziari si preoccupano delle possibili interferenze del governo su una società come l’Eni di Mincato, che cosa mai potranno pensare della Rai lottizzata e quale discount potranno esigere? La Gasparri non dice se la Rai, una volta distribuita una quota del capitale ai privati, debba anche essere, come parrebbe logico, quotata in Borsa. D’altra parte, l’assoluta e voluta incertezza del quadro concessorio sconsiglierebbe di sottoporla all’esame di mercati finanziari regolamentati. Per un tempo indefinito, dunque, il controllo della società non potrà mai essere messo in gioco con i conseguenti effetti depressivi sul valore del titolo. Resta il fatto che, quando pure quotata non fosse, una Rai con nuovi soci dovrebbe pur sempre darsi l’obiettivo del guadagno. Ma il guadagno - quello vero, modello Mediaset - per questa Rai è una chimera. La cartina di tornasole è nella vexata quaestio del servizio pubblico. Se un marziano atterrasse a Roma nel 2005 e fosse nominato a capo della Rai, andrebbe certo a scartabellare nell’archivio di viale Mazzini per informarsi. E non farebbe fatica a scoprire che nel 1999 la direzione generale, in un documento fatto proprio dal governo e inviato al commissario europeo Mario Monti, aveva giustificato buona parte di questa specie di tassa come compensazione del minor affollamento pubblicitario della tv pubblica rispetto a quello concesso a Mediaset. Per la prima e unica volta, la Rai aveva fatto addirittura il conto del lucro cessante: 1.200 miliardi di lire (619 milioni di euro). Il marziano, allora, si stupirebbe molto nel leggere la legge Gasparri laddove, articolo 18, comma 4, recita: « fatto divieto alla società concessionaria della fornitura del servizio pubblico di utilizzare, direttamente o indirettamente, i ricavi derivanti dal canone per finanziare attività non inerenti al servizio pubblico generale radiotelevisivo». Ai suoi occhi di marziano, quella strana cosa che è la Gasparri fa saltare il vecchio do ut des tra Rai e Mediaset. E tanto gli basterebbe per chiedersi perché mai la tv pubblica in via di privatizzazione debba poter offrire agli inserzionisti meno spot della concorrenza, quando il canone paga soltanto - lo certifica la contabilità separata richiesta dalla legge - il puro e semplice servizio pubblico. Per tutte le altre trasmissioni, il marziano vorrebbe aver diritto agli stessi affollamenti di Mediaset per competere ad armi pari, magari per sfondare all’estero. E cercherebbe di mettersi nelle migliori condizioni per far valere il suo buon diritto. Sospettando che sia impossibile dare il rendiconto di un canone che in parte finanzia ciò che si fa (il servizio pubblico) e in parte ciò che non si fa (la quota della raccolta degli spot lasciata a Mediaset), il marziano concentrerebbe tutto quanto non è commerciale in un’unica società, con una rete radio e una tv, così da evitare, in radice, ogni discussione. E poi si rivolgerebbe all’Autorità delle Comunicazioni e all’Antitrust: «Vengano aumentati gli spazi per gli spot per la parte di Rai che non è servizio pubblico», reclamerebbe, «oppure si riduca l’affollamento di Mediaset». Diversamente, il capo venuto da Marte denuncerebbe il Biscione alla Commissione europea per la concorrenza per aiuti di Stato. Ma il marziano atterra a Roma solo nella fantasia di Flaiano. E in ogni caso si sentirebbe sussurrare all’orecchio che tutto in Rai è servizio pubblico: anche ”L’isola dei famosi”. Un servizio pubblico così importante per la democrazia, il pluralismo e la cultura (l’1,8% del servizio pubblico diurno, secondo lo Studio Frasi) che il canone non basta nemmeno a pagarlo tutto, e ci vuole anche un po’ di pubblicità. già capitato a Pierluigi Celli che venne invitato a lasciar perdere quando da direttore generale cercò, quale primo timido passo, di spaccare Radio Rai in due società, di cui una finanziata solo dal canone. E c’era il governo D’Alema. Adesso, chi può credere che il Berlusconi azionista della Rai, per mettere la Rai in grado di creare maggior valore per i suoi nuovi soci, insidi davanti alle Autorità di garanzia il primato del Berlusconi targato Mediaset? Massimo Mucchetti