Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  dicembre 17 Sabato calendario

L’arte secondo il politically correct. Libero 17/12/2005. Nel 1975 Tom Wolfe scrisse in ”The painted word” (’La parola dipinta”) una folgorante profezia: un’esposizione in cui comparivano, in gigantografia, immense pagine di critica

L’arte secondo il politically correct. Libero 17/12/2005. Nel 1975 Tom Wolfe scrisse in ”The painted word” (’La parola dipinta”) una folgorante profezia: un’esposizione in cui comparivano, in gigantografia, immense pagine di critica. Di fianco, a mo’ di didascalia, in pochi centimetri quadrati, le opere oggetto delle interpretazioni appese al chiodo. Lo scrittore stigmatizzava la proliferazione non solo di quelle che Eco ha chiamato «interpretazioni aberranti», ma il tic intellettuale per cui queste diventano più ”vere” dell’opera di cui parlano; il paradosso secondo cui la pittura «esiste per illustrare il testo». Roger Kimball, storico dell’arte e giornalista, ha fatto un passo in più: nel suo ”The rape of the masters” (’Lo stupro dei maestri”), di cui è da poco uscita una ristampa riveduta e ampliata negli Usa, si è divertito a passare in rassegna quelle che giudica vere e proprie violenze sui capolavori. Armato di buon senso contro le ossessioni decostruzioniste della cultura accademica progressista, Kimball si scaglia contro i luminari della storia dell’arte, pronti a ”stuprare” Van Gogh, Gauguin, Rubens: basta ignorare la realtà rappresentata per presentare quadri di ogni genere come manifesti anticapitalisti, metafore freudiane, denunce dell’imperialismo. Il capostipite è, per Kimball, Walter Benjamin, autore de ”L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica”. Suo l’assunto secondo cui la modernità ha «ribaltato la funzione dell’arte, non più basata su un rituale, ma sulla politica». Così ogni capolavoro è vittima di «sabotaggi semantici», retaggi di una deriva che impone di piazzare tra virgolette espressioni come ”vero”, ”verità”, ”realtà”. Un relativismo che sospende ogni dubbio quando sostiene che «il linguaggio è incapace di raggiungere il significato. Le funzioni linguistiche suggeriscono una presenza assente di significato» (così l’accademico Moxey). A colpire è la trafila di esempi. Si comincia con Courbet, apripista del realismo fine ”800. Nel mirino di Kimball finisce il professor Fried, titolare di una prestigiosa cattedra. Questi si lancia in una interpretazione della ”Cava” di Courbet, che mostra il riposo del cacciatore dopo la cattura di un cervo . Scena di caccia? No. «Archetipo della perfetta reciprocità tra produzione e consumo già mostrata dall’introduzione generale ai ”Grundrisse” da Marx». Non solo: Fried è «scioccato dalla violenza implicita contenuta nel punto di vista del cacciatore (che ha gli occhi chiusi, ndr), per quanto riguarda le parti basse dell’animale». L’osservatore sarebbe «condotto verso i genitali della bestia, o almeno verso la consapevolezza della loro esistenza, dall’esposizione dell’ano, metonimia del resto». Un «invito alla discussione sulla castrazione in termini freudiani». Qualsiasi perplessità è vinta dall’assunto in base a cui «la lettura che avanzo è così estrema che neppure lo stesso Courbet potrebbe comprendere la mia esplorazione».  poi la volta di Winslow Homer. Una delle opere più celebri del pittore di Boston è ”La corrente del Golfo”, che raffigura un uomo di colore su una zattera in balia delle onde, circondato da squali. Per il professor Boime non ci sono dubbi: « un’allegoria della vittimizzazione dell’uomo di colore. Homer coglie la situazione di sofferenza economica dei neri». Anche perché «le ambizioni imperialiste dell’America proprio in quel periodo (fine ”800, ndr) si dispiegavano sulle Hawaii, le Filippine, Cuba, Porto Rico, con una politica di discriminazione nei confronti delle popolazioni di colore». A proposito del quadro in questione, Homer diede questa risposta a un giornale nel 1902: «Mi spiace dover dare spiegazioni. Ho percorso la corrente del Golfo dieci volte e gli squali ci sono. Dite a chi si preoccupa che il nero si salva, torna dai suoi e vive felice e contento». Forse l’apice è il commento del padre dei decostruzionisti, Derrida, alle celeberrime scarpe di Van Gogh (1896). Il titolo dell’opera è ”Un paio di scarpe”. «Non è ”Paio di scarpe”, ma ”Un paio di scarpe”», nota il francese. Una trappola che gli fa domandare: «Non è la possibilità della ”spaiatezza”, non è la logica di questa falsa parità, piuttosto che quella della falsa identità, a costruire questa trappola?». «Avete il coraggio di rispondere?», commenta Kimball, che conclude così il suo ”The rape of the masters”: «Derrida e i professori che ho citato non sono eccezioni nel mondo culturale. Sono l’establishment culturale, definiscono criteri e stili delle loro discipline. Nel frattempo, cosa succede all’arte?». Martino Cervo