MACCHINA DEL TEMPO GENNAIO-FEBBRAIO 2006, 22 dicembre 2005
L’Italia non ha ancora 150 anni e a guardarsi indietro già si rischiano le vertigini. Dalla sua nascita, infatti, i cambiamenti socio-economici sono stati tali, che viene quasi istintivo cercare degli appigli, dei punti di riferimento per potersi guardare allo specchio e capire chi siamo stati e chi potremmo diventare
L’Italia non ha ancora 150 anni e a guardarsi indietro già si rischiano le vertigini. Dalla sua nascita, infatti, i cambiamenti socio-economici sono stati tali, che viene quasi istintivo cercare degli appigli, dei punti di riferimento per potersi guardare allo specchio e capire chi siamo stati e chi potremmo diventare. E per fortuna gli storici continuano a mettere un po’ d’ordine alle cose e a offrirci gli strumenti più adatti a un bilancio personale e collettivo. Strumenti come questo L’Italia del Novecento-Le fotografie e la storia, un’opera in tre volumi che ricostruisce con certosina precisione il secolo appena passato, mettendo al centro dell’indagine storiografica la fotografia: «Il concetto di base è utilizzare la fotografia come strumento per raccontare la storia», dice Giovanni De Luna, uno dei curatori dell’opera. «Ciò significa che rispetto alle tradizionali storie fotografiche, il rapporto gerarchico tra testo e immagine viene capovolto. In genere al centro di ogni storia fotografica c’è il testo scritto, mentre le immagini sono usate in funzione didascalico-illustrativa. Qui invece le foto diventano lo strumento di racconto e di comunicazione principale». Qual è la ragione? «Secondo noi la fotografia è il mezzo visivo per eccellenza che prima di cinema e Tv è riuscito a imprigionare lo spirito del ’900 e a raccontarlo in maniera totale». Com’è strutturata l’opera? «I tre volumi mostrano tre diversi modi di rappresentare la società italiana: il primo documenta lo sguardo dall’alto, cioè come il potere politico ha rappresentato se stesso e l’Italia del ’900. Il terzo volume mostra lo sguardo dal basso, cioè gli album di famiglia con tutti i tipici riti di passaggio, i battesimi, i matrimoni, gli spazi conviviali. Il secondo volume sta a metà strada e offre il punto di vista di fotografi professionisti come Berengo Gardin, Sellerio, Lucas, Agosti, D’Amico, Patellani che hanno messo in scena quel grande spazio pubblico tra le istituzioni e la famiglia (il tempo libero, le forme di divertimento collettivo, il tifo, etc.) in cui gli italiani si sono ritrovati nel corso del secolo». Immagino che la diversità di questi tre punti di vista rappresenti una ricchezza per lo storico... « così. Diciamo che sono tre sceneggiature diverse, nessuna delle quali aspira all’autenticità e all’esattezza assoluta rispetto alle altre. Le fotografie dei professionisti sono mediate da una fortissima inclinazione artistica e quindi da scopi estetici. Quelle della famiglia sono mutuate dalla necessità di trasmettere (anche attraverso la messinscena) un’immagine edificante del clan. Quelle del potere puntano all’autorappresentazione in chiave edificante e monumentale. Tre sguardi parziali che danno un insieme piuttosto fedele». Che Italia viene fuori da queste testimonianze? «Da inizio secolo agli anni ’60 regna una specie di continuità statica. Dopo il boom economico, l’Italia diventa un Paese industriale dove, con la struttura economica, cambiano radicalmente tutti i comportamenti collettivi legati a tradizioni, culture, modi di vivere, classi sociali, sesso, gerarchie all’interno della famiglia. Succede tutto nella seconda metà del ’900, e le fotografie sono lì a testimoniare questo mutamento antropologico». Che vantaggi ha uno storico contemporaneo? «Dispone di una straripante quantità di materiale. Rischia l’indigestione di fonti, laddove lo storico del Medioevo muore di fame. Diventa quindi indispensabile dotarsi di un robusto apparato metodologico, di una nuova critica delle fonti. Per gli storici dell’Ottocento che lavoravano sui documenti scritti, per esempio, quello falso era una truffa e andava quindi eliminato. Invece a noi una fotografia falsa dice tantissimo: ricordo una foto di Lenin durante un comizio nel 1917, dove sulla scalinata che portava alla tribuna si vedevano Trotskij e Kamenev. Quando i due, in tempi diversi, caddero in disgrazia, vennero cancellati dalla foto uno dopo l’altro. Per noi possedere i tre esemplari con la sequenza della falsificazione è una testimonianza straordinaria dei meccanismi di un regime totalitario. Da un certo punto di vista, la foto falsa è più interessante di quella vera». Come vanno guardati una foto o un filmato? «L’avventura conoscitiva più interessante non è quella di vedere ciò che il fotografo o il regista hanno messo intenzionalmente nel loro prodotto, ma quello che nella foto o nel film lo spirito del tempo ha lasciato trapelare, anche all’insaputa dell’autore». Guardando le foto, che Paese eravamo e che Paese siamo diventati? «Da uomo della strada ho provato una fortissima nostalgia per l’Italia pre-miracolo economico che, per quanto povera e lacerata dai conflitti sociali, era un Paese con una grande voglia di ricominciare. Oggi il mercato domina ogni cosa. lui la nuova base dell’identità degli italiani. E anche le foto si sono appiattite su modelli televisivi». Altro curatore dell’opera è Luca Criscenti, che con Gabriele D’Autilia, oltre a scrivere alcuni saggi, ha effettuato la selezione del materiale fotografico. Da quante foto siete partiti e quante ne avete selezionate per la pubblicazione? «Difficile da dire, perché il materiale apparteneva ad archivi diversi. Si tratta comunque di migliaia: nell’opera definitiva ne pubblicheremo tra le 1.200 e le 1.500. Terminata una prima selezione, partita da un numero di foto molto ampio. A ogni singolo autore abbiamo fornito una percentuale di foto 4 volte maggiore. A volte era lui a richiedere una foto ben precisa, altre volte eravamo noi a decidere che in un certo punto di un saggio ci sarebbe stata bene una certa foto che ci era capitata sotto mano». A quali archivi avete attinto? «In gran parte a quello enorme dell’Istituto Luce, poi a numerosissimi altri, privati e non, da quello della rivista Italia, edita dalla presidenza del Consiglio sull’attività dei vari governi, a quello dell’Unità per la storia del PCI e del PDS in Italia, fino all’Archivio Fotografico dello Stato Maggiore dell’Esercito».