MACCHINA DEL TEMPO GENNAIO-FEBBRAIO 2006, 22 dicembre 2005
La lettrice Renza Rossetti ricorda il rientro a Livorno della sua famiglia, sfollata sull’Appennino Tosco-Emiliano durante la guerra
La lettrice Renza Rossetti ricorda il rientro a Livorno della sua famiglia, sfollata sull’Appennino Tosco-Emiliano durante la guerra. Mi apparve di colpo. Oddio, che bello. Il mare. Era il pomeriggio di una domenica di giugno, 1946. Avevo 8 anni. Venivamo, mamma, il mio fratellino e io, con un vecchio camion pieno di mobili dal nostro paese natìo sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove eravamo ”sfollati” ai primi bombardamenti su Livorno, città dove i miei, con me piccolissima, erano approdati prima della guerra. Il nostro autista (un parente), dopo un viaggio fortunoso degno di un film neorealista, si era fermato senza dir niente proprio per vedere il mare, ancor prima di incontrare il babbo, che ci aveva preceduti lavorando al Cantiere Navale e aveva trovato una stanza, una sola, per noi. L’emozione di mamma nel tornare a Livorno, dove era stata nei primi anni di matrimonio, e il ricongiungimento col babbo, ci fece dimenticare il disagio di vivere in una sola stanza. Ne avevamo passate ben di peggio! Era una casa sinistrata, in un piazzale di un vicolo chiuso, dove vivevano un’altra decina di famiglie, in altrettante case più o meno diroccata. Tutti lì, tanti bimbi, ragazzi, adulti, vecchi e, da buoni livornesi, con molti cani e gatti. Tanto che quel piazzale era chiamato ”la caciaia”(la cagnara, la confusione). Tutti però accomunati dalla faticosa voglia di ripresa, dopo tante tragedie e la città semidistrutta, e dove, con una sorta di contagiosa allegrezza nell’essere in tanti, quasi appiccicati, veniva malcelato l’evidente comune stato di miseria. Dopo qualche mese riuscimmo ad avere un’altra stanza, con grande contentezza, che babbo sistemò con materiali recuperati tra le macerie della Terrazza Ciano (oggi Mascagni). Le famiglie del piazzale si arrangiavano, in quei tempi confusi. C’era anche qualche stufetta elettrica e la luce in casa che, con astuti armeggi fuor di finestra, veniva adoperata senza che girasse il contatore. Salvo sistemare in fretta il tutto, al primo sentore di controllo, annunciato con un concitato passaparola. Oppure la donnetta a cui piacevano gli scherzi, giusto per mascherare le difficoltà familiari, che si dilungava nel piazzale con aria da signora, ostentando la sporta della spesa da cui uscivano penne di pollo che, se guardavi bene, erano infilate in due o tre patate. O l’altra che, per intascare qualche soldo, ospitava due-tre ”segnorine” al seguito degli americani. Quasi tutti erano ”rossi”, di quel comunismo del dopoguerra, declamante, invadente. All’epoca nel piazzale, e anche oltre, c’era una scarsa cultura politica, e lavoratore, o meglio ”operaio”, doveva per forza corrispondere a comunista. Era un fuoco nell’animo, un incontenibile ardore rosso che accomunava tanti, un impeto di reazione dopo tanti anni di colore nero. Ma aveva una componente positiva: l’assoluta buona fede. Le donne del piazzale raccomandavano a mamma di ”votare per il marito”, operaio. Lei rispondeva che avendo un cervello votava per chi voleva, suscitando una certa stizza. Una domenica d’estate, negli anni ’50, venne Palmiro Togliatti a Livorno. Il piazzale era silenzioso, tutti erano andati a vederlo. Proprio in quelle ore ci fu una scossa di terremoto. Ci impaurimmo. Più tardi nel piazzale si disse che i democristiani avevano pregato Gesù per mandare il terremoto e ”dare noia” a Togliatti e a tutti i compagni. Ma, nonostante la nostra provenienza dalla campagna e l’immutabile abitudine di andare a Messa la domenica, spesso accompagnati da frecciatine ironiche, in quel vicolo pieno di gente chiassosa, sopravvissuta agli strazi della guerra, allegra per miseria ma piena di speranze, nacquero amicizie fortissime, mai dimenticate. Ora, dov’era il piazzale, sorgono palazzi moderni, che svettano alti, con una visuale del mare, fino all’orizzonte».