MACCHINA DEL TEMPO GENNAIO-FEBBRAIO 2006, 22 dicembre 2005
Nel suo "Il leopardo delle nevi" lo scrittore e naturalista americano Peter Matthiessen narra il lungo viaggio a piedi fatto trent’anni fa, assieme allo zoologo George Schaller, nel cuore della regione himalayana del Dolpo, l’ultimo baluardo rimasto dell’autentica civiltà nepalese
Nel suo "Il leopardo delle nevi" lo scrittore e naturalista americano Peter Matthiessen narra il lungo viaggio a piedi fatto trent’anni fa, assieme allo zoologo George Schaller, nel cuore della regione himalayana del Dolpo, l’ultimo baluardo rimasto dell’autentica civiltà nepalese. I due viaggiatori erano sulle tracce del leopardo delle nevi, una creatura così poco avvistata da essere diventata quasi leggendaria: pagina dopo pagina, il racconto del viaggio tra le gole profonde e le vette innevate si trasforma in una riflessione sulla vita e la morte, sul rapporto con la natura e sul senso dell’esistenza. L’avvistamento di questo magnifico felino viene così metaforicamente accostato al ritrovamento del proprio Io, come completamento della ricerca dell’essenza della vita stessa. Oggi Matthiessen è diventato un monaco buddista e forse sarebbe felice di sapere che il ”suo” leopardo non è più così mitico: dal 2002 a oggi, infatti, ci sono stati diversi avvistamenti documentati di questo predatore all’interno del Sagarmatha National Park, un’area protetta nepalese che tutela le pendici del Monte Everest, al confine con il Tibet cinese. In quest’area il leopardo mancava dagli anni ’60 e la sua ricomparsa ha immediatamente suscitato l’entusiasmo degli avvistatori, i ricercatori del team del professor Sandro Lovari, docente all’università di Siena ed esperto zoologo, da anni impegnato in ricerche sulla fauna che popola il parco. In particolare, Lovari e i suoi collaboratori - che stavano conducendo ricerche sull’etologia del tahr himalayano, una specie di stambecco tipico di quelle zone nonché una preda potenziale per il leopardo delle nevi - si sono accorti di alcuni episodi di predazione sugli animali che stavano monitorando. E nell’autunno del 2004, la presenza di almeno due individui di leopardo delle nevi nel parco è stata testimoniata da alcune fotografie che i ricercatori hanno scattato durante un appostamento. La presenza di ricercatori italiani in Nepal è resa possibile dall’esistenza del Comitato Ev-K2-CNR del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Fondato nel 1989 dallo scomparso Ardito Desio insieme ad Agostino Da Polenza che ne è il coordinatore, il Comitato promuove studi e indagini a carattere climatologico, glaciologico e naturalistico sulle pendici dell’Himalaya, con lo scopo di conoscere e valorizzare gli ambienti d’alta montagna e tutelare i delicati equilibri che governano questi ecosistemi. Dalla sua fondazione a oggi, il Comitato ha patrocinato numerosi progetti ai quali hanno preso parte oltre 300 ricercatori italiani, tra i quali Lovari che svolge ricerche zoologiche in Nepal fin dalla fine degli anni ’80. Gli avvistamenti del leopardo hanno fornito lo spunto per un nuovo progetto del Comitato, lo ”Snow Leopard Project” per l’appunto, presentato ufficialmente ai primi di novembre, in occasione della visita in Nepal del ministro delle Politiche Agricole e Forestali Giovanni Alemanno. Il progetto ha una durata prevista di quattro anni e si svolge in un’area compresa fra i villaggi di Namche (3.400 metri d’altezza) e Phortse (3.850), e il lago di Gorkyo (4.750). Gli obiettivi, come ci spiega il professor Lovari, sono di: «effettuare censimenti annuali delle potenziali prede del leopardo delle nevi: il tahr dell’Himalaya, il mosco (un cervide primitivo) e due specie di grossi fagiani». Lo studio prevede, fra l’altro, la cattura di 3-4 esemplari a cui saranno applicati dei radio-rilevatori. Attraverso il tracciamento satellitare, i leopardi saranno seguiti nei loro movimenti e nelle loro abitudini. «Vogliamo poi stimare la popolazione di leopardo delle nevi all’interno del parco attraverso l’analisi delle impronte e riconoscere ciascun individuo in base agli escrementi, i quali contengono cellule epiteliali dell’intestino da cui è possibile estrarre il Dna. Dall’analisi delle feci, inoltre, potremo scoprire di che cosa si nutre il leopardo, identificando quali specie caccia: in questo modo potremo promuovere la conservazione di questo predatore attraverso una serie di iniziative rivolte soprattutto alle popolazioni sherpa locali». Come insegnano i problemi sorti in seguito alla ricomparsa e alla diffusione del lupo in Italia, il ritorno di un predatore in un’area da cui mancava da decenni è quasi sempre un evento che si scontra con le abitudini e le attività umane: per questo è importante favorire la pacifica convivenza tra uomo e leopardo, per esempio costruendo rifugi di pietra, in cui alloggiare il bestiame di notte per proteggerlo dagli attacchi. «L’uomo infatti», continua Lovari, «tende ad alterare gli habitat naturali: la caccia eccessiva delle prede naturali del leopardo, e parallelamente l’introduzione nell’ambiente di bestiame, fa sì che il predatore sia spinto a uccidere gli animali domestici, suscitando quindi l’ostilità e la persecuzione da parte degli allevatori». «Infine», si augura il professor Lovari, «se i fondi lo permetteranno e se si supererà la difficoltà di catturare alcuni individui senza rischi per la loro incolumità, l’intenzione è quella di effettuare un monitoraggio radiotelemetrico che permetta di studiare spostamenti e abitudini del leopardo, tramite l’utilizzo di radiocollari, che tuttavia sono molto costosi (circa 8.000 euro ciascuno)». Le attenzioni nei confronti di questa specie derivano dal fatto che si tratta di un animale estremamente raro. Basti pensare che, negli anni Sessanta, il numero si era ridotto a un migliaio di individui, mentre oggi si stima che possano esserci nel mondo tra i 2.500 e i 4.000 esemplari, di cui quattro o cinque all’interno del Parco. Si tratta di una cifra che, per quanto modesta, è rilevante a livello globale, soprattutto per il fatto che in quest’area si sta verificando una ricolonizzazione spontanea da parte di una specie considerata ad alto rischio di estinzione e classificata come «gravemente minacciata» dall’Iucn, l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Il leopardo delle nevi infatti, oltre alla distruzione dell’habitat da parte dell’uomo, si trova a dover fronteggiare la minaccia costituita dalla caccia per mano dei bracconieri, desiderosi di impossessarsi della sua pregiata pelliccia e delle ossa dei cuccioli, utilizzate, come le ossa di tigre, nella medicina tradizionale cinese. In aggiunta a queste difficoltà, il leopardo si muove in un ecosistema estremo e molto delicato, popolato da animali che, come lui, sono specializzati per sopravvivere in climi freddi: l’equilibrio di questo ambiente, già fragile, è oggi seriamente minacciato dal fenomeno del Global Warming, il surriscaldamento globale del pianeta causato dall’effetto serra prodotto dall’uomo. «Se questo fenomeno non cessasse in tempi abbastanza brevi», ammonisce Lovari, «potremmo assistere al graduale rimpiazzo del leopardo delle nevi con il leopardo di foresta, una specie completamente diversa e molto adattabile, oggi presente soprattutto in Asia meridionale e in Africa. E la presenza di un leopardo comune alle falde dell’Everest sarebbe una gravissima perdita per la biodiversità».