Vanity Fair 22/12/2005, pag.248 Pino Corrias, 22 dicembre 2005
Benvenuti a Villa Berlusconi. Vanity Fair 22/12/2005. Senza questo villone arcoriano che viene su dalle nebbie del fiume Lambro, smagliante come una reggia, carico di destino e di tendaggi, niente si capirebbe dell’ostinazione che ogni giorno, da 30 anni, divora lo sguardo di Silvio Berlusconi e consuma la sua solitudine
Benvenuti a Villa Berlusconi. Vanity Fair 22/12/2005. Senza questo villone arcoriano che viene su dalle nebbie del fiume Lambro, smagliante come una reggia, carico di destino e di tendaggi, niente si capirebbe dell’ostinazione che ogni giorno, da 30 anni, divora lo sguardo di Silvio Berlusconi e consuma la sua solitudine. Il suo perimetro catastale protegge i 200 mila metri quadrati del parco con mura, cancelli e allarmi satellitari. Il cancello centrale si apre come un doppio portale sulla ghiaia del parcheggio e sulla facciata. La facciata – una trentina di finestre su tre piani – contiene un pezzo della storia d’Italia, molta vita della Seconda Repubblica, e per intero quella del suo padrone, dalle radici ai frutti. Villa San Martino, località Arcore, Brianza, 25 chilometri dal centro di Milano, è una scatola di incanti modernissimi e di ombre antiche. Dietro ai suoi cristalli si sono incrociate tutte le coincidenze che hanno fabbricato il destino di Silvio Berlusconi, a partire da quella lontana Pasqua del 1974 quando, in compagnia della prima moglie Carla Dall’Oglio e dei due figli Marina e Piersilvio, varcò la soglia di questo regno, per sempre. Qui dentro Silvio ha conosciuto il lato oscuro della (propria) forza e ha imparato a esercitarlo. Qui ha incontrato per la prima volta (e per sempre) l’avvocato Cesare Previti, 37 anni, romano, atletico, volitivo, che vendeva la villa per conto della marchesina Anna Maria Casati Stampa. Qui dentro ha assunto (e per sempre) il suo primo segretario, Marcello Dell’Utri, 36 anni, palermitano, uomo di sguardi e di silenzi letterari, suo futuro braccio destro, affidandogli, per cominciare, la sistemazione della biblioteca dei marchesi Casati, 10 mila volumi, in gran parte preziosi e d’antica fattura. Qui dentro, all’inizio degli anni ’80, con Fedele Confalonieri, pianista del suo primo complesso, amico del cuore, ha studiato e perfezionato la televisione commerciale, notte dopo notte, "seduto al buio, davanti al televisore, fino al rullo azzurro della fine programmi", come raccontò Carlo Freccero, mago dei palinsesti. Riunione dopo riunione, scalando ascolti e fatturato, nel perpetuo accampamento della primissima pattuglia che con lui fabbricò Canale 5, modificando il costume degli italiani, le loro abitudini e i consumi, il linguaggio e i loro sogni. Qui dentro, negli ultimi sei mesi del 1993, ha studiato e perfezionato con Bettino Craxi in furioso declino e l’ex democristiano Ezio Cartotto, il modo di estrarre da quei sogni un elettorato. Da quell’elettorato un partito. Da quel partito un potere. Da quel potere la sua sopravvivenza. Da quella sopravvivenza il suo trionfo. Su quegli stessi divani, dopo la Televisione, è nata Forza Italia. Con lo stesso ingorgo di riunioni, la stessa adrenalina, le stesse sogliole alla mugnaia cucinate dal cuoco Michele. Forza Italia è lo scudo e la nuova trincea, come ha raccontato lo stesso Dell’Utri: "C’era l’aggressione delle procure e la situazione della Fininvest, con 5 mila miliardi di debiti. Franco Tatò, amministratore del gruppo, non vedeva via d’uscita. Diceva: dobbiamo portare i libri in tribunale. I fatti hanno dato ragione a noi". Arcore è il fondale di questa doppia ascesa: da palazzinaro milanese con Maserati Bora e la pistola nel borsello a uomo politico più ricco del mondo, titolare di un potere senza eguali in Occidente e di un patrimonio equivalente a un medio Stato africano, ma trapiantato nel cuore dell’Europa. Arcore è l’agenda della sua investitura, la scansione del suo medagliere onomastico sempre maiuscolo e in traiettoria verticale, prima il "Berlusca" poi il "Dottore", poi il "Cavaliere", oggi il "Presidente". A ogni trasformazione sempre cancellando le porzioni minacciose del suo passato che lui confuta con batterie di avvocati; o che lo rendono depresso, come le rughe spianate dal dottor Scapagnini e certe foto con le basette e i cravattoni Besozzi che la sua addetta all’immagine, signorina Miti Simonetto, rastrella dagli archivi dei giornali, e distrugge. Arcore è la matrice del suo instancabile presente, il territorio che lui perimetra come il gatto. Il modello delle sue altre dimore, a Roma, a Portofino e in Sardegna, o sulla collina di Macherio, il villone della seconda moglie, l’ex attrice Miriam Bartolini, detta Veronica, madre degli altri tre figli – Barbara, Eleonora, Luigi – cresciuti alla scuola teosofica di Rudolf Steiner, con la proibizione di guardare la tv. Tutte ville congelate nella identica sequenza di divani fioriti, tappeti per-siani, paesaggi a olio, vassoi d’argento carichi di bonbon, taccuini bianchi e pennarelli neri, allineati accanto a ogni telefono, in ogni stanza. Tutte immerse nel silenzio e nella penombra. Prigioniere di un ordine maniacale che Silvio si vanta di monitorare personalmente: "Quando posso, controllo con il dito la polvere sui mobili. Alzo i tappeti. Sono bravo anche come donnino di casa". Ma specialmente Arcore – con il parco, la cappella, il mausoleo funerario, le due piscine, i due campi da tennis, le scuderie, la palestra, il cinema, la tavernetta con l’enoteca – contiene il punto cartografico del suo segreto più remoto, come il naufragio di Lord Jim, eroe conradiano che da cento anni galleggia sull’oceano notturno del proprio rimorso. Il segreto è all’inizio della sua avventura e gli fa temere il buio ("mi raccomando, non spegnete la luce") quando dorme da solo. Da un po’ più di 30 anni. IL MASSACRO E LO SCANDALO Quando ci fu il massacro, 30 agosto 1970, e divenne orfana di padre, la marchesina Anna Maria Casati Stampa era la più ricca e la più giovane ereditiera d’Italia. Aveva 19 anni e per la legge di allora era minorenne. Una minorenne in fuga dal nero della cronaca, dal rosso del sangue, dall’enormità dello scandalo scandito da rivelazioni sui labirinti sessuali del padre e della matrigna, i loro commerci scabrosi e le loro foto proibitissime. Suo padre, il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, cacciatore e bon vivant, aveva spalancato la porta del suo superattico romano, sorprendendo la sua seconda moglie Anna Fallarino e il suo giovane amante, lo studente Massimo Minorenti, impigliati nella trappola di un amore non previsto e non consentito. Li aveva uccisi con il suo fucile preferito, da caccia grossa. Poi aveva ricaricato. Un so-lo colpo, per sé. Lasciandosi alle spalle il testamento, dove prendeva congedo dagli "anni felicissimi", ma anche una infinità di tracce che avrebbero rivelato al mondo la sua ultima vita condivisa con la moglie lungo perigliose avventure sessuali con uomini d’occasione e a pagamento e foto da scattare e prestazioni dettagliate, dove tutto era lecito, tranne il sentimento. La storia di quei tre cadaveri deflagrò sui rotocalchi, moltiplicata dall’immensità del patrimonio Casati Stampa, che da solo riempiva 231 fogli dattiloscritti dell’Ufficio Imposte di Milano, centinaia di ettari in tutta la Brianza, boschi, colline, aziende agricole, palazzi e ville. Anna Maria Casati Stampa era fragile e spaventata. Non vedeva l’ora di fuggire dagli incubi e dai clamori. Di allontanarsi il più possibile da quel massacro, da quel dolore, da quello scandalo. Mettere di mezzo un oceano. Addirittura cambiare cittadinanza. Così, prima di imbarcarsi, una volta e per sempre, destinazione Brasilia, affidò tutti gli incarichi al suo tutore, il senatore liberale Giorgio Bergamasco, amico di famiglia, e al proprio avvocato. L’avvocato si chiamava Cesare Previti. Cesare Previti, specializzato in questioni societarie e fiscali, già allora sbriga faccende nei corridoi del tribunale di Roma. Frequenta magistrati e palazzinari. svelto con le carte bollate, ma soprattutto con le persone. Organizza cene, week-end e partite di calcetto. Riconosce al volo con chi può intendersi. Così quando nell’inverno del 1973 comincia a incrociare la società milanese Edilnord che si interessa ai molti terreni lombardi della sua marchesina, lampeggia immediatamente un legame speciale con il titolare occulto della società che ha il suo stesso dono: riconosce le persone al primo sguardo. Silvio Berlusconi a quel tempo ha 37 anni. Ha venduto aspirapolvere Folletto e ha suonato il contrabbasso sulle crociere della flotta Lauro. Con il primo prestito della Banca Rasini, dove lavora il padre, ha costruito il suo primo palazzo. Adesso è proprietario della Edilnord, capitale sociale 6 milioni di lire, anche se ufficialmente non compare. Ha costruito le Torri di Brugherio e sta progettando, con capitali che affluiscono dalla Svizzera, il cantiere della sua prima città, Milano 2, territorio di Segrate, dove non venderà solo case, ma "un modo di abitare". Del suo personale modo di abitare non è soddisfatto. Vive in una palazzina a Milano, ma sta cercando qualcosa di speciale. Per esempio, una villa come quella che gli ha appena offerto l’avvocato Previti, di nobiltà settecentesca, sorta sulle rovine di un antico convento benedettino, con arredi d’antiquariato e quadri del XV e XVI secolo lombardo e i libri, i tappeti, il salone delle feste a doppia altezza, il parco immenso. La villa contiene una storia da tragedia, ma viene via per un prezzo da ridere, 750 milioni al primo accordo, 500 al secondo, ma con pagamenti dilazionati in sette anni, metà azioni, metà contanti. un acquisto insieme veloce e lentissimo con titolarità mutevole, prima Edilnord, poi Immobiliare San Martino, poi Immobiliare Idra, ma con il nuovo proprietario insediato da subito, con camerieri al seguito. Non è un buon accordo per la marchesina Casati Stampa. E alla prima occhiata non è un buon accordo neppure per il suo legale che avrebbe dovuto tutelarne gli interessi. Ma alla seconda occhiata si scopre che Previti ha fatto mezzo giro del tavolo: non è più l’avvocato della marchesina, la venditrice, ma quello di Silvio, il compratore. Il quale ha fatto un eccellente affare. Un affarone. Talmente buono che in capo a un paio di anni quella che nel rogito viene definita "casa di abitazione con circostanti fabbricati rurali e terreno", pagata 250 milioni in contanti, diventa la garanzia per un finanziamento di 7 miliardi e 600 milioni accordato da Cariplo e Monte dei Paschi. IL FORZIERE E LO STALLIERE Cesare Previti una volta raccontò la compravendita della villa, miniaturizzandola in una storia edificante: "Un giorno dissi a Berlusconi: mi deve fare un grande piacere, mi deve comprare Villa San Martino. E lui: ma, avvocato, cosa me ne faccio di una villa? Io sto in città, ho i miei affari in città. Gli dissi: venga a vederla. Andammo e lui mi fece una proposta tipicamente sua: me la lasci provare. Ci sono le vacanze di Pasqua, ci vado per qualche giorno. Non se n’è piu andato". in prova, ma intanto assume Marcello Dell’Utri come segretario e attraverso Dell’Utri, che diventerà il forziere del suo futuro, ingaggia da Palermo anche Vittorio Mangano, con famiglia al seguito, per affidargli i lavori e la protezione della villa. Vittorio Mangano, boss di mafia, passerà alla cronaca giudiziaria come "lo stalliere di Arcore". In realtà viene assunto come amministratore e fattore. Rimarrà un paio di anni – prima dell’arresto, del carcere per omicidio, della morte – in tempo però per attivare i sensori della Criminalpol, da cui i rapporti di polizia, le intercettazioni telefoniche, e quella infinita sequenza di sospetti che sgocciolerà negli anni, lungo l’intera storia imprenditoriale di Berlusconi, fino al processo di Dell’Utri in corso oggi a Palermo, per concorso esterno in associazione mafiosa, e alle illazioni sui patrimoni anonimi, che hanno finanziato l’ascesa prima di Fininvest, poi di Mediaset. Le carte dicono che affluivano dalla Svizzera e da altre decine di paradisi fiscali. Chi sospetta, insinua arrivassero da Palermo, con la garanzia dell’uomo d’onore Mangano. Verità processuali non ce ne sono. Dunque prevale la presunzione di innocenza. E in quegli anni prevale la luce pubblica che Silvio irradia da Arcore, sbaragliando ogni altra tv locale, ogni altro editore. La sua ascesa corre da un miliardo di fatturato pubblicitario nel 1980 ai mille miliardi del 1990, ai 5 mila dell’anno 2000. I SOLDATI DELLA NUOVA TV Apoteosi che si riempie di racconti arcoriani, tramandati dai soldati della nuova tv commerciale, Carlo Freccero, Davide Rampello, Sandro Parenzo, Urbano Cairo, protagonisti di quel comune apprendistato con bivacchi notturni. "Dal Dottore, ad Arcore si finiva di lavorare alle 3 di notte e si ricominciava alle 7 del mattino". "Le riunioni si facevano in sala da pranzo". "Il Dottore non mangiava mai per mangiare, ma per continuare le riunioni. E d’abitudine mangiava nel piatto degli altri". "Un giorno nel salotto dei divani, lui disse: dobbiamo portare via Mike Bongiorno dalla Rai. E noi: lei è matto Dottore, non ci verrà mai". "Di notte si faceva la pipì sui cipressetti del parco, come segno d’amore per il luogo e fratellanza". "La sala con la piscina e i televisori incastrati nella parete è il posto più americano di Arcore, il resto è Brianza ricca". "Il quadro più bello è un volto di donna dell’Appiani". "Un giorno, nel parco, arrivò Indro Montanelli. Vide la grande voliera e la fece aprire: vedrete che gli uccelli torneranno, disse. Invece volarono via tutti e il Dottore ci rimase malissimo". "Il vestibolo con l’armadio per i cappotti era la sagrestia. Poi c’era il salotto per gli estranei, cioè i giornalisti". "Marina era sempre triste, girava per casa e ascoltava solo Miguel Bosé. Aveva un gatto siamese che detestava il Dottore e lo graffiava". "No, Previti era uno che non si vedeva mai". "Craxi compariva qualche volta, si riempiva il piatto di formaggi, pane, prosciutti". "L’altro che mangiava sempre era Costanzo". "In cucina c’era questo frigorifero enorme pieno di gelati che affascinava tutti". UN MAUSOLEO PER I FEDELI Più grande e più fascinoso di tutti i frigoriferi, ma altrettanto gelato, crebbe un giorno nel parco, il Mausoleo. sempre là, nella radura, solitario come un monito. Ma scolpito nelle forme circolari degli abbracci: due piani di monumento funerario, 180 metri quadrati, con la scalinata che scende, il portale in marmo che scivola su binari d’acciaio, svelando, nel buio della pietra, il grande sepolcro centrale e vuoto, in attesa del suo sovrano. Intorno al sepolcro, due dozzine di loculi destinati al resto della famiglia arcoriana, compresi Dell’Utri, Confalonieri, Emilio Fede, Gianni Letta e Adriano Galliani. Venne su, il Mausoleo, per mano del ruvido Pietro Cascella, 77 anni, nato sotto gli spigoli della Maiella, quadrato di mascella, scultore comunista con castello, scalpelli e vigna, fabbricatore di sfere e monoliti, alberi in pietra, omaggi alla Luna, alla Donna e agli altri corpi celesti. Racconta: "Conobbi il lato buono di Silvio, quando costruiva città ed era generoso di carattere, prima di guastarsi con la politica, con Roma e con il colbacco di Putin. Mi disse: ”Voglio un monumento funerario, ma non macabro, semmai inneggiante alla vita”. Io sono un sarto della pietra, quello che mi chiedono faccio. Così per dargli luce ho scelto il travertino e il marmo bianco di Carrara. E ho scelto le grandi forme dei giocattoli metafisici di Savinio, piramidi, meteore, ma tutti collegati a formare la catena che simboleggia la famiglia, dunque gli affetti, nel divenire della vita". "Silvio me lo ricordo simpatico e non superstizioso, atletico, ben fatto, volitivo come tutti gli uomini piccoli. Innamorato della sua villa e della vita. Ma curiosamente con questa premonizione per la morte. Non so se sia esoterico. Ma certo ha delle inquietudini. Forse si chiede qualcosa sul destino del mondo e di sé, del suo agire, del suo perpetuo accumulare. Ecco, a ripensarci oggi, ho l’impressione che tutte le sue azioni siano fatte per dimenticare. Tranne il Mausoleo". IL SOGNO AZZURRO Lo inaugura passeggiandoci intorno nei giorni nerissimi del 1993, mentre le inchieste di Tangentopoli affondano, insieme con la Prima Repubblica, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani, il Psi e la Dc, che fino allora gli hanno garantito protezione e tutte le leggi necessarie. Intanto sta naufragando la Standa, che paga i fornitori a 180 giorni. Vanno male Telefunf in Germania e La Cinq in Francia. Mondadori ingoia risorse. Tutti i conti sono in rosso. "I nostri amici contano sempre meno", dice alla Convention dei manager. "I nostri nemici sempre di più: dobbiamo prepararci a combattere". Marcello Dell’Utri ingaggia un democristiano esperto di questioni organizzative, Ezio Cartotto, ex collaboratore di Giovanni Marcora, per studiare la "fattibilità di un partito" utilizzando gli uomini di Publitalia, le risorse della Fininvest, e naturalmente la potenza delle televisioni. Racconterà Cartotto: "Dell’Utri mi disse che dovevamo operare come sotto il servizio militare, preparare i piani, chiuderli nel cassetto e tirarli fuori in caso di necessità". Si tratta di usare, in ogni città, in ogni regione, gli uffici e gli uomini di Publitalia ("ma non i migliori, quelli servono in azienda, i numeri due e tre"), di contattare tutti quegli industriali e i manager clienti delle reti Fininvest, e attraverso di loro le associazioni locali, i professionisti e quelli che Dell’Utri chiama "i leader naturali" per trasformarli "nei nostri portabandiera". Si tratta di riempire il vuoto politico lasciato dai partiti in fuga, assemblando l’antipolitica della Lega col neocentrismo di Alleanza nazionale, il liberismo non solidale della microimpresa, con gli interessi dei monopoli, lo Stato confessionale e quello extralegale dell’economia sommersa. E poi tingere tutto con l’azzurro del sogno. Bettino Craxi, nel doppio salone della musica, lo spinge all’azione: "Hai solo bisogno di un grande contenitore per raccogliere voti al Nord e al Sud. Puoi farcela". Lo spingono Previti e specialmente Dell’Utri. Fino al giorno fatidico della nuova Pasqua, anno 1993, dopo una notte di litigi arcoriani contro le colombe Letta e Confalonieri ("Niente partito o ci faranno a pezzi"), quando Dell’Utri annuncia di aver convocato per l’indomani al Jolly Hotel di Milano 2 tutto lo stato maggiore di Publitalia: "Noi saremo lì ad aspettarti, dipende tutto da te". Racconterà Davide Rampello: "Quella notte stava andando tutto a monte. Silvio aveva deciso di smobilitare la macchina e di rinunciare al partito". Poi venne l’alba. E alle 6 del mattino, 3 ore prima della riunione già fissata, Dell’Utri lo chiamò di nuovo al telefono: nessuno sa che cosa si dissero davvero. Ma tutti sanno che a fine della telefonata si accesero le luci della villa. Nino, l’autista, tirò fuori dal garage il Mercedes 600 metallizzato. E dalla ghiaia di Villa San Martino, poco dopo le 8, si rimise in moto la storia di Arcore e dell’Italia. Pino Corrias