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 2005  dicembre 22 Giovedì calendario

Gli antichi Greci credevano che fosse un frammento di stella caduto sulla Terra, altri dicevano che era la lacrima di un dio

Gli antichi Greci credevano che fosse un frammento di stella caduto sulla Terra, altri dicevano che era la lacrima di un dio. Oggi, invece, è il sogno confessato di quasi tutte le donne (alzi la mano il lettore che non ha mai ricevuto tale ”mirata” richiesta di regalo). il diamante, una pietra durissima (non a caso il suo nome deriva dal termine greco adamas, inconquistabile, inalterabile) e talmente preziosa, da alimentare ancora oggi un mercato a parte, impermeabile alla crisi economica che ha colpito i paesi più industrializzati. Già, perché, una volta estratto, il diamante viene esportato e poi lavorato soprattutto in Europa, mentre i giacimenti più ricchi sono quasi tutti nel terzo mondo, soprattutto in Africa. I paesi dell’area, però, sia in pace che in guerra, non beneficiano più di tanto del tesoro nascosto nelle loro viscere. « l’economia», ci risponderebbe di certo qualunque rappresentante delle potenti multinazionali estrattrici, se gli chiedessimo conto dello strano fenomeno. I primi diamanti, comunque, furono scoperti circa 4.000 anni fa, mentre la loro formazione geologica risale addirittura a circa 2,5 miliardi di anni fa. Il processo chimico-fisico che porta alla nascita di un diamante (che, in pratica, altro non è che il prodotto della cristallizzazione del carbonio) può infatti realizzarsi solo in determinate condizioni: la temperatura dell’ambiente circostante compresa tra i 900 e i 1.200 gradi, la pressione che sfiora i 50 kbar, e il tutto a una profondità di 150-200 km. A pressioni e a temperature diverse si formerebbe solo della semplice grafite. Ecco spiegata, dunque, la rarità della gemma più ricercata della Terra. Come già detto, uno dei posti al mondo più famosi per l’estrazione dei diamanti si trova in Africa. Parliamo dei ”camini kimberlitici” di Kimberley nel Transvaal, in Sudafrica (le kimberliti sono una specie geologica che si forma a circa 150 km di profondità), dove tra l’altro ha ancora sede la famosa compagnia di estrazione De Beers Consolidated Mines Ltd, oggi in mano alla famiglia Oppenheimer. Scoperto relativamente di recente (nel 1867), quel giacimento fornisce, in assoluto, la maggior quantità di diamanti al mondo (nel solo 1917 vennero estratti ben 2.902.416 carati: considerando che ogni carato equivale a 1/5 di grammo, fatevi due conti). Ma per trovare la gemma non si deve scavare necessariamente in profondità. C’è anche un altro modo: basta setacciare le cosiddette alluvioni diamantifere, una sorta di colate di terra profonda in parte cementate e sepolte sotto strati più recenti. Nei decenni passati, giacimenti alluvionali di questo tipo sono stati individuati in India o a Diamantina (nello Stato brasiliano di Minas Gerais). Ma se un diamante grezzo può essere confuso con un sasso qualsiasi, perché pieno di impurità e di concrezioni che lo avvolgono da ogni parte, come si fa a capire quando un grumo di materiale indistinto può contenere la preziosa gemma? E, più in generale, come si fa a capire quando un territorio nasconde un giacimento? I mineralisti hanno calcolato che per trovare un quinto di grammo di diamante (1 carato), è necessario rimuovere ben 31 tonnellate di roccia. Basterebbe per giustificare il prezzo di questa pietra e confermarne la rarità. La mancanza di dispositivi tecnologici in grado di localizzare con certezza un giacimento ha spesso comportato inutili spiegamenti di forze. Così gli esperti hanno fatto affidamento sulle kimberliti, i filoni conici di lava solidificata che normalmente includono i diamanti e che, notoriamente comuni in Africa, India, Canada e Russia, sono recentemente ”comparse” anche altrove proprio grazie al perfezionamento delle tecniche d’esplorazione profonda messe a punto dai geofisici. Per trovare le kimberliti (invisibili alle macchine), però, si cercano quei minerali che, in natura, sono ad esse associati come l’olivina, il granato piropo e la cromite, tutti molto ricchi di ferro e individuabili con speciali strumenti. E se neanche l’utilizzo di ”elementi civetta” funziona, rimane un’ultima strada: quella degli esami di laboratorio. Nelle aree sospette vengono prelevati campioni da analizzare per trovare anche solo piccole tracce dei minerali rivelatori di kimberlite. Le speranze aumentano esponenzialmente se il terreno è il risultato dell’accumulo dei detriti derivanti dalle rocce vulcaniche sbriciolate nel tempo dagli agenti atmosferici, dai fiumi o dai ghiacciai in lento spostamento. Ma anche questo sistema, purtroppo, non è infallibile. Ma parliamo di chi riesce a tracciare la ”carta d’identità” della gemma, scoprendone l’esatta provenienza geografica e ricostruendone la storia. Si tratta dello studioso belga Luc Moens del centro di ricerca Diamond High Council di Anversa, che a forza di provare e riprovare, è riuscito nel suo pazzo intento e ha visto il frutto del suo lavoro pubblicato sul Journal of Analytical Atomic Spectrometry. In pratica, lo studioso ha isolato l’’impronta chimica” del diamante che consiste in tracce di elementi imprigionati all’interno di inclusioni minerali (anche nel diamante più puro, infatti, ci sono infinitesimali residui di zinco, nichel, mercurio, alluminio, titanio, argento o piombo). Dato che peculiari combinazioni di questi elementi sono proprie di una e una sola miniera, Moens è riuscito a scoprire con certezza la provenienza del diamante. Come ha fatto? abbastanza semplice. Grazie a un sottile raggio laser, lo scienziato ha aperto sulla pietra grezza un piccolo foro largo appena 120 millesimi di millimetro e profondo 40, riuscendo a vaporizzare e poi ad analizzare un briciolo di materia: appena 15 millesimi di milligrammo di diamante. Il laser agiva in combinazione con uno spettrometro di massa tarato per rilevare la presenza di 65 diversi elementi anche in concentrazione di pochi atomi per milione (una tecnica nota come Laser Ablation Inductively Coupled Plasma Mass Spectroscopy). Va anche detto che fino a oggi Moens ha potuto identificare le miniere di origine (in Sudafrica, Botswana, Russia e Canada) di una sola trentina di diamanti. In realtà vi abbiamo raccontato solo l’inizio di un viaggio ancora molto lungo, quello verso la gioielleria. Ma vogliamo almeno soffermarci sul taglio, considerato nel settore una vera e propria arte appannaggio di pochi eletti. Solo grazie alla perizia del tagliatore, infatti, una pietra grezza può svelare la sua bellezza e la sua luminosità. Sì, perché avere un diamante veramente luminoso è difficile e ci sono delle regole da seguire. La pietra deve essere sagomata in maniera tale che la luce penetri dalla parte superiore, venga riflessa all’interno, ed esca di nuovo dall’alto. Solo così verrà riflessa la maggior quantità di luce possibile. Questo i belgi, ancora loro, lo fanno meglio degli altri, visto che proprio ad Anversa, 500 anni fa, è nata la lavorazione del diamante. La cittadina oggi ospita persino un Centro dei Diamanti che si estende su 2,5 kmq, comprende 1.500 aziende e 4 Borse del diamante e firma ogni pietra lavorata con l’inconfondibile marchio ”Cut in Antwerp” (tagliato ad Anversa). Quale che sia la sua forma finale, comunque, il diamante, per essere di valore, deve rispettare le cosiddette ”4C”: carati (più pesa, più vale); purezza (clarity), cioè avere meno tracce di carbonio possibile; colore (meglio se è del tutto incolore) e taglio (cut). E se potete permettervene uno, compratelo subito. Da uno studio economico pubblicato di recente pare, infatti, che il diamante acquisti valore nella misura del 7% annuo. Insomma è un vero e proprio bene rifugio, e magari un giorno sostituirà la casa.