L’Espresso 22/12/2005, pag.158 Daniela Minerva, 22 dicembre 2005
Morire di paura. L’Espresso 22/12/2005. C’era una volta la morte. Celebrata, raccontata, vissuta; oggetto di scherzi e pastiche
Morire di paura. L’Espresso 22/12/2005. C’era una volta la morte. Celebrata, raccontata, vissuta; oggetto di scherzi e pastiche. Scheletri danzanti e spiritelli dispettosi; fantasmi con sembianze, abbigliamenti e tic umani; cupi dialoghi e dotte dispute con la Signora riempiono le pagine della letteratura mondiale di tutti i tempi. No, non proprio tutti: perché a partire dalla seconda metà del Settecento, la Signora esce dalla rappresentazione della vita, viene messa da parte con i cimiteri spostati fuori dalle città, le agonie nascoste dentro gli ospedali, gli spiriti bollati con marchio infamante della superstizione. La morte è oggi solamente la Grande Paura. Per gli atei e i laici attaccati all’idea che col corpo finisca la vita, come per chi crede che ci sia un dopo: cristiani speranzosi della vita eterna, musulmani agognanti ai giardini di Allah, buddisti intrappolati nel ciclo delle vite che si rinnovano. Anche il più religioso degli uomini moderni, della morte ha soltanto paura. Come se, comunque, la modernità abbia cancellato l’immortalità dell’anima. Perché? E cosa ci perdiamo? Lo abbiamo chiesto a monsignor Gianfranco Ravasi, biblista e prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, che proprio della morte come ”soglia della vita” parlerà al convegno ”Senso della morte e amore per la vita”. Monsignore, la morte oggi è un termine che pare rarefatto, quasi filosofico e allontanato all’infinito dalla sua corporeità. Cosa ne pensa? «La morte, soprattutto nella civiltà occidentale, è la grande apolide: è la realtà più quotidiana, ed è la realtà più rimossa. Questo è proprio il paradosso, tutto occidentale: cancellare la morte». Le pare solo occidentale? «Ho fatto l’archeologo per alcuni anni in Medio Oriente. Una volta in Iraq, vicino a Mosul, avevo fatto amicizia con uno degli operai che ci aiutavano nello scavo. Lui mi invitò a casa sua per assistere all’agonia del padre. Io ci andai e ne rimasi impressionato: in una stanza c’era il vecchio morente, c’erano i bambini che giocavano sul suo letto, c’erano le galline che razzolavano. Morire era parte della vita famigliare. Questo elemento noi l’abbiamo perso, e la morte, perciò, si carica di infinite paure e di infiniti eccessi. Noi abbiamo allontanato la morte, l’ab biamo industrializzata». Industrializzata? «Pensiamo alla quantità di morti dei telefilm. Al grottesco di certe trasmissioni televisive che ci ricamano su. All’elenco che si fa dei morti nei telegiornali, degli incidenti. Questo è sicuramente uno dei grandi limiti della cultura contemporanea: non essere capace di considerare il morire come parte del vivere». Lei definisce questo atteggiamento ”paradosso occidentale”. E l’Occidente è cristiano. un paradosso tutto interno alla cultura cristiana? «No. Direi piuttosto alla cultura post-cristiana. la società moderna che ha perso il senso della coralità della morte. Della sua celebrazione pubblica. Oggi vedo la morte frigida delle città, dove diventa solo una questione di orari, di posti, di agenzie funebri, di sistemazione nel camposanto. E questa secolarizzazione ha fatto morire qualsiasi colore simbolico». Sta dicendo che nel nostro mondo la morte è un fatto di sanità pubblica? «Esatto. Nella tradizione cristiana non era così». Che cosa ci perdiamo? «Prima di tutto la capacità di considerare la morte come una parte dell’esperienza umana del limite, del dolore profondo, della rottura delle relazioni. Riducendo la morte a ordinaria amministrazione, a gestione di sanità pubblica, noi perdiamo la capacità di interrogarci qualche volta di più su che cosa siamo». Di fronte a quello che lei ha chiamato ”il terrore della morte”, il cristiano dovrebbe avere il conforto della Resurrezione. «Morire ha due volti in tutte le civiltà. silenzio, affacciarsi al baratro del nulla. Oppure è affacciarsi sull’oltre, perché quella frontiera è una soglia. L’umanità da sempre oscilla tra queste due esperienze fondamentali. L’idea che non ci sia da sperare niente dopo la morte c’è anche nella Bibbia. Nell’Antico Testamento la concezione di un oltrevita fiorisce lentamente, il che vuol dire che si tratta di un valore da scoprire con la ricerca. Pensiamo all’epopea di Gilgamesh, il grande monumento della cultura mesopotamica che parte alla ricerca dell’immortalità in un viaggio straordinario, pieno di colpi di scena. Da cui torna con un ramoscello, l’albero della vita. Prima di tornare tra gli uomini, però, Gilgamesh fa un bagno e lascia il ramoscello sulla riva, e un serpente glielo porta via. Così lui resta morituro come lo era pri ma del viaggio. Si mette allora a gridare, a piangere, e sente una voce dall’alto che gli dice: ”Gilgamesh ricordati, gli Dei quando hanno creato l’uomo lo hanno creato mortale e hanno tenuto l’immortalità per sé”. Anche gli antichi vedevano il silenzio oltre la morte. Come i moderni, per dirla con le parole del grande poeta Giorgio Caproni: ”Se ne dicono tante, che la morte è un trapasso, certo, dal sangue al sasso”». E il conforto della resurrezione? «Quello è dei cristiani. Per i quali morire, è come essere ripresi tra le mani del Creatore. Una resurrezione che vuol dire la ricomposizione dell’essere. E per questo la morte è un dono: come Dio mi ha donato la vita, così Dio ci riprende e ci rimette nell’interno di un orizzonte che era quello dal quale siamo venuti». Molto consolatorio. «Non per questo negativo. Ma aggiungo: da secoli l’umanità tenta di giustificare la consolazione. Se Platone trova quattro argomenti per sostenere l’immortalità dell’anima, vuol dire che non gli interessa tanto consolarsi, ma piuttosto egli esprime una tensione antropologica, tenta di spiegare che cos’è l’uomo. Chiunque ha pensato a cosa c’è dopo, lo ha fatto all’interno di una ricerca sul senso dell’essere». un’argomentazione tutta interna a una coscienza religiosa. Cosa suggerisce a colui che non crede, al laico? «Prima di tutto gli direi di non escludere la possibilità di interrogarsi anche su ciò di cui non sa. Di non accontentarsi di dire che l’uomo è un gruppo di cellule che si dissolvono, e poi tutto è finito. Quest’uomo che è capace di creare, di amare, di fare poesia, di esprimere l’infinito proprio, è solo un fe nomeno biologico?». Così però lei suggerisce al laico di abbracciare la prospettiva religiosa? «Suggerisco di interrogarsi. Ma non solo: la seconda considerazione mi riporta a uno dei più bei versi del ’900, di Cesare Pavese: ”Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Pensiamo al morire post-cristiano, nel gelido ambito di un ospedale, di un reparto di rianimazione dove non ti lasciano neppure arrivare i parenti, o nell’interno di una solitudine assoluta. E confrontiamolo con il morire avendo accanto la donna o l’uomo che hai amato, che ti stringe la mano. A coloro che non credono direi allora di non perdere l’umanità del morire, di fare in modo che sia un’esperienza che racchiuda ciò che sei stato, con gli affetti che hai costruito. E in pace con la tua coscienza, con la tua vita». La medicina contemporanea è spesso medicina della sopravvivenza, del procrastinare il tempo terreno. Non crede che talvolta si vada oltre il confine della natura? «Bisogna sicuramente distinguere in maniera netta: l’eutanasia, un atto imperiale che si pone a livello stesso del Creatore o della Natura per chi non è credente, dall’accanimento terapeutico. L’accanimento terapeutico effettivamente è una sorta di meccanizzazione della morte: la sua industrializzazione. Mentre bisogna essere capaci di capire che esiste un momento in cui ormai l’esistenza si sta spegnendo. Il medico che è accanto al paziente dovrebbe avere la funzione del sapiente antico, dovrebbe essere talmente in sintonia col morente da capire che l’accanimento in quel momento deve cessare. Diverso è il discorso, invece, su un intervento positivo di annientamento». Umberto Veronesi dice che «morire è un diritto», lei che cosa ne pensa? «Noi non siamo gli artefici del nascere. E in questo senso la vita non è disponibile alla decisione dell’uomo». Neanche nel tormento della malattia, nella perdita di sé che, alla fine, le è propria? «Il problema del morire tormentato. Oggi se c’è un problema che cosa si fa? Lo si elimina. Ma non è questo che fa lo scienziato. La scienza ci ha dato tanti risultati proprio perché ha sempre sfidato la semplificazione delle cose, scacciato la soluzione più ovvia. La tecnica, invece, vede il problema immediato - sofferenza, dolore - e allora cosa propone? Di cancellare il problema». La semplificazione è della tecnica, qual è allora la risposta della scienza? «Complessità. Le soluzioni, forse, nel mistero dell’esistere non ci sono». Daniela Minerva