Sergio Romano Corriere della Sera, 02/07/2004, 2 luglio 2004
Romano seppellisce il Tpi e si rammarica: bisognava ammazzarlo, Corriere della Sera, 02/07/2004 Quello di cui abbiamo visto le immagini nelle scorse ore non è il processo a Saddam
Romano seppellisce il Tpi e si rammarica: bisognava ammazzarlo, Corriere della Sera, 02/07/2004 Quello di cui abbiamo visto le immagini nelle scorse ore non è il processo a Saddam. soltanto un prologo, nello stile delle udienze preliminari previste dal diritto anglosassone di fronte al «grand jury». Ed è stato voluto dal nuovo governo iracheno, pochi giorni dopo il passaggio dei poteri, per dimostrare al mondo la pienezza della sua sovranità. Il vero processo comincerà fra qualche mese quando gli inquirenti americani e gli esperti giuridici prevalentemente stranieri avranno raccolto la documentazione necessaria per l’inizio del dibattimento. Molti si chiederanno nel frattempo se questo sia davvero il modo migliore per giudicare Saddam. Esiste ormai all’Aja, grazie al trattato di Roma, un Tribunale penale internazionale. Non sarebbe stata quella la sede più adatta per il processo a un uomo accusato, tra l’altro, di crimini di guerra contro il Kuwait e l’Iran? Forse sì. Ma Bush, dopo il suo ingresso alla Casa Bianca, ha cancellato il provvedimento con cui il suo predecessore aveva chiesto al Congresso la ratifica del trattato. Se avesse consegnato Saddam a questa nuova corte internazionale, il presidente ne avrebbe implicitamente riconosciuto la competenza e sarebbe entrato in contraddizione con se stesso. Esisteva, in linea di principio, la formula dei processi di Norimberga e di Tokio: una corte costituita da giudici americani, britannici e polacchi (le tre principali potenze combattenti) di fronte alla quale Saddam avrebbe dovuto rendere conto delle repressioni poliziesche e dei crimini di guerra. Ma i processi di Norimberga e di Tokio non hanno smesso di provocare discussioni e contestazioni. Furono accettati, anche se con molte riserve, perché parvero moralmente giustificati in quel momento dalla gravità dei crimini commessi. Ma nel clima «revisionista» di questi ultimi anni la «giustizia dei vincitori», soprattutto dopo la creazione del Tribunale penale internazionale, avrebbe suscitato molte critiche. Scartate ambedue le ipotesi, l’America ha deciso di accondiscendere alle richieste irachene e di lasciare che l’ex dittatore venisse giudicato dai suoi connazionali. probabilmente la migliore delle scelte possibili. Sappiamo ormai quanto sia difficile affidare alla giustizia internazionale un uomo di Stato che ha governato, in alcuni momenti, con il consenso dei propri connazionali. Gli inglesi fecero bene, qualche anno fa, a sbarazzarsi di Pinochet e gli americani sbagliarono, probabilmente, quando insistettero perché il governo di Belgrado consegnasse Milosevic al Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Il suo processo ha avuto due effetti negativi: ha permesso all’imputato di trasformare l’aula della corte in una tribuna politica e ha creato in Serbia un pericoloso vittimismo nazionalista. Fare giustizia, dopo il crollo di una dittatura, è un problema delicato che non può essere affrontato con astratti criteri morali, senza tenere conto di ciò che potrebbe accadere nel Paese coinvolto. In molti casi è meglio lasciare che la faccenda venga regolata in famiglia secondo le consuetudini locali: un processo breve, un giudizio sommario e una conclusione, se possibile, rapida e brusca. L’assassinio di Ceausescu e di sua moglie ha permesso alla Romania di voltare pagina. La fucilazione di Mussolini ebbe il merito di evitare un lungo processo che avrebbe prolungato il clima della guerra civile. L’errore in quel caso non fu la fucilazione: fu quella che Leo Valiani definì un giorno la «macelleria messicana» di piazzale Loreto. Resta da vedere tuttavia se il processo a Saddam risponda a queste caratteristiche. Non sarà rapido, anzitutto, e non sarà nemmeno, a quanto pare, interamente iracheno. Dopo l’udienza preliminare occorrerà raccogliere le prove e preparare l’elenco dei testimoni. Non basterà scavare fosse comuni e interrogare i sopravvissuti. Occorrerà dimostrare che ogni crimine è stato voluto e ordinato da Saddam. Non basterà evocare il massacro dei curdi. Occorrerà spiegare perché tanti governi, dopo quegli avvenimenti, abbiano continuato ad avere intensi rapporti diplomatici ed economici con il dittatore. Non basterà documentare la repressione della rivolta sciita del 1991. Occorrerà spiegare perché il vecchio Bush, padre dell’attuale presidente, abbia permesso a Saddam di usare gli elicotteri nel Sud contro gli sciiti e gli abbia impedito di fare altrettanto nel Nord contro i curdi. Non è tutto. Per la costruzione del castello delle prove e delle argomentazioni giuridiche i magistrati iracheni non hanno né i mezzi né le competenze. La polizia giudiziaria sarà americana, gli inquirenti saranno americani, gli esperti saranno prevalentemente internazionali e il prigioniero continuerà a essere, verosimilmente per tutta la durata del processo, nelle mani delle forze d’occupazione. Vi è il rischio quindi che questo processo iracheno venga considerato da molti un processo americano, vale a dire, sia pure sotto altre forme, l’ennesima «giustizia del vincitore». La cosa sarebbe tollerabile in un Paese conquistato e pacificato. Diverrebbe intollerabile se gli americani non riuscissero a sconfiggere il cartello delle resistenze e se il nuovo governo di Baghdad non riuscisse a dare prova di vera indipendenza. Sergio Romano