Paolo Valentino Corriere della Sera, 01/07/2004, 1 luglio 2004
Mille uomini a cavallo per i gerarchi e una bomba per Hitler, Corriere della Sera, 01/07/2004 Quando l’ora volge al desio e sopraggiunge il sonno dei giusti, il mondo di Philipp Freiherr von Boeselager si popola di fantasmi e di ricordi
Mille uomini a cavallo per i gerarchi e una bomba per Hitler, Corriere della Sera, 01/07/2004 Quando l’ora volge al desio e sopraggiunge il sonno dei giusti, il mondo di Philipp Freiherr von Boeselager si popola di fantasmi e di ricordi. Tornano allora i colloqui bisbigliati della cospirazione, le bombe nascoste, il terrore di essere scoperti. Rivede i volti degli ufficiali amici che trovarono la morte, impiccati o costretti al suicidio. E quello di suo fratello Georg, che con lui sfuggì alla vendetta nazista, ma perì in battaglia. Ripensa alla brutale volgarità di Bormann e alla destrezza affabulatoria di Hitler, i suoi silenzi minacciosi, i suoi modi contadini. Rivive quella folle cavalcata, al comando di mille uomini, verso Berlino. E l’altra, col cuore in gola, in senso opposto, dopo che la bomba di Stauffenberg aveva mancato il bersaglio. «Eravamo un centinaio e sono il solo ancora vivo. La sensazione è che loro mi guardino e su di me ricada una responsabilità speciale», dice l’aristocratico renano. Ottantasei anni, la figura ancora eretta, la naturale eleganza in tweed e velluto del gentiluomo di campagna, i capelli ben pettinati all’indietro, Philipp von Boeselager è l’unico ancora in vita, dei protagonisti della congiura del 20 luglio 1944, quando un gruppo di ufficiali della Wehrmacht tentò di uccidere Adolf Hitler. L’attentato fallì. La bomba piazzata dal barone Claus von Stauffenberg nella sala delle conferenze della «tana del lupo», il rifugio del Führer nella Prussia orientale, procurò al dittatore nazista soltanto qualche graffio. Ma l’onore tedesco fu in parte salvo. Sessant’anni dopo, Boeselager ripercorre con straordinaria precisione e un velo di understatement la vicenda che ha segnato il suo destino. «Dovevamo farlo, anche se eravamo tutti convinti che, una volta ucciso Hitler, noi saremmo stati comunque impiccati, perché la gente avrebbe detto che, se lui fosse stato in vita, avremmo vinto la guerra». Ai primi di giugno, Gerhard Schroeder ha voluto Philipp von Boeselager con sé sulle spiagge della Normandia, la prima volta di un cancelliere federale alle celebrazioni del D- Day. stato un omaggio a «quei tedeschi che morirono per una Germania migliore». Solo la fortuna ha voluto che Boeselager non fosse fra di loro e ne diventasse il testimone. Entrato giovanissimo nella Wehrmacht, sull’esempio del fratello Georg, Boeselager aveva subito, come gli altri, l’infatuazione per Hitler, l’uomo che aveva sedato la guerra civile, cancellato l’onta di Versailles e riarmato la Germania. «Nessuno di noi seppe o volle notare l’aspetto criminale, nascosto dietro il regime. ”Se Hitler sapesse”, era la frase rituale di fronte a ingiustizie e delitti». E anche se qualcosa, tra il Führer e lo Stato maggiore, aveva cominciato ad incrinarsi già con l’inizio della guerra, che alcuni generali avevano provato a rinviare, non fu prima della fine del 1941 che la fronda interna cominciò a prendere corpo e organizzarsi in resistenza attiva. «Nel 1942, ancora prima di Stalingrado e con pochissime eccezioni, la convinzione dominante nel gruppo dirigente della Wehrmacht era che avremmo perso il conflitto. A noi ufficiali, le decisioni di Hitler apparivano spesso incomprensibili o stupide, migliaia di soldati morivano inutilmente. Poi, poco a poco, abbiamo appreso la verità delle esecuzioni di massa di russi e polacchi durante l’avanzata a Est, l’esistenza dei campi di concentramento per lo sterminio degli ebrei. Era chiaro che gli ordini venivano dall’alto. Mi resi conto di vivere e di combattere per uno Stato criminale. Per questo individuammo nell’assassinio di Hitler la soluzione del problema. Avremmo posto fine alla guerra, liberato i detenuti rinchiusi nei lager. Pensavamo così di poter ancora salvare la Germania». Philipp von Boeselager venne ferito in modo grave alle porte di Mosca e da lì assegnato allo staff del feldmaresciallo von Kluge, che comandava il gruppo di armate del Centro, sul fronte orientale. Come aiutante di quest’ultimo, fu presente anche a diversi incontri con Hitler: «Era incredibile il modo in cui conduceva le discussioni. Quando non voleva decidere o voleva fare diversamente da come sosteneva Kluge, Hitler cambiava discorso. Poteva dire per esempio: ”A proposito, generale, per il suo compleanno mi sono permesso di inviare alla sua signora un mazzo dei suoi fiori preferiti”. Poi aggiungeva che, per le questioni ancora aperte, avrebbe richiamato e ci congedava. Invece non richiamava mai e naturalmente si doveva fare faceva sempre come diceva lui». «Mi chiede com’era Hitler? L’ho incontrato cinque o sei volte. Nelle discussioni faceva sfoggio di una grande padronanza dei dettagli tecnici, sapeva tutto sui carri armati, i cannoni, i sommergibili. E questo impressionava i suoi interlocutori. Non aveva alcun riguardo per le perdite umane, i soldati per lui erano numeri. A tavola, i suoi modi erano piuttosto ruspanti. Mangiava voracemente, con grande velocità, avvicinandosi troppo al piatto e teneva i gomiti alti». Poco tempo dopo il suo arrivo al comando del Centro, seguendo le orme del fratello, Boeselager entrò nel gruppo clandestino, guidato dal colonnello Henning von Tresckow, ufficiale di grande ascendente e vera anima della resistenza. Quello del 20 luglio non fu il primo progetto di attentato contro Hitler, messo a punto dai fedeli di Tresckow. Diversi altri erano già andati in fumo nella fase preparatoria. Come quello previsto per il 13 marzo 1943, quando il capo del nazismo avrebbe dovuto essere ucciso a colpi di pistola, insieme a Heinrich Himmler, il famigerato capo delle SS. «Rinunciammo all’ultimo momento, appena si seppe che Himmler non ci sarebbe stato. Con lui in vita, temevamo una guerra civile contro le SS, che contavano centinaia di migliaia di uomini». Nel complotto decisivo, Philipp von Boeselager ebbe un ruolo di primo piano. «Vogliono gli esplosivi» , gli disse un giorno al telefono il fratello. «Capii subito a che cosa servivano. Scelsi delle granate inglesi e le nascosi nella mia valigetta di cuoio. Pesava quindici chili». Per consegnarle a Berlino al generale Helmut von Stieff, dell’Alto comando, Boeselager prese un aereo. All’arrivo, ancora zoppicante per la ferita di Mosca, sulla pista dell’aeroporto si vide venire incontro dei soldati che volevano aiutarlo: «Rifiutai, perché temevo che il peso li avrebbe insospettiti. Stieff era in una riunione e per aspettare andai in un cinema. Davano una commedia, ma non ci feci caso, per tutto il tempo guardai la valigetta, temendo che qualcuno potesse camminarci sopra». Una delle granate finì nella borsa di Claus von Stauffenberg: «Un ufficiale valoroso e coraggioso, ma purtroppo era l’uomo sbagliato, aveva perso una mano e due dita dell’altra, era cieco da un occhio: posizionare la borsa sotto il tavolo dev’essere stato per lui molto difficile». Ma il compito più importante per il giovane ufficiale di cavalleria, nella congiura contro Hitler, era un altro. Un episodio poco conosciuto e quasi leggendario, che il nostro rievoca senza retorica. Al comando di un migliaio di uomini a cavallo, sottratti al fronte orientale con alcuni espedienti, Boeselager doveva raggiungere Berlino, dove aveva l’incarico di arrestare tutti gli altri capi nazisti. Partirono il 16 luglio, cavalcarono per tre giorni e tre notti verso Ovest, cercando di aggirare posti di blocco e città. «Ero sicuro che ci avrebbero scoperti. Eppoi i soldati non sapevano nulla, anche se forse sospettavano qualcosa». Arrivarono al punto d’incontro il 19: da lì avrebbero dovuto raggiungere Berlino in treno il giorno dopo. Ma, nel pomeriggio del 20, una staffetta gli portò un messaggio del fratello: «Tutti nelle vecchie buche», frase in codice per dire che l’attentato era fallito. E a Philipp von Boeselager non rimase che ordinare il dietro front e riportare i suoi mille cavalleggeri al più presto possibile sul fronte dell’Est. «Ce l’abbiamo fatta in due giorni e, per nostra fortuna e per quanto possa sembrare incredibile, in quei momenti di confusione nessuno se ne accorse». La vendetta dei nazisti fu terribile. Tresckow, Stauffenberg, Stieff e molti ufficiali vennero impiccati il giorno dopo. Altri vennero uccisi dopo un processo-farsa di pochi minuti. Neppure i parenti dei cospiratori vennero risparmiati. Secondo alcuni, la rappresaglia coinvolse diverse migliaia di persone, fra quelle assassinate e quelle inviate nei lager. Philipp von Boeselager si salvò, il suo nome non venne mai fuori, anche se fino alla fine della guerra visse con l’angoscia di essere scoperto, portando sempre con sé un capsula di cianuro. «Vede, io non sono un eroe, però sono un renano della riva sinistra. Sa che cosa vuol dire? Siamo sempre stati cattolici da queste parti, ma nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, ci ritrovammo tutti prussiani per forza. La diffidenza verso lo Stato centrale tedesco veniva quindi dalla nostra storia, ce l’avevamo dentro. Fummo diffidenti verso il Kaiser, verso la Repubblica di Weimar e naturalmente diffidammo anche del nazismo, nonostante alcuni sbandamenti. Era logico che entrassi nella resistenza a Hitler». Sulla facciata della casa di Philipp Freiherr von Boeselager c’è una scritta: «Et si omnes ego non», anche se tutti, io no. Un motto di famiglia, al quale può ben dire di aver fatto onore. Paolo Valentino