20 dicembre 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 28 GIUGNO 2004
L’Arabia Saudita spiegata a chi consuma benzina.
La famiglia reale saudita è nei guai. Grossi guai, tanto che sulla copertina di ”Newsweek” in edicola questa settimana si legge: Is Saudi Arabia Doomed? [1] Condannata forse no, ma come ha scritto Pino Buongiorno, la dinastia «rischia un destino simile a quello dei Borboni e dei Romanov». La cosa ci riguarda da vicino: il paese che detiene le maggiori riserve di petrolio continuerà a fornire il combustibile a un prezzo accettabile o diventerà il nuovo califfato di Osama bin Laden, che sogna di vendere il greggio a 150 dollari al barile per distruggere le economie degli ”infedeli”? [2]
La situazione è precipitata dal 12 maggio 2003. Fino ad allora gli al-Saud si consideravano invincibili e intoccabili. Ma i 35 morti e 200 feriti causati da tre esplosioni nella capitale hanno cambiato le cose. «Il 12 maggio è stato il nostro 11 settembre. Da allora ci siamo dovuti rendere conto che al Qaida non è un’invenzione. qui», ha confessato Fareed Zakaria, giovane scrittore di Riad. [1]
La scelta del momento non fu casuale. Secondo Pascal Ménoret (Sull’orlo del vulcano), deriva dalla destabilizzazione regionale dopo l’invasione dell’Iraq: «L’amministrazione Bush voleva sbarazzarsi di uno Stato terrorista ed è riuscita a creare una zona di non diritto che funge da luogo di scambio di esperienze militanti o da retroterra per movimenti islamisti armati. Il traffico d’armi è aumentato in maniera esponenziale alla frontiera tra Iraq e Arabia saudita». [3]
Le violenze in Arabia sono diverse dalla guerriglia in Iraq. Gary Sick, islamista dell’Istituto sul Medio Oriente della Columbia University, dice che nel caso saudita manca l’elemento nazionalista, la base viene da elementi rigettati dalla società che fanno leva sullo scontento. Non ne servono migliaia per gettare il Paese nel caos. Il loro intento è dimostrare che il sistema è imperfetto, creare un’instabilità tale da rendere necessario sostituire gli al-Saud. [4]
Da dove nasce lo scontento? L’economia è ricca ma si fonda solo sul greggio e non crea posti di lavoro. La natalità è fra le più alte del mondo. I giovani sono tanti, vanno all’università ma scelgono prevalentemente gli studi religiosi. Risultato: poca istruzione, niente lavoro. [4]
La monarchia è destabilizzata dalle lotte di successione. Re Fahd, 83 anni, colpito da un ictus nel novembre 1995, viene tenuto in vita artificialmente; il fratellastro Abdallah, 81 anni, principe ereditario di origine beduina, non è un Sudairi, cioè non appartiene a quel potente clan dei sette figli viventi del fondatore del regno nati dal matrimonio con Hussa bin Ahmad al-Sudairi, la preferita delle 18 mogli ufficiali e 650 concubine. E poi ha seri problemi cardiaci. Il potente ministro della Difesa Sultan, 80 anni, terzo nella linea di successione, ha un tumore. [2]
Il regno degli al-Saud è una monarchia a due facce. Abdallah rappresenta il campo liberale che si rifà alla dottrina Taqarub (musulmani e non possono coesistere pacificamente) e cerca di accreditare quale futuro monarca l’attuale ministro degli Esteri, Saud al-Faisal, figlio del re assassinato nel 1982, fautore del coinvolgimento delle imprese straniere nel settore dell’energia. Tutto questo è considerato un anatema dall’avversario storico del principe Abdallah, il potentissimo ministro dell’Interno Nayef, 71 anni, un Sudairi che dal 1975 guida la polizia e i numerosi corpi paramilitari. [2]
Nayef è la faccia radicale della monarchia, quella che si nutre del principio Tawhid (monoteismo), così come era stato concepito da Mohammad ibn Abd al-Wahab, il fondatore della religione di Stato, il wahabismo. Secondo questa dottrina, i nemici non sono solo cristiani, ebrei e sciiti, ma addirittura i musulmani sunniti non sufficientemente devoti. [2]
L’Arabia Saudita è per definizione fondamentalista. Nacque dall’intesa fra Abul Aziz, il fondatore della dinastia al-Saud, e la setta dei wahabiti: interferenza nella vita politica in cambio della legittimazione religiosa. La società saudita è fondamentalista perché il wahabismo è parte integrante dell’identità nazionale. I suoi insegnamenti sono presi sul serio non solo dai reali, ma da gran parte della popolazione. [4]
Il lungo elenco di divieti ricorda quello dei talebani. Divieto per la donna di portare i tacchi alti e di andare al mercato senza il permesso del marito; nullità della preghiera con i pantaloni (sottolineano le parti intime); illecito osservare il lutto per i sovrani deceduti (equivale a contestare la volontà di Dio); divieto di portare a casa riviste frivole, di tingersi i capelli e di profumarsi; divieto di stipulare polizze assicurative ecc. [5]
L’Islam rurale, xenofobo e antimonarchico. Come un tempo in Europa mondo contadino e fanatismo religioso si alleavano per scannare stranieri, così molte moschee del Qasim producono una versione del wahabismo per cui i non musulmani sono esseri immondi. Agli occhi di quest’Islam rurale anche la monarchia saudita è riprovevole, e non da ora. [6]
L’Islam è compatibile con la democrazia? il titolo di un saggio di Renzo Guolo in cui si spiega che, per imporre l’egemonia in campo religioso, il regime si serve di una miriade di istituti e fondazioni caritatevoli: dovunque l’Islam sia minacciato, le charities forniscono assistenza a individui e gruppi che ne fanno richiesta. Naturalmente è difficile verificare se i fondi sono destinati ad acquistare medicinali per la Mezzaluna Rossa oppure kalashnikov per la guerriglia. [7]
La distinzione tra ”fondamentalismo di stato” e ”fondamentalismo dei movimenti” è labile. Il meccanismo ”regolativo” del fondamentalismo adottato dai governanti ”moderati” alleati dell’Occidente non riduce l’espansione dell’islamismo. Lo devia, piuttosto, verso altri piani: quello neotradizionalista, verso la società; quello radicale, che si vede preclusa la scena nazionale dalla repressione interna, verso il terrorismo globale. [7]
Al Qaida. Osama bin Laden, espressione della società saudita, contesta alla famiglia reale di non essere abbastanza islamica, di aver dilapidato le risorse e consentito alle truppe Usa la profanazione di Mecca e Medina durante la Guerra del Golfo. Osama e i suoi puntano alla cacciata degli al-Saud e possono contare su un ampio sostegno sociale. [4] Secondo un sondaggio citato da fonti non ufficiali e tenuto segreto dal governo il 49% dei sauditi sostiene le idee di bin Laden. [8]
A quel punto la tragedia irachena parrebbe quasi uno scherzo. Come ha spiegato Lucio Caracciolo su ”L’espresso”, quel giorno forse non è troppo lontano: gli esponenti più in vista della famiglia regnante hanno già prenotato le residenze dell’esilio. La recente catena di attentati rivela la labilità del controllo del territorio da parte del governo di Riadh. L’obiettivo delle cellule jihadiste è di provocare l’esodo di massa dei lavoratori e degli esperti stranieri, fondamentali per il funzionamento della macchina economica (petrolifera) saudita. Se le missioni kamikaze dovessero continuare, le maggiori compagnie energetiche in Arabia Saudita dovrebbero rivedere i loro progetti. [9]
Gli apparati di polizia sono complici degli attentatori? Negli apparati statali, specie nell’intelligence e nei settori economici, coloro che lavorano per un nuovo regime orientato al ritorno all’Islam ”duro e puro” stanno organizzando le loro reti. [9] Ma Ménoret sostiene che «l’intensità della repressione in Arabia saudita è misconosciuta. Si dice spesso che il regime saudita avrebbe lasciato fare i gruppi estremisti per paura che si rivoltassero contro di esso: è falso». [3]
Gli americani sono particolarmente sospettosi. Il ”Los Angeles Times” ha pubblicato una particolareggiata ricostruzione di come il regno saudita abbia mantenuto a lungo rapporti amichevoli con bin Laden, anche dopo l’undici settembre. Osama sarebbe sopravvissuto e si sarebbe addirittura rafforzato. [10]
Le relazioni con gli Usa sono a rischio? Washington farà di tutto per proteggere la famiglia reale, anche se l’Arabia è accusata di essere l’epicentro del terrorismo. Come dice Mai Yamani, esperta del Royal Institute of International Affairs di Londra, «è meglio il diavolo che conosci di quello che non hai mai provato». [11]
Il crollo del regime disintegrerebbe il regno? Esiste una ricca cartografia sulle possibili linee di faglia lungo le quali potrebbe rompersi. Progetti spesso attribuiti agli israeliani e/o agli americani, che tengono conto delle diverse aggregazioni religiose e tribali e soprattutto della localizzazione dei giacimenti petroliferi, delle condotte energetiche e dei principali porti di caricamento. [9]
I ”neocons” statunitensi vorrebbero dividere il Paese. Sottraendo al regno degli al-Saud la regione orientale di al Hasa, con tutti i giacimenti petroliferi, per crearvi un’enclave sciita-americana indipendente in nome dell’autodeterminazione delle minoranze non sunnite della penisola arabica. [12]
Lo scenario che fa più paura è il «Califfato del Petrolio». Da una parte, l’obiettivo di al Qaida è quello di far cadere il regime saudita e di prendere il controllo del Paese che ha le maggiori riserve petrolifere del pianeta. Dall’altro, è quello di cacciare americani e inglesi dall’Iraq, che nella classifica delle riserve di greggio è secondo, e favorire la presa del potere di fondamentalisti anche a Baghdad. Le basi per un vastissimo califfato islamico radicale che, grazie a un effetto domino in altri Paesi potrebbe arrivare a controllare il 75% delle riserve mondiali, sarebbero gettate. [13]
«Il Califfato petrolifero probabilmente finirà nella pattumiera delle rivoluzioni fallite» sostiene Rampoldi. Ma i seguaci di quell’idea potrebbero riuscire a mutare il corso della storia, se noi glielo permetteremo. Forse è il caso di abbandonare le ipocrisie della destra interventista e della sinistra terzomondista e andare alla sostanza: è in corso da anni, una guerra per la risorsa più strategica del pianeta, il petrolio, carburante delle democrazie come pure dei conflitti che hanno insanguinato il Novecento. [14]
Anche l’Europa è chiamata a un rinnovato pensiero strategico. Come ha scritto Andrea Lavazza, «non siamo alla vigilia di un golpe, né di uno choc petrolifero, ma esercitare l’arte della prevenzione ci potrebbe risparmiare un doloroso risveglio nel Golfo Persico». [15]