19 dicembre 2005
ROCHAT Giorgio.
ROCHAT Giorgio. Nato a Pavia nel 1936. Storico. «[...] da sempre si occupa di storia militare, ”scontentando sia gli storici che i militari”. I primi gli rimproverano la febbre patriottica, troppo ardore per le forze armate. Gli altri lo criticano per ragioni inverse, imputandogli un eccesso di severità verso gli alti comandi. ”Per anni, in alcuni ambienti militari, sono stato guardato con sospetto: per loro ero un nemico della patria”. Tuttora non sempre lo invitano ai convegni, ma di questo preferisce non parlare. I suoi libri fondamentali, concentrati sulla storia italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, hanno rovesciato il cannocchiale su soldati e ufficiali nei campi di battaglia: non più pedine sullo scacchiere, come tradizionalmente li osserva la storiografia militare tradizionale, ma uomini in carne ed ossa; e dunque non più solo morti, ma anche malati, frequentatori di bordelli, cappellani militari. Se gli domandi da dove provenga questa inclinazione alle mostrine, risponde: ”Nessuna spiegazione logica né famigliari in divisa: sarà per un certo piglio autoritario, come dice mia moglie”. Cominciò prestissimo, divoratore di poderosi saggi bellici. Poi nei primi anni Sessanta l’incontro con Ferruccio Parri, che lo orientò verso la politica militare del fascismo. [...] per un quarantennio ha legato il suo nome all’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione di Milano. [...] ”[...] lo storico italiano si ritrae davanti alle questioni militari. Le tiene distanti, perché specialistiche o troppo difficili. O perché portatrici di seduzioni nazional-patriottiche. Confesso che mi sento osservato dai colleghi come uno strano fenomeno. In realtà non sono né un pacifista né un militarista. Combatto da sempre contro questa ghettizzazione degli storici militari, che è un tratto della nostra cultura novecentesca. La conseguenza di questa estraneità è che lo studio delle guerre del fascismo per diversi decenni è stato delegato alle forze armate, quindi politicamente neutralizzate [...] Una volta chiesi al mio amico Nuto Revelli: ’Ma dimmi la verità, come erano in realtà i nostri ragazzi?’ E lui, non certo sospettabile di nazionalismo, mi rispondeva che la guerra era sbagliata, ma i soldati italiani i migliori del mondo. ’Non esagerare!’, replicavo. E lui: ’In relazione a quel che avevano...’. Quel che mi preme sottolineare è il cattivo funzionamento della macchina bellica, segnata da una cultura rigida e superata, da alti comandi pletorici e inefficienti, da ufficiali poco selezionati. Ho invece una difficile e sofferta comprensione per i soldati, coinvolti in una guerra che non sentivano [...]”» (Simonetta Fiori, ”la Repubblica” 19/12/2005).