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 2005  dicembre 19 Lunedì calendario

Quel nasone di Cattelan: «Più che bello, interessante», Donna, giugno 2004 Come perdere l’occasione d’oro di intervistare una persona molto molto glamour, però con stile

Quel nasone di Cattelan: «Più che bello, interessante», Donna, giugno 2004 Come perdere l’occasione d’oro di intervistare una persona molto molto glamour, però con stile. Un bel giorno vengo invitata alla festa di laurea di Maurizio Cattelan, a Trento, già che gli danno la laurea honoris causa in Sociologia; io non me la prendo, non ne faccio una questione personale, una notizia così è cruciale da un punto di vista internazionale. Maurizio Cattelan è di Padova, classe Sessanta e, piaccia o non piaccia, rappresenta più di chiunque altro oggi l’Italia in tutto il mondo (dell’arte), i suoi lavori vengono battuti all’asta intorno ai due miliardi di vecchie lire e di lui si parla moltissimo bene, o male. A parte questi fatti pacchiani della fama e dei soldi, lui è indubbiamente un attraente dato che non pensa, ripensa. L’idea di vedere da vicino uno che ripensa mi ristora, quindi decido che mi comporterò da fanatica e andrò anche alla sua cerimonia di laurea, oltre che alla festa. La mattina giusta, 30 marzo, allora salto in macchina e prendo l’autostrada del Brennero pensando a lui in termini mitologici. Lui! Che una volta piantò un albero gigantesco in un’Audi, squarciandola nel mezzo, come se gli alberi cadessero dal cielo; lui, che alla sua prima personale a NewYork cioè lì sull’orlo della consacrazione, installò un asino vivo e vegeto che ignorante ragliante scalciante e cacante veniva in modo solenne illuminato da un lampadario di cristallo; lui, che a una biennale di Venezia affittò lo stand a una ditta di profumi, defilandosi e mettendoci solo il cartello «LAVORARE è UN BRUTTO MESTIERE». Lui, che mi (s)piazza la scrittona più smargiassa e trombona dell’universo cioè HOLLYWOOD pari pari nella più desolata landa della Sicilia, costringendo le varie Sue Fighezze della critica d’arte a spostare i critici culi fin lì nel covo dell’anonimato e dello squallore più nero. Lui, che pianta un fachiro sottoterra di cui spuntano solo le mani marroni giunte, tese, come una preghiera sepolta. Lui, che ci risiamo: ripensa in modo vistoso. Arrivo a Trento. Universitas Athesina Studiorum, via Verdi 30, splende un certo sole montano molto ombroso, mi accomodo nella sala di poltroncine rosse tutta piena di gente di due tipi: quelli lì per lui, e quelli lì per Tina Anselmi per chi se la ricorda. Tina Anselmi non c’entra niente con i discorsi di prima, ma questi sociologi fantasisti hanno deciso di laureare in contemporanea l’artista e l’antipiduista. il festival dei due mondi, infatti si viene a creare un’ibridazione di stili tra dee in tacchi a spillo di vernice rossa o scamosciati rosa cenere, con le loro esatte giacchine in pelle anche bianca anche lucida, e donne in età dall’allure di suore laiche, pettinate come Red Ronnie, penalizzate dalla testa ai piedi da abiti di una bruttezza quasi aggressiva, ma nel complesso ganze sui loro plantari sottintesi. Intanto io così poltrendo sovrappensiero sono arrivata al punto di concepire Cattelan addirittura affettuosamente, ho letto che aveva problemi a scuola, aveva problemi a lavorare, era un disadattato, me lo immagino girare infelicemente bambino sotto i portici di Padova e ancora più infelicemente uomo che non trova la sua strada, con tutta la sensibilità speciale incartata, al solo pensiero mi si stringe la penna. Entra una sfilza di professori in toga e solenni berretti con il pompon, mentre un’orchestrina swinga e gli dà giù di clarinetto, di trombone e contrabbasso con sognante strafottenza, pare di star attraversando il Mississippi in barcone negli anni Trenta. Torco e allungo il collo per non perdermi la sua entrata e finalmente lo vedo, abbronzato come un maestro di sci, con una lieve banana pepesale, quel suo viso equino che dagli occhi alla bocca è tutto solo sempre naso, sia aquilino che camuso, incredibilmente, l’espressione da sfinge alla buona, il braccio sinistro ingessato, ad angolo retto, mi ricorda per un attimo Elio a quel Sanremo in cui si presentò con il braccio di legno per cantare La terra dei cachi, ma quando gli cedono la parola me lo fa dimenticare subito. In risposta al panegirico con cui lo laureano «in considerazione dell’impegnata e creativa ricerca artistica con la quale rende relative le verità usuali, smaschera i pubblici inganni e scopre il senso nascosto delle società del nostro tempo», lui dice solo molto semplicemente che si vergogna e che è imbarazzato. Poi da divo schivo affida a un altro la lettura del suo discorso, che è soprattutto un elenco di nomi come i titoli di coda di un film, già che «io senza gli altri non sono nessuno, sono completamente vuoto. Ho imparato a non sottovalutare nessuno già che chiunque può avere il potere di cambiarti la vita. L’uomo è straordinario, a piccole dosi. capace di dissennati gesti di generosità». Per essere furbo è furbo, ma fa un discorso edificante invece che melenso, che sono due cose diverse. Poi dice che lui se è finito a fare l’artista è per fuggire dalle parole, «le immagini mi affascinano per la loro ambiguità, diffidate sempre delle immagini a senso unico perché sono spazzatura; le immagini migliori sono delle piccole torri di Babele che misteriosamente tengono insieme una molteplicità infinita di significati», qui me ne vado in un logico sollucchero prima dell’apoteosi finale: «Mia mamma mi diceva sempre che senza un pezzo di carta non si va da nessuna parte, quindi accetto le vostre lusinghe prima che cambiate idea». Senti quant’è ambiguo! Applauso scrosciante, l’orchestrina attacca Caravan di Duke Ellington, e lui beve acqua dato che non ha parlato. Poi i fatti si accavallano, compare un asino imbalsamato seduto sulle zampe posteriori nell’atrio dell’università, è stato lui, lui che intanto risponde a soavi monosillabi alle domande che gli fanno certi famelici e sgraziati giornalisti fuori nelle sei del pomeriggio di Trento che vuol dire sole calato già da un bel pezzo, lo fotografano, ha i jeans stretti sulle gambe secche e una maglietta rosa fin troppo da ciclista che ha vinto la tappa, gli vorrei chiedere qualcosa così poi lo scrivo ma siccome l’afasia ha la meglio, mi limito a guardarlo da molto vicino, a stargli tra i piedi, come una muta ebete. Mi pare così nell’insieme dei suoi modi enigmaticamente sincero, oltre che «più che bello, interessante». Di sera poi al buio con l’aria fredda che viene giù dai monti c’è la festa di laurea nella mensa dell’università, e lì spatzli a tutta forza, quei verdi gnocchetti strangolatori, ci sono le solite dee trasfigurate in volto per via che sanno d’arte contemporanea e hanno sempre i rossetti in discussione, non c’è più neanche l’ombra di antipiduiste femministe, ci sono tanti studenti sciattini con sciarpette, e gente rilassata dato che conta nel mondo dell’arte, tra cui il potentissimo Massimo De Carlo, il suo gallerista milanese, che lui una volta ha appeso al muro, vedevi questo pelato panzone potente appeso al muro a un metro da terra, con tutto il corpo tempestato di piste di scotch d’argento che lo attaccano alla parete. Intanto il corpo docente senza toga balla in modo molto sociale e democratico, io penso solo a inseguire con lo sguardo lui, ormai stroboscopicamente, e scopro che al semibuio protetto da un crocchio di gente con un trapano gli stanno segando il gesso, era tutta una finta, proprio come Elio e le Storie Tese. Solo che a Elio e le Storie Tese non è mai venuto in mente di esporre in Polonia una scultura di Karol Wojtyla che frana a terra colpito da un meteorite. Iggy Pop, Lust for life, e lui gira su se stesso in mezzo a tutti gli altri come un cucchiaino che mescola lo zucchero e io lì impalata a guardarlo, lì in teoria invece che in pratica, mi si para anche davanti una schiena di maglietta con scritto «la terra è un luogo comune», così imparo. Alessandra Saugo