Tali e quali, Longanesi 1952, 19 dicembre 2005
E questa era Palma. L’altra sera, ad un tavolo della Colomba, Paolo Monelli, Fofo Franci ed io, in compagnia di alcuni pittori messicani, che avevano esposto alla Biennale, stavamo aspettando Palma Bucarelli
E questa era Palma. L’altra sera, ad un tavolo della Colomba, Paolo Monelli, Fofo Franci ed io, in compagnia di alcuni pittori messicani, che avevano esposto alla Biennale, stavamo aspettando Palma Bucarelli. La stavamo aspettando da mezz’ora con la rassegnata convinzione di trovarci appena agli inizi di quell’attesa, quando uno dei nostri ospiti d’oltre Oceano ci chiese se Palma non fosse discendente di Antonio Bucarelli che nel XVIII secolo aveva governato come viceré la loro patria. «Sì», rispose Monelli, che all’albero genealogico di Palma ha dedicato pazienti studi. E fu uno scoppio di rumoroso entusiasmo da parte dei messicani, che si diedero a rievocare le gesta di quel governatore, di cui il meno che si possa dire, è che usava sistemi piuttosto spicci ed energici per tenere in briglia i suoi amministrati. Franci ascoltava con interesse, rodendo con l’unico dente rimastogli in bocca una enorme bistecca al sangue. E quando il ritratto del biografato gli si fu, attraverso le parole di quegli entusiasti apologeti, fatto chiaro in testa, concluse a mo’ di commento: «Ora capisco tutto!». La leggenda vuole che Palma abbia un pessimo carattere, che qualcuno definisce addirittura infernale. Gli unici che non condividono questa opinione sono quel centinaio di dipendenti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Villa Giulia, di cui essa è direttrice e che l’adorano. Palina assunse la sovrintendenza nel ’43 per interinato del titolare richiamato alle armi, e doveva avere, allora, ventiquattro o venticinque anni. A molti sembrò una pazzia aver affidato un incarico così delicato e importante, in un così difficile momento, a una donna, e per di più di quell’età. Ma le prevenzioni non durarono più di qualche giorno: i pochi che bastarono a Palma per battere su una camionetta, sotto i bombardamenti, la strada che conduce a Caprarola, sgombrare con l’aiuto di pochi inservienti le opere d’arte della Galleria che vi erano ricoverate e trasportarle a Castel Sant’Angelo. Quello che non sarebbe riuscito a un uomo, anche con gradi di generale, riuscì a Palina: contro gli aerei alleati prima, poi contro i tedeschi, questa ragazza dal volto pallidissimo e dagli occhi verdi e imperativi, difese il patrimonio che le era stato affidato con la tenacia di un mastino. Circolava allora in bicicletta, inguainata in un tailleur grigioverde, con una cintura alla vita fatta di bossoli d’ottone vuoti. Era un modo anche quello per impressionare i comandi germanici che, sensibili com’erano ad ogni sollecitazione razziale, dovevano ravvisare in lei, così bella e guerrieramente vestita, una specie di Brunilde. Non so se nacque allora il detto «Palma e sangue freddo» che poi, tornata la pace, o quella che per convenzione chiamiamo tale, ha assunto un altro significato: quello di donna gelida e insensibile a ogni amorosa lusinga, come si dice che Palma sia. vero? Non è vero? Nessuno lo sa. «Il fiore all’occhiello dell’Amministrazione», come anche essa è chiamata, dedica il poco tempo che le opere d’arte le lasciano, al golf, al nuoto, allo sci e al cavallo. Una volta, da cavallo, cadde. Il quadrupede tornò alla scuderia per conto suo. Palma si alzò, si rassettò, andò al maneggio, si guardò nello specchio per vedere se il volto era deturpato, e solo quando ebbe constatato che non c’erano che poche e lievi scalfitture, si decise a svenire. Era rimasta talmente tramortita che tutto questo, quando glielo raccontarono, la sorprese: non se ne ricordava affatto. Nessuno pensò a revocarla dal posto temporancamente affidatole, quando la guerra fu finita. Palma non aveva aspettato il 25 aprile per riaprire la sua intatta Galleria. La sua grande «Mostra dei contemporanei» fu la prima o una delle primissime manifestazìoni artistiche di Roma liberata. E fu un mezzo scandalo per il largo posto che fece alle tendenze più moderne e audaci. Vecchi burocrati della Sovrintendenza, già indignati per l’incarico affidato a Palma che sconvolgeva ogni buona antica regola di anzianità e di scatto di grado, sorridevano in vista della prossima rivincita; critici influenti e aureolati di prestigio protestarono; un gruppo di esclusi propose di andare ad incendiare la Galleria; lo stesso ministro Molè, quando venne a inaugurare la Mostra, rimase perplesso. «Mi dica la verità», chiese a Palma davanti a un quadro particolarmente spregiudicato. «Ma a lei questa roba piace veramente? Crede che si tratti proprio di arte?» Palma non disse nulla. Lo guardò soltanto. «E quegli occhi freddi come un ghiacciaio», confessava l’altro giorno l’ex-ministro a un amico in un palco dell’Opera, «quando mi tornano in mente, mi mettono i brividi addosso». Quello che doveva essere il fallimento di Palma fu invece il suo trionfo. Essa aveva fatto da sola una rivoluzione, o per meglio dire l’aveva consacrata, come anni prima era accaduto a Von Tschudi nei Musei di Berlino. Non solo fu confermata al suo posto; ma anzi ebbe la qualifica e la responsabilità di direttrice. Oggi Palma è importante non solo sul piano nazionale ma anche su quello internazionale. La sua parola è ascoltata ai grandi congressi di Amsterdam, di Bruxelles, di Parigi. «Eminenza grigia dell’Arte italiana», l’hanno definita dei giornalisti stranieri, ma senza scrupolo di precisione: perché Palma può essere, ed è effettivamente, eminente; ma di grigio non ha nulla. La sua eminenza si sente. Oh, se si sente! Eccola finalmente che arriva, e c’è andata bene perché non ha che un’ora e mezza di ritardo sull’appuntamento fissato. Essa trova del tutto naturale che soltanto Franci non abbia retto alle sollecitazioni dell’appetito e stia già consumando il suo pasto nonché innaffiandolo col suo abituale fiasco di vino toscano. La sua aria, se non i suoi anni, di patriarca, e il fatto che, essendo restato titolare di un solo dente, deve mangiare con lentezza, rendono indulgente verso di lui Palma, che a noialtri non perdonerebbe di fare altrettanto. Oh, non protesterebbe, intendiamoci. Palma non protesta mai. Ci guarderebbe, soltanto, come quel famoso giorno guardò Molè. Sopravviene lenta, con un’aria di cui gli occhi semichiusi, che si direbbero un po’ miopi e forse non lo sono, sottolineano la svagatezza, negligentemente ondeggianti sulla nuca le folte chiome castano-scure, ma eretto sul collo il volto bianchissimo su cui risaltano le ciglia dense e morbidamente vellutate, il naso deciso pur con una lieve e aristocratica curvatura aquilina, la bocca esile e volitiva, le pupille verdi. Né a noi passa lontanamente per la testa di protestare contro la sua impuntualìtà che ci fa fare a nostra volta impuntuali nel salotto in cui siamo invitati per il caffè. Ben altre preoccupazioni ci angustiano in questo momento: si tratta di scegliere un menu per Palma, o meglio si tratta di sapere se il cuoco del celebre ristorante saprà fornire il menu che Palma avrà richiesto. Essa legge la lista delle vivande che il cameriere le ha presentato, cioè vi lascia scorrere sopra fuggevolmente lo sguardo, poi la posa con aria distratta. Apre la trousse, si passa un velo di cipria sulle guance di giglio, e pervicacemente tace. «Un piccolo antipasto...?», insinua il cameriere, ma si ferma sotto le verdi pupille che, aggrottando la fronte, Palma gli ha spalancato in volto. «Come prima cosa», essa dice con ineffabile dolcezza «vorrei un riso di gamberi al curry...» «Un riso di gamberi al curry, signorina...», azzarda l’altro con voce esitante. «Non c’è?» chiede Palma con aria sorpresa, e subito incalza: «Ma sì che c’è. C’è il riso, ci sono i gamberi. Li mettete insieme, più gamberi che riso, s’intende... Solo il curry manca, ma lo fate...» E sembra la cosa più naturale di questo mondo: tanto naturale che il cameriere si dà una manata sulla fronte per punirsi di non averci pensato. «Poi», aggiunge Palma, dopo un’altra lunga meditazione, «poi voglio un filetto en boîte da far flamber col cognac qui stesso...» Il cameriere comincia a sudare, sebbene l’aria della notte tenda, più che al fresco, al freddo. Ma Monelli gli viene in soccorso per tradurgli, lui, il purista, quelle esotiche misteriose parole. «Col filetto», seguita Palma, assolutamente insensibile alla tragedia che si va svolgendo nella mente del cameriere, «voglio un’insalata di tre sole varietà: lattuga romana, radicchio rosso di Treviso e qualche quadratino di sedano... E infine mi dia delle fragole...» «Delle fragole, signorina», insorge stavolta il cameriere, «siamo a settembre...» Palma lo guarda, incomprensiva. «A settembre non ci sono fragole?», e sembra piuttosto seccata di quel contrattempo. «Allora mi dia una cosa... una cosa più semplice... Un quarto di melone ghiacciato con crema di banane...» «Crema di banane?» obbietta ancora il cameriere di fronte a quest’ultimo ostacolo, che gli si presenta improvviso e del tutto inatteso. E Monelli gli spiega, paziente: «La crema di banane non esiste nel regno di ciò che è, ma esiste in quello di ciò che può essere. Per fare una crema di banane, naturalmente, ci vogliono anzitutto le banane, come avrebbe detto Petrolini. Poi ci vuole...». Palma mangia, finalmente; e finalmente con lei possiamo mangiare anche noi, sotto lo sguardo compassionevole di Franci, che in quel momento ha già digerito. La fame, la grossolana fame in cui, a forza di aspettare, ha trascolorato il nostro appetito, ci ha spinto a ordinare vivande più sommarie di quelle di cui Palma si compiace, e a divorarle con maleducata rapidità. A coronamento del nostro pasto, eccoci ora, Monelli e io, con due enormi fette di Saint Honoré sul piatto, nella cui panna montata stiamo per affondare il nostro cucchiaio, quando Palma ci previene e, allungando la forchetta, la panna montata comincia a rastrellarla e a mangiarla lei, una passata su quella di Paolo, una passata su quella mia, e poi di nuovo su quella mia e poi ancora su quella di Paolo, con una imparzialità di esazione che, certo, essa deve avere ereditato direttamente dal suo avo Antonio il viceré. In breve Monelli ed io non ci troviamo più di fronte che il miserabile crostone del dolce, ed è solo allora che Palma ripiega sul proprio melone sommerso nella crema di banane. Lo assapora, e il suo pallidissimo volto non ha una smorfia, ma si chiude. Poi, con un cenno lievissimo, appena abbozzato, della mano, chiama il cameriere che, pur all’altro capo della sala e insensibile alle rumorose sollecitazioni degli altri clienti, non si sa come, la vede, precipitosamente deposita fra le braccia della guardarobiera un vassoio, e accorre. «Non è granché», dice Palma additando il proprio piatto, «porti via». E la più profonda sincera costernazione si dipinge sul volto del poveretto. Mentre ci avviamo là dove siamo attesi per il caffè, Monelli spiega a Palma, che non li conosce, chi sono i nostri anfitrioni: gente ricca, col pallino dell’arte, di cui credono d’intendersi. anche per questo che tengono molto alla visita della direttrice della Galleria d’Arte Moderna, di cui sono molto in soggezione e da cui sperano qualche parola di elogio per l’oculatezza delle loro scelte in materia di quadri, di cui le pareti del loro salotto sono letteralmente tappezzate. Palma tace, avanzando nella stretta calle a lento e molle passo, con un’aria di cui gli occhi semichiusi, che si direbbero un po’ miopi e forse non lo sono, sottolineano la svagatezza. Essi si fanno fissi e attenti solo quando, giunti che siamo al convegno, colgono, isolata in fondo al salotto con lo scopo evidente di metterla molto in rilievo come il «pezzo bello» dell’intera collezione, una tela dell’ottocento di cui Palma, a dieci metri di distanza, individua subito l’autore. «Sì, è proprio lui!» conferma la padrona di casa con una voce in cui tremano insieme sorpresa, ammirazione e speranza. «Più se ne vede», risponde Palma, «più ci si accorge della sua mediocrità!» E passa oltre, insolente e indolente, col suo languido passo, col suo riverbero di ghiacciaio nei verdi bellissimi occhi. Indro Montanelli (da Indro Montanelli Tali e quali, Longanesi 1952)