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 2005  dicembre 19 Lunedì calendario

Tanti saluti a Romiti, che alla Rcs ha fatto il padrone e non il manager, Prima Comunicazione, maggio 2004 E così, caro dottore, caro presidente Cesare Romiti, è finita

Tanti saluti a Romiti, che alla Rcs ha fatto il padrone e non il manager, Prima Comunicazione, maggio 2004 E così, caro dottore, caro presidente Cesare Romiti, è finita. L’hanno inchiodato al muro gli azionisti della sua società: la Fiat, Mediobanca, Ligresti, Pesenti, Banca Intesa, Generali, Pirelli, Edison, Mittel, la Sinfair, la Finint. Non mi chieda chi di questo schieramento, che è tutto contro di lei e i suoi figli (Maurizio in particolare), è il più deciso a far fuori questi «inutili distruttori di ricchezza», come ha soffiato come un gatto inferocito quel signore con l’accento appena marchigiano. Se lei pretende la descrizione puntuale dei meccanismi di concambio; se lei vuole che le racconti come è venuto in mente a Diego Dalla Valle la carognata di un’Opa sulla Gemina; se vuole sapere perché il bilancio più bello della Rcs è stato quello del 2000 portato in assemblea dall’amministratore delegato Claudio Calabi; se vuole sapere se io penso che ci sia stato un passo falso, o due, o tre nel lungo cammino di sei anni che lei ha percorso in via Rizzoli (sì, lo so, che lei è considerato soprattutto un tattico e non uno scarso stratega), beh, tutte queste cose non le cerchi nel mio giornale ma negli articoli di Pons su ”Repubblica” o di Tamburini sul ”Sole 24 Ore”. Io le posso dire soltanto quello che ho visto con i miei occhi: che lei ha perso. Eppure aveva tra le mani il ”Corriere della Sera” manovrato però da un direttore, Stefano Folli, che alterna stati catatonici a esaltazioni agghiaccianti. Lei si è mosso in questi ultimi tempi con la nomina di Folli a direttore del ”Corriere” e con l’ipotesi Rcs1 e Rcs2 nel caso che l’azienda insistesse nello spingerla fuori dalla porta. Sono state due mosse sbagliate e provo a spiegare il perché dal mio punto di vista che, essendo quello di un signore che segue da trent’anni quello che succede in editoria, varrà pure qualcosa. Dopo un mese che lei era arrivato alla Rcs Editori, ho capito subito che c’era qualcosa che non andava. Mi segua nel ragionamento e nei ricordi. Non la farò troppo lunga. Lei non stia a pensare agli Agnelli, a Torino, alle catene di montaggio, ai 40mila. Soprattutto non pensi agli Agnelli, alla corte di via Marconi o a quell’odore d’incenso sabaudo che c’era al settimo piano dov’era il suo ufficio. Pensi alla Milano democratica, a via Solferino, alla recente storia della gestione dell’azienda del ”Corriere” guidata negli ultimi tempi da Luigi Guastamacchia, Carlo Callieri, Lorenzo Folio... Quando lei arriva a Milano, a capo della holding, il gruppo era guidato da Claudio Calabi che al tempo di Internet lei sbertucciò più volte affermando che aveva il coraggio di un ragioniere. Affermando implicitamente che lei, invece, era un condottiero. E tutti gli osservatori che avevano occhi per guardare e orecchie per ascoltare ritennero che dopo tanti anni di guida pallida era arrivato con lei il momento della lotta, della battaglia, delle bandiere che garrivano al vento della vittoria, e quel poco di sangue che scorreva via dalle vene, beh, era un prezzo irrilevante per un ”Corriere della Sera” di nuovo trionfale. Anzi, diciamolo, di un ”Corriere” che non era mai stato così trionfante. Poi, passa un giorno e passa l’altro e più non parla il prode Anselmo... Gli specialisti di potere aziendale - Milano è l’unica università del potere delle spa in Italia - hanno subito tirato le somme, concludendo che lei era arrivato a Milano non per fare il manager, non per aumentare e creare valore, ma soltanto per fare il padrone, per occupare, per dire: questa è roba mia. Lei si ricorda, no, cosa faceva il Spqr (Senatus popolusque romanus) quando qualche console diventava troppo potente? Lo allontanava da Roma, gli assegnava una provincia da gestire e da sgrassare, tipo la Pannonia o una provincia d’Africa, sperando che ci rimanesse secco, o almeno si impigrisse; o che, tutto occupato a rastrellare ricchezze, finisse per non tenere più conto dei giorni che passavano finché una mattina un centurione l’avvertiva che fuori dalla tenda c’era quella signora, magra come uno scheletro, in un lungo nero, con una falce in mano, che chiedeva di lui. Ci pensi un attimo, dottor Romiti: sembra la trasposizione esatta dell’ultima parte della sua vita professionale: gli Agnelli (il senato) decidono di staccare la sua manichetta dal corpaccione del loro impero e la mandano nella provincia lombarda, nella città di Milano, ricchissima di case editrici, sfolgorante per la luce che viene da via Solferino 28, dove viene inventato e stampato (in parte) il ”Corriere della Sera”. Lei considera l’offerta, annuisce, controlla la permanenza di suo figlio Maurizio alla Hdp. Poi lascia Torino, arriva a Milano e proclama: «Hic manebimus optime». Eh, caro dottore, optime mica tanto. Perché lei è appena arrivato sei anni fa, in via Rizzoli, che gli azionisti (che hanno dovuto ingoiare le decisioni della Fiat, accettando il viaggio premio di Romiti a Milano) cominciano a incazzarsi perché suo figlio, ”Romitino”, nel gestire il comparto del lusso della Hdp si è lasciato acchiappare dagli infarti del mercato e ci ha rimesso una paccata di miliardi alta così. Ma quello che di più irrita i suoi colleghi azionisti è che nella provincia di Lombardia lei si comporta proprio come un proconsole. Prendiamo ad esempio il caso di Ferruccio de Bortoli, direttore del ”Corriere”. Ci sono editori che dopo aver conosciuto Ferruccio hanno esclamato: «Ah, io questo me lo compro», Tanto erano evidenti le doti di questo professionista (educazione, tolleranza, competenza solida e non esibita, difesa della funzione del giornalista senza scadere mai nella corazza corporativa). Ma lei ha trattato de Bortoli come un cameriere. Chissà perché: non lo spiega (agli altri) de Bortoli, né Ermini, né i giornalisti più vicini all’ex direttore. In compenso li avrà contro tutti (pur non prendendo le parti di Folli) quando lei darà l’ultima battaglia per se stesso e per la sua famiglia. Sarà un bello spettacolo quell’ultima battaglia. Noi abbiamo già pagato tutti i giorni il nostro biglietto all’edicola e abbiamo diritto alla prima fila. Ma forse la soluzione non sarà cruenta. Lei, mi dicono, si è «mosso tantissimo a Roma». Non so cosa vuol dire. Non so quali siano le conseguenze di questa sua agitazione. E in fondo la cosa non scuote più di tanto le piume del mio cimiero. Di una cosa sono abbastanza certo. Più andiamo avanti, più le fila degli azionisti si rinserrano. Oggi le linee degli azionisti schierati contro di lei sono tre. Una dice: «Basta! Ne abbiamo pieni i coglioni. Buttiamoli fuori!» (Della Valle); Mediobanca si accosta a questa posizione; la seconda linea, quella delle banche, dice: «Non vogliamo un altro caso Cirio. Troviamo un accordo morbido»; terza linea: scorporiamo il gruppo in due società. E tutti rimangono nelle due società. Tra questi azionisti c’è anche chi dice: «Ma sì, lo lasciamo lì fino al 2007. Tanto, che guai volete che ci combini». Non si fidi, dottor Romiti, stare tutti insieme contro uno solo stimola il clima di congiura, mette sete di sangue. Sì, le prossime Idi di marzo sono ancora lontane, ma... Umberto Brunetti