Il Venerdì 09/12/2005, pag.52 Luca Lancise, 9 dicembre 2005
Viaggio tra i cinesi costretti a chiudere dall’invasione cinese. Il Venerdì 09/12/2005. Roma. Cinesi contro cinesi
Viaggio tra i cinesi costretti a chiudere dall’invasione cinese. Il Venerdì 09/12/2005. Roma. Cinesi contro cinesi. Una guerra per la sopravvivenza quella fra i cinesi della Cina e i cinesi "italiani" che vivono e lavorano nel nostro Paese da una, due, anche tre generazioni. La competitività dei prodotti made in China ha già fatto le prime vittime tra gli immigrati in Italia e i loro tradizionali laboratori familiari di maglieria e pelletteria. Prendiamo il caso, emblematico, del signor Xu, un cinese che lavorava per un maglificio di Lucca: la ditta sposta la fabbrica in Cina e i suoi dipendenti cinesi (ma trapiantati da anni in Italia) perdono il lavoro, tutti tranne Xu, spedito con moglie e figli a Canton per seguire lì la produzione della piccola impresa toscana. Un esempio limite? Non troppo. Anche in Emilia Romagna i laboratori cinesi sono in una crisi profonda. Provocata dalla madrepatria. "Fino all’anno scorso facevo maglieria per una ditta di Carpi. A un certo punto il titolare, italiano, è andato a comprare in Cina, perché non gli conveniva più produrre qui. E la mia famiglia ha perso il lavoro", racconta Xingxiao Chen, giovane cinese di seconda generazione, che si occupa anche di mediazione d’impresa per il Consorzio Spinner-Sviluppo Italia. Quella che ha messo in crisi i cinesi di Carpi, spiega Chen, è la fase intermedia della produzione: "Al primo gradino c’era il fornitore italiano di filato, poi lo ”smacchinatore” che fa i pezzi della maglia, detto anche magliaio, sempre italiano, quindi il ”confezionista”, cioè noi cinesi, infine la tintoria, lavanderia, stireria e gli accessori come bottoni e cerniere, di nuovo di mano italiana. Ma ora il fornitore importa la maglia già confezionata dalla Cina, così a noi cinesi-italiani resta al massimo il lavoro di stireria. Insomma, è saltata la nostra fase". La fase delle confezioni, infatti, se viene eseguita in Cina costa, secondo una recente ricerca di Spinner, la metà di quanto costerebbe se eseguita in un laboratorio conto terzi italiano, che non regge il confronto soprattutto sul fronte dell’orario di lavoro. "Qui a Carpi tira una brutta aria per tutti", continua Chen, "basta vedere i miei parenti...". Già, sua cugina, 25 anni e due figli piccoli, ha chiuso la ditta di maglieria conto terzi a Carpi quattro mesi, e ora sta provando a gestire un bar a Mantova. Racconta la giovane donna: "Negli ultimi due anni il volume d’affari è calato sempre di più, prima lavoravamo sei giorni la settimana, poi quattro, poi solo due giorni, alla fine erano più le spese, tra macchinari e operai, che le entrate: perciò abbiamo chiuso, e siamo stati costretti a spostarci su altri settori". Ma gestire un bar è difficile, perché richiede un buon impegno finanziario e liquidità. Dice ancora Chen: "Molti titolari cinesi che chiudono l’attività tornano a fare gli operai nelle fabbriche italiane di altri settori, tre miei cugini ora lavorano per una ditta che fa prosciutti e salami: prima lavoravano tutti nel tessile". Stime precise ancora non ce ne sono, ma tra le oltre mille ditte cinesi delle province emiliane, sarebbero ben il 20 per cento quelle che chiuderebbero se ci fosse un’alternativa. "Non sono pochi quelli che stanno aspettando solo di riuscire a vendere i macchinari", conclude Chen. Impossibile, però, che nei laboratori qualcuno lo ammetta pubblicamente. "Un modello produttivo che era stato vantaggioso negli ultimi quindici anni per gli immigrati cinesi ora sta crollando. Oggi fare il conto-terzista non è più interessante per i cinesi, non ci si arricchisce più rapidamente, anzi si sconta la crisi e questo ha spinto molti titolari cinesi di laboratori a cercare occasioni di affermazione economica alternativa, che per ora scarseggiano", spiega Antonella Ceccagno, sinologa, docente all’Università di Bologna e coordinatrice del Centro ricerche e servizi per l’immigrazione di Prato. L’alternativa, pensano molti cinesi d’Italia, è passare dall’altra parte: diventare importatori. Nella Chinatown romana, per esempio, sono decine gli annunci, in cinese e talvolta in italiano, per affittare un negozio "in conto vendita" ad altri cinesi, dove tentare di piazzare un piccolo stock di merci. Daniele Wuang, agente immobiliare di un’importante famiglia della comunità della capitale, spiega il meccanismo: "Sempre più cinesi decidono di trasformarsi in mini-importatori acquistando due o tre container coi pochi risparmi di un’attività in perdita o non più redditizia, coi prestiti di parenti o grazie a un credito in Cina". Una volta arrivata in Italia, si lascia la merce in un negozio dell’Esquilino, la Chinatown romana, accordandosi su una percentuale col proprietario. Ma spesso, negli ultimi tempi, va male. Perché, dice ancora Wuang, "molti hanno iniziato l’attività senza conoscenza, come pionieri, tutti vendevano le stesse cose per paura di sbagliare, quasi nessuno con le reali competenze in materia, perciò tutta la concorrenza si gioca sui prezzi. Ma poi col prezzo ai minimi storici, che si fa?". Da un paio d’anni a questa parte, con la Cina nel Wto e i blocchi doganali nei porti italiani, la competizione s’è fatta spietata. Così, conclude Wuang, "quando hai uno o due container di capitale, basta sbagliare un colore quella stagione, oppure scegliere il negozio sbagliato, e perdi tutto". Mario, cinese di 36 anni, ristoratore e importatore di Prato che si è dato il più classico dei nomi italiani, accetta di raccontare la faccia italiana dell’importazione cinese. "L’acquisto all’ingrosso va anticipato di sei mesi rispetto alla vendita. Per esempio, 2 milioni di capi invernali arrivano a luglio in Italia, i clienti che acquistano sono al 90 per cento cinesi stessi, anche da Francia, Germania e così via, e l’affollamento di importatori sta abbassando i prezzi. A luglio, una maglia viene rivenduta a 7 euro. Ma da fine settembre si scende a 6, il giorno dopo a 5 euro, così finisce che l’ingrosso pagato in Cina dai 2,5 ai 5 euro al pezzo, viene venduto qui con un bassissimo, o inesistente, margine di guadagno. Ma capita addirittura di vendere a 50 centesimi capi pagati 2 o 3 euro all’acquisto in Cina. Basta sbagliare un colore, e allora svendi". Accanto a chi si butta sull’import, ci sono anche quelli che decidono di emigrare. Alcuni sempre in Italia (in molti sono "saliti" dalla zona di Napoli verso Prato), altri verso Paesi d’Europa meno esposti alla crisi, come Grecia, Portogallo, Spagna. Altri ancora tornano in Cina e, grazie agli incentivi fiscali del Governo per l’immigrazione "di ritorno" che decide di investire nel Paese, avviano lì un’attività produttiva che a sua volta finisce per danneggiare, o perlomeno competere, coi connazionali più deboli rimasti qui. Riferisce dalla lontana Wenzhou, epicentro della provincia cinese del Zhejiang dalla quale proviene la maggior parte dei cinesi d’Italia, la signora Saho, 38 anni: "Lavoravo insieme con mio marito e mio figlio nella cintura pratese. Avevo iniziato nel 1992 come operaia, poi conto terzi per ditte italiane e per cinque o sei anni è andato tutto bene, finché, due anni fa, il lavoro ha cominciato a scendere, non bastava più per l’affitto: ho cominciato a lavorare solo quindici, venti giorni al mese". Così, meno di un anno fa, la signora Saho decide di tornare in Cina per fare lì le confezioni che l’hanno messa in crisi in Italia, e adesso ha una fabbrica con duecento operai e si occupa di import-export con ordinazioni da Russia e Europa del Nord. Sono proprio questi cinesi che tornano in Cina a creare il paradosso: si va a cercar fortuna in madrepatria, "tenendo però in tasca il permesso di soggiorno italiano e tornando, quando serve, a rinnovarlo", spiega Lin Rimiao, impiegata a Prato, 50 anni. Suo figlio Yu Xie Bin, 23 anni, racconta che il suo ex datore di lavoro cinese "ha deciso di andare a Shangai per fare confezioni di abbigliamento e poi spostarsi". Mentre la sua fidanzata, Yang Xu, 21 anni, dopo aver perso il posto in una maglieria oggi lavora coi suoi genitori come ambulante a Siena. Fra crisi e incertezze, una cosa è sicura: la battaglia Italia-Cina si combatterà soprattutto nel settore del pronto-moda, di quelle aziende, cioè, che colgono le tendenze dalle sfilate e producono capi di abbigliamento a tempo di record. Grazie ai nuovi collegamenti aerei i cinesi giocano i loro assi anche su questo tavolo: un importatore può commissionare una quantità di capi in Cina, contando sulla estrema flessibilità degli operai locali e sul fatto che in cinque giorni le confezioni arriveranno in Italia. "Dai 180 dell’inverno scorso, i pronto-moda sono saliti a 250 nel giro di qualche mese", spiega Giancarlo Maffei, responsabile dei rapporti internazionali della Confartigianato di Prato. "Il rapporto qualità/prezzo, poi il blocco delle merci nelle dogane e le quote hanno innescato una salita del pronto-moda, parecchi sono venuti qui da Napoli, adesso i conto terzi, cioè i maglieristi, si sono riadattati a una semplice attività di cucitura per i pronto-moda". Di recente, però, anche la parte creativa del pronto-moda è stata raggiunta dai cinesi. Lo sa bene Giulia Huang, 25 anni, titolare di un pronto-moda a Prato. Nel passaggio generazionale tra i suoi genitori che parlano solo il cinese e lei, con accento toscano e master negli Stati Uniti, è racchiusa la storia in crescita dei cinesi-italiani. "Noi cerchiamo di evitare da un lato la concorrenza coi tessuti italiani, dall’altro quella con l’importazione cinese", racconta Giulia nel suo ufficio, mostrando orgogliosa il primo catalogo del nuovo marchio che porta il suo nome. "La nostra strategia è creare sempre nuovi modelli, con un cambiamento veloce, per differenziarci dall’importazione: noi in una settimana consegniamo la merce. Stiamo anche pensando di vendere il nostro marchio in Cina, come marchio italiano. Oppure di portare lì i tessuti italiani". Perciò, da sette mesi, Giulia ha assunto a tempo pieno, per mandarla alle fiere a studiare i modelli da disegnare, una giovane modellista italiana che, fino a pochi mesi fa, lavorava come precaria. Luca Lancise