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 2005  dicembre 08 Giovedì calendario

Rousseau ci ha fregati. Vanity Fair 08/12/2005. Niente da dichiarare? Chissà che cosa avrebbe risposto Henri Rousseau, detto il doganiere, in realtà, con tutto il rispetto per le nostre autostrade, un semplice casellante, a una guardia di finanza che avesse voluto controllare cosa portava sotto il braccio per le vie di Parigi

Rousseau ci ha fregati. Vanity Fair 08/12/2005. Niente da dichiarare? Chissà che cosa avrebbe risposto Henri Rousseau, detto il doganiere, in realtà, con tutto il rispetto per le nostre autostrade, un semplice casellante, a una guardia di finanza che avesse voluto controllare cosa portava sotto il braccio per le vie di Parigi. Ai suoi tempi, secondo il giudizio della critica e del mercato, non avrebbe detto una bugia dichiarando ”niente”, oggi, invece, avrebbe dovuto dire ”un capolavoro”. Di capolavori Rousseau forse non ne ha mai fatti, ma ha creduto sicuramente di farli. Certamente ha creato immagini memorabili, uniche, che si sono andate a stampare nell’archivio collettivo della nostra memoria e nel bookshop della nostra anima. Il nostro casellante-doganiere nasce il 21 maggio del 1844, segno dei Gemelli, testa dura. La leggenda dice che il famoso commediografo Alfred Jarry, quello di Ubure, vedendo la faccia di Rousseau, al casello, su un ponte sulla Senna, abbia detto: «Faccia da pittore», e quello ci ha creduto. In realtà, Rousseau cominciò da solo. Pittore della domenica, autodidatta, anche se cercò d’imparare da tale Félix Clément, e si fece dare il permesso per andare al Louvre a fare copie di quadri famosi. Andavano di moda gli Orientalisti, tipo Jean-Léon Gérôme, pittori accademici che immaginavano e dipingevano l’Oriente come cavolo gli piaceva, alla Emilio Salgari, senza conoscerlo, e forse, proprio per questo, gli veniva meglio. A Rousseau, invece, l’anatomia proprio non gli veniva, danzatrici del ventre e beduini non gli riuscivano, preferiva gli animali feroci e la giungla. Ballista più che naïf, raccontava di aver visto foreste vergini e animali in Messico, soldato, al servizio di Napoleone III. Di fatto non lasciò mai Parigi. Liane e ficus lo avevano ispirato al ricchissimo orto botanico della città, mentre le bestie le copiava da cartoline, fotografie e illustrazioni. Quando finiva le sue avventure nella giungla tropicale rientrava, come da un fine settimana, dentro la domenica cittadina, che non si stancava mai di rappresentare. Povero in canna, il suo lusso era quello di viaggiare fra il sogno e il quotidiano, sbeffeggiato dal mondo dell’arte ufficiale che lo considerava un buffone. Il Salon des Artistes lo rifiutò sdegnato, ma lo accolse invece la Société degli artisti indipendenti, fondata dal puntiglioso puntillista Paul Signac. C’è chi non lo voleva nemmeno lì, ma lo difese Toulouse-Lautrec. Rousseau dipingeva, secondo alcuni, con i piedi e gli occhi chiusi, ma il risultato è migliore di tanti altri che oggi fanno la stessa cosa a occhi spalancati e con le mani. Fra i pochi gesti eroici della sua vita fu tagliarsi il barbone, nel 1899. Fra i gesti criminali, rubare francobolli a diciannove anni o essere beccato come falsario a sessantaquattro, finendo nel carcere della Santé, nel 1908. Per il resto la sua vità si srotolò regolarmente dentro un’interminabile domenica che finì il 4 settembre del 1910, in un letto di ospedale, dove morì, praticamente, solo. I colleghi lo avevano ammirato per il suo uso del nero. Nero il vestito del Ritratto di donna che Picasso compra per cinque franchi da un robivecchi, che suggerisce al genio catalano di usare la tela per dipingerci sopra. Pablo, invece, terrà il suo Rousseau dietro la scrivania, nel suo studio, considerandolo un capolavoro. Sempre con le pezze al sedere ma anche sempre più rispettato, Rousseau diventerà amico del poeta Apollinaire, e tanti futuri grandi frequenteranno le sue festicciole dove suona il violino. Di Rousseau attraeva la sincerità, la curiosità e il suo spirito primitivo. Nelle strade vuote, domenicali, s’intravede il Jacques Tati di Giorno di festa, ma si respira, anche, la malinconia delle nostre radioline con Novantesimo minuto dentro. Nelle sue foreste si vedono gli albori del Libro della giungla di Walt Disney e nello Zingaro addormentato del 1897 il cielo è lo stesso sotto il quale danza lo sciamano scimpanzè, Rafiki, del Re leone. Le sue atmosfere sono fantastiche ma anche fantomatiche. In Una sera di Carnevale, 1886, i due personaggi sembrano arrivati da Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick. Nel best seller L’incantatrice di serpenti, 1907, la protagonista sembra un ”black bloc” uscito da un pozzo di petrolio. Ma la fantasia di Rousseau non si libera solo nelle serre delle sue visioni. In un quadro del 1907, l’artista immagina un bel G8, forse anche G10, con le potenze del tempo, tutte riunite in piazza a parlare di pace, con sullo sfondo persino un gruppo di girotondini, e le banlieue ancora tutte da inventare. Quella di Rousseau è una pittura che potrebbe sembrare schizofrenica, uscita dalla frustrazione di un uomo mai riuscito a immaginarsi eroe ma solo capace di vivere e dipingere da povero pensionato senza troppa pensione. In realtà i suoi quadri preannunciano l’inconscio, profondo e rigoglioso dove andranno a caccia i nuovi psicoanalisti. Rousseau dipinge sia la banalità del buio che il buio della banalità. Ci piace per questo, per la semplicità nel descrivere il banal tenebroso che è in tutti noi. Solo Magritte, più tardi, ispirandosi a lui, riuscirà altrettanto bene a dipingere il freudiano, frigidone, che ci accompagnerà, tranquillo, nella nostra modernità. Davanti alla tela che, per tutta la vita, sarà la sua fi nestra, Rousseau osserverà il mondo come un mare, troppo freddo per tuffarcisi dentro. Il nostro casellante guarderà la guerra e la pace dei suoi tempi, come noi guardiamo quelle dei nostri, dividere il mondo fra inferno e domenica, fra vandalismo e fancazzismo, rimanendo a distanza, senza poterci fare un bel nulla. Proverà a immaginarsi più vicino, nel suo, forse unico, possibile, coraggioso, capolavoro, Guerra, 1894. Una specie di Zoe che corre sopra un cavallo, formichiere, nero, attraversando un campo di battaglia pieno di morti. L’unico albero è carbonizzato, il cielo è blu cobalto e nuvoloso. Con il senno di poi ci sembra un’allucinazione dei terribili fratelli inglesi Chapman ripassata da Goya in padella o un Guernica da asilo. Non si capisce bene se la guerra o la morte sono una bambina o la bambina è invece un cavaliere dell’apocalisse nano e transessuale. Di certo la schifosa pittura di Rousseau, che non imparerà mai veramente a dipingere, abbandona in questo quadro la propria ingenuità, trasformandosi da primitiva in primordiale. Come se l’interminabile domenica si concludesse con una fila infinita al casello, nuvole di fumo all’orrizonte, per un incidente sicuramente mortale. Francesco Bonami