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 2005  dicembre 12 Lunedì calendario

Piccole ditte non crescono: non conviene. CorrierEconomia 12/12/2005. C’è stato un tempo, ha scritto qualche tempo fa John Gapper sul Financial Times, nel quale la sola cosa più alla moda di un abito italiano era il distretto industriale che l’aveva fatto

Piccole ditte non crescono: non conviene. CorrierEconomia 12/12/2005. C’è stato un tempo, ha scritto qualche tempo fa John Gapper sul Financial Times, nel quale la sola cosa più alla moda di un abito italiano era il distretto industriale che l’aveva fatto. Erano gli anni nei quali Michael Porter, l’autore del Vantaggio competitivo delle Nazioni, ne faceva un caso di studio e perfino il presidente americano Bill Clinton additava i cluster a esempio di una nuova economia. Il governo italiano li scopre adesso, quando ormai alcuni dei prerequisiti del loro successo – le periodiche svalutazioni della lira, l’efficacia erga omnes della collaborazione competitiva delle piccole aziende in rete su base territoriale – sono venuti meno a causa dell’euro e della concorrenza dei Paesi emergenti nelle merci a basso valore. La sinistra, per decenni, ha considerato l’industria leggera, di piccola dimensione, come un sottoprodotto della grande, tutt’al più strumentalizzabile alla bisogna contro la Confindustria, e ha invece trascurato le indagini interdisciplinari di eretici dell’economia politica come Giacomo Becattini. Solo ora comincia a pensare la piccola e media impresa come cuore del made in Italy e architrave materiale della soft economy, per usare la definizione di Ermete Realacci. Ancorché tardiva, la scoperta dei distretti da parte della politica italiana è apprezzabile, perché il Paese non si può permettere il lusso di lasciar esaurire nel nulla il modello industriale che ha compensato il declino della grande impresa manifatturiera negli ultimi trent’anni del Novecento. La difficoltà è far seguire alle parole i fatti quando il governo non ha soldi da spendere (la finanziaria limita a 50 milioni l’impatto del provvedimento pro distretti sui conti pubblici del 2006), il sindacato rimane legato al modello taylorista della grande azienda (e la sinistra Cgil minaccia sfracelli se si riforma la contrattazione), la finanza ha poco da dire a chi non può pagare commissioni di almeno un milione di euro (al massimo Unicredito propone i bond di distretto per smobilizzare i prestiti). Una difficoltà tanto più seria in quanto all’interno stesso dei distretti cambia l’origine della loro competitività. Secondo Riccardo Varaldo, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, nei decenni Sessanta e Settanta era la performance dei settori del made in Italy a fare da traino;nei due decenni successivi è stata la performance dei distretti;adesso conta la capacità delle imprese. Riecheggiando analisi correnti in Italia, il notista del Financial Times individua nelle medie imprese in grado di conquistarsi una nicchia nel mondo le pocket multinationals che possono rigenerare l’Italia industriale. Ma questa singolare dimensione, che raggruppa le imprese indipendenti con organici da 50 a 500 addetti e con ricavi da 13 a 260 milioni di euro, rappresenta a sua volta una nicchia nel sistema. Secondo l’ultimo rapporto Mediobanca-Unioncamere, si tratta di 3. 966 società che generano il 13% del valore aggiunto del settore manifatturiero, essendo il 23% prodotto dalle grandi imprese e il resto dalle 39 mila di minor taglia. Ma si tratta di una nicchia con un suo dinamismo, tutto da capire. Nel periodo esaminato, che va dal 1996 al 2002, sono state 1. 166 le imprese piccole diventate medie e solo 211 quelle medie diventate grandi. Come ha spiegato Fulvio Coltorti, capo dell’ufficio studi di Mediobanca, nella presentazione del rapporto, alla media dimensione si arriva grazie alla spinta dei profitti crescenti, e questo condiziona la spinta alla crescita dimensionale all’andamento generale del ciclo (nel 2000 diventano medie molte più aziende che nel 2002), mentre il salto ulteriore avviene quando l’impresa si espone sempre più sui mercati internazionali. Con le esportazioni, ma anche, rileva Claudio Gagliardi, del centro studi Unioncamere, con gli investimenti industriali e commerciali all’estero:all’inizio del 2004 erano 332 le medie imprese che avevano costruito 531 impianti industriali all’estero, per la metà in Paesi in via di sviluppo, per il 35% in quelli avanzati e per il resto ovunque. Nessuna forza trainante può invece essere attribuita alla tecnologia:solo il 3, 8% delle medie imprese è attivo in settori ad alta tecnologia e il 24, 9% in settori a tecnologia medio alta, mentre assai più cospicua in questi settori è la presenza della grande impresa italiana (l’11,5% nell’alta e il 43,7% nella medio-alta). Questa scarsa propensione all’high tech deriva anche e soprattutto dal tipo di attività svolta. Il 29% delle medie imprese produce beni per la persona e la casa. Un’analoga percentuale lavora nella meccanica, il 17% nell’alimentare, l’11% nella chimica e il 7% nella metallurgia. Ma le ragioni della preferenza per la media dimensione si comprendono meglio se si tiene presente il destino delle imprese medie divenute grandi:l’1,4% fallisce ogni anno, quando nel default incorre s o l t a n to lo 0,22% delle medie, ma soprattutto bastano quattro anni perché il 38% venga assorbito da altre imprese italiane e il 19% da imprese estere. Il sesto senso dell’imprenditore che non vuol perdere la presa sulla sua azienda consiglia prudenza. D’altra parte, in queste imprese non siamo ancora alla svolta generazionale. Mentre nelle imprese individuali, secondo Silvia Giacomelli e Sandro Rento, del servizio studi della Banca d’Italia, l’età media dei titolari di imprese individuali è ormai arrivata a 61 anni, nelle medie imprese l’età dei soci si aggira sui 53 anni e quella delle stesse medie aziende sui 30. La forte tendenza alla stabilità trova la sua giustificazione nei bilanci. Nelle medie imprese italiane ricavi e margini crescono più rapidamente che nelle grandi e h a n no u na struttura finanziaria più agile e, al tempo stesso, più solida. Anche rispetto alle multinazionali europee. Hanno infatti minori investimenti fissi e minori debiti a lungo termine. Finanziano il circolante con debiti a breve, ma, alla fine, hanno il 44% del passivo rappresentato da capitale e riserve contro il 37% delle multinazionali. L’appello alla crescita rischia, dunque, di rimanere inascoltato perché non ne è sempre chiarissima la convenienza industriale e meno che mai quella finanziaria. L’analisi delle medie imprese mina alla radice uno dei caposaldi teorici che hanno ispirato la legislazione finanziaria degli anni Novanta e i discorsi degli opinion maker. Intervenendo sabato 3 dicembre al seminario di Orvieto del Ceradi, il centro studi dell’Università Luiss, che con la regia di Gustavo Visentini ha avviato un’importante ricerca sulle regole del mercato finanziario, Mario Sarcinelli ha messo in guardia dal dimenticare i fatti. E i fatti sono che in Italia, contrariamente al pregiudizio, la Borsa non è motore dello sviluppo industriale. Tra il giugno 1995 e il giugno 2005 il saldo tra le nuove emissioni di azioni e di obbligazioni convertibili a favore delle imprese e l’erogazione di dividendi e le offerte pubbliche d’acquisto a favore degli azionisti è negativo per ben 83 miliardi. In Borsa, insomma, gli azionisti hanno preso dalle aziende, non hanno dato. E non si può dire nemmeno che la quotazione in Borsa delle medie imprese possa modificare il mercato di piazza degli Affari e renderlo più interessante. Il coacervo di queste imprese, se si applicano i moltiplicatori medi degli ultimi 10 anni su utili e patrimonio, può valere 80 miliardi di euro, miliardo più miliardo meno. Diciamo 20 milioni l’una. Se si considera che nelle piccole società, le cosiddette small cap , la quota del capitale posseduto dai soci di minoranza è pari al 26% , avremmo un accrescimento del flottante complessivo, e cioè dei titoli di fatto trattabili perché non bloccati in mano al socio di controllo, pari a 20 miliardi, e saremmo più vicini al 5 che al 10% del flottante attuale. Se si pensa infine che il numero massimo di matricole è stato di 50 nell’anno 2000, ai tempi della bolla speculativa, ci vorrebbero 40 anni per portare in Borsa tutte le attuali medie imprese. Lo sviluppo delle medie imprese reali – non quelle immaginate nei libri dei sogni – passa dunque da un diverso approccio con la finanza, al centro del quale restano comunque le banche. Ma tra le banche e queste imprese virtuose, alle quali anche la Banca d’Italia da qualche tempo dedica particolare attenzione, non accade tutto quel che potrebbe, se un banchiere come Pietro Modiano ha poco tempo fa lanciato loro un appello affinché bussino allo sportello dove potranno trovare i crediti per crescere. Massimo Mucchetti