Il Secolo XIX 14/12/2005, pag.1-10 Paolo Crecchi, 14 dicembre 2005
«Lo straniero ci serve, l’italiano no». Il Secolo XIX 14/12/2005. La Spezia. Se Davide e Gabriele Calderan sono imprenditori che dicono la verità, e fino ad ora non c’è motivo di dubitarne, quanto sta accadendo alla Spezia promette di essere ricordato come uno di quegli episodi, apparentemente marginali, capaci di simboleggiare le tappe della storia industriale italiana
«Lo straniero ci serve, l’italiano no». Il Secolo XIX 14/12/2005. La Spezia. Se Davide e Gabriele Calderan sono imprenditori che dicono la verità, e fino ad ora non c’è motivo di dubitarne, quanto sta accadendo alla Spezia promette di essere ricordato come uno di quegli episodi, apparentemente marginali, capaci di simboleggiare le tappe della storia industriale italiana. I Calderan sono i titolari dei cantieri navali San Marco: cinque milioni di fatturato, 112 posti di lavoro, nel portafoglio degli ordini una bulk carrier da 130 metri più due rimorchiatori e una chiatta. •Segue a pagina 10 I Calderan hanno appena licenziato 33 dipendenti spezzini perché «sanno fare cose che non servono più», e ne hanno assunto altri 58, dalla Romania, «perché fanno cose che qui non sa fare più nessuno». Cioè: i saldatori, i tubisti, gli elettricisti, i disegnatori, insomma tutti quei mestieri necessari a un cantiere navale che vuole crescere e prosperare. Le cinque segretarie, i sette guardiani, l’infermiera, l’addetto alla manutenzione e il plotoncino di impiegati amministrativi sono stati superati dalla modernità. «Mi servono i mec-ca-ni-ci!I car-pen-tie-ri!E perché non dovrei assumere i romeni, se loro conoscono il mestiere e gli italiani no?». Gabriele è il più giovane dei fratelli Calderan. Quarantenne. Veneto di origine, vissuto in Sud America e negli Stati Uniti, tornato giusto in tempo per rilevare i gloriosissimi cantieri Inma dall’Itainvest, ex Gepi, la finanziaria specializzata nell’accollarsi e liquidare le aziende decotte. «Li abbiamo ribattezzati San Marco in onore di Venezia», era il 1991 e tutta la città applaudì i nuovi proprietari. Patrimonio solido. Una società di servizi marittimi in Laguna, un altro cantiere per la costruzione di piccole imbarcazioni alla foce dell’Orinoco, il fatturato globale sfiorava già allora i 25 milioni. «Trovammo 189 dipendenti e abbiamo promesso di portarli a 220. Rimane il nostro obiettivo. Ma non possiamo più mantenere un’infermiera, il cui lavoro consiste nell’aspettare che qualcuno si faccia male, quando c’ è un pronto soccorso efficientissimo a meno di due chilometri. Ci costa 30 mila euro l’anno e non ci serve. E gli impiegati, le segretarie, i centralinisti, nell’era del computer?». I romeni sono arrivati attraverso una ditta che ha ottenuto l’appalto della carpenteria e della saldatura, ma la legge italiana impone di corrispondere anche a loro il minimo sindacale: 900 euro. «Li offrirei a un italiano, se si presentasse domattina. A dieci italiani. Subito. Ma da noi certe materie non si insegnano più. La scuola diploma i disegnatori tecnici? Non sono neanche capaci di salvare le copie dei progetti modificati». Un bicchier d’acqua, giusto per tirare il fiato, negli uffici dell’Associazione industriali. Anche oggi i cantieri sono presidiati dagli operai in rivolta: «Non stiamo parlando di lavori umili che gli italiani non vogliono fare, ma di professioni onorevolissime che gli italiani non sono più capaci a fare, e però non vorrebbero che facessero neanche gli altri. Complimenti al sindacato e alla sinistra: sono gli stessi che scendono in piazza a manifestare contro il razzismo». Sostiene Gabriele Calderan che non è casuale se i nuovi artigiani arrivano in massa dall’Est europeo, Croazia e Romania soprattutto: «Loro hanno sempre privilegiato le scuole tecniche. Noi i licei, il latino e la filosofia». E’ una rivalutazione fuori tempo massimo del mo-dello sovietico, con l’uomo nuovo finalmente liberato dall’inutile peso delle sovrastrutture intellettuali. Curioso che avvenga per bocca di un industriale e proprio negli ex cantieri Inma, bastione comunista nei tormentati anni Settanta, quando ci lavoravano 400 persone e il borgo spezzino di Pagliari era soprannominato Stalingrado. «Io lo so cosa si prova a emigrare. Mio padre è scappato dalla miseria del Veneto, noi siamo cresciuti all’estero e ancora oggi abbiamo difficoltà con l’italiano. Ma qui c’è gente che non è disposta a trasferirsi da un capo all’altro della provincia!A non soffrire un minimo per un posto di lavoro che può garantire un futuro più che decoroso, dopo qualche anno gli euro sono già 1500... E io non dovrei far lavorare i romeni?». Senti i sindacati e ti raccontano un’altra storia. Fatta di accordi traditi o rinnegati, sviluppo promesso e non assicurato, l’autorizzazione a costruire due enormi capannoni, ambientalmente osceni, in una delle tante aree dello Spezzino che oscillano tra la vocazione turistica e quella industriale. «I Calderan se ne devono andare!», tuonano Cgil, Cisl e Uil. Denunciando come l’azienda abbia beneficiato di fondi pubblici per formare 27 giovani e poi ne abbia assunti solo 8 (Gabriele Calderan nega: «Sono almeno quindici, e gli altri hanno trovato lavoro altrove»)nonché utilizzato a più riprese, e in maniera piuttosto disinvolta, la cassa integrazione («Non è vero, solo un paio»). Confronti già visti. Ciò che è nuovo, nella vicenda della Spezia, è la certificazione della scomparsa di professionalità che avevano fatto la storia industriale della città, una volta orgogliosa dei suoi cantieri di demolizione. l’arrivo dall’est di svariate tipologie di lavoratori che sono più bravi, oltreché meno costosi (ma non troppo), degli italiani. Aumenteranno sempre di più: senza una scuola all’altezza, e capomastri autoctoni, saranno loro i nuovi depositari delle professionalità tecniche. Cioè i protagonisti dell’unico mercato del lavoro in espansione, secondo previsioni ragionevoli, e non solo alla Spezia. Paolo Crecchi