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 2005  dicembre 04 Domenica calendario

L’inglese è un buon cannibale. Il Sole 24 Ore 04/12/2005. "Conosci l’Inglese?". Voltato l’angolo, dietro l’edicola, mi viene incontro la pubblicità di una scuola

L’inglese è un buon cannibale. Il Sole 24 Ore 04/12/2005. "Conosci l’Inglese?". Voltato l’angolo, dietro l’edicola, mi viene incontro la pubblicità di una scuola. Per un attimo la maiuscola mi fa pensare che sia il titolo di un film. Ma sul cartellone, sopra e sotto la scritta, non c’è nessuna immagine e dunque "l’Inglese" non è un personaggio bensì la lingua di cui tutti parlano e che bisogna assolutamente imparare. Ho fatto le elementari in un’epoca in cui a queste distinzioni si faceva caso. Ma niente di male. In pubblicità la grafica val più della grammatica e la parola "Inglese", scritta così, è solo un anglicismo (da "English") corroborato dalla convinzione che le maiuscole diano importanza. L’inglese non è la lingua più parlata nel mondo, ma è la più ambita. A casa nostra ne siamo sommersi. Anche se solo dagli spizzichi e dai bocconi. In attesa di impararlo come si deve - vorrei ma non posso - l’inglese lo usiamo per impreziosire le nostre vite. Ci sono insegne di negozi (modiste, fruttivendoli) che ostentano la scritta "by Susy" o "by Giulio" e un po’ dappertutto si leggono messaggi che portano firme del tipo "by Carlo" o "by Sonia". Neanche fosse vero che all’italiano "da" corrisponda automaticamente l’inglese "by". Come dobbiamo reagire davanti a questi spropositi? Dobbiamo opporci, resistere? Oppure sorridere al modo dei britannici e degli americani di passaggio, i quali però - si badi - non sospettano nemmeno che il nostro intento non è di comunicare (Susy infatti l’inglese non lo sa) bensì di darci un tono? Ad altri l’ardua sentenza. Ricorre quest’anno il 250º anniversario della pubblicazione del famoso Dictionary of the English Language di Samuel Johnson. Un monumento di 42mila voci e 114mila citazioni che, normalizzando la grafia e fornendo un riferimento grammaticale definitivo, mise ordine in una lingua il cui uso per scopi amministrativi era ormai di vitale importanza all’interno dell’Impero. Le definizioni del dottor Johnson squadrarono il mondo da ogni lato, come dice anche il sottotitolo del recente e spiritosissimo Dr Johnson’s Dictionary: the Extraordinary Story of the Book that Defined the World di Henry Hitchings. Qualche data può servire per comprendere in che mondo vivesse e a chi si rivolgesse il "Gran Khan delle lettere inglesi", come lo aveva chiamato Tobies Smollett. Nato due anni dopo l’adozione della "Union Jack" (1707) come bandiera dei regni uniti di Inghilterra e Scozia (croce di san Giorgio e croce di sant’Andrea), Samuel Johnson (1709-84) pubblicò il suo Dictionary a ridosso dell’istituzione del British Museum (che in meno di mezzo secolo sarebbe arrivato ad avere la più grande biblioteca del mondo) e poco prima dell’annessione degli sterminati territori dell’India (1757) e del Canada (1759) alla Corona. Dalla quale, tra l’altro, "gli altri americani" non si erano ancora staccati. Si calcola che l’inglese del l’epoca di Johnson contasse tra le 250 e le 300mila parole, ed era in continua espansione. Nei due sensi. Perché fu portato ai quattro angoli del globo e perché dalle colonie riportò a casa, come strumenti in libera circolazione all’interno del Commonwealth tutte le parole che potevano servire. Lingua imperiale al pari dello spagnolo e del francese, l’inglese il problema della purezza lo affrontò sempre a suo modo. E così come le leggi, in Inghilterra, non sono scritte in un codice ma sono costituite dal corpus stesso delle sentenze precedenti (Common Law), la lingua che ha sempre fatto testo è quella della classe dirigente. Che usciva da Oxford o da Cambridge. Un’istituzione come l’Académie française o la Real academia espa ñola, che hanno sempre regolato l’uso e la circolazione delle parole anche negli altri continenti, in Inghilterra non è mai esistita. L’inglese, ciascuno lo ha sempre parlato come ha voluto. Anzi, potuto. E si è sempre di conseguenza "qualificato" dal punto di vista del ceto, della nazionalità, della razza e delle scuole in cui era passato. Fino a che non ci si è trovati davanti alla domanda: "Ma quanti inglesi ("non" Inglesi) ci sono nel mondo?". Gli inglesi, o Englishes, sono ormai millanta. E tutti difesi da avvocati d’ufficio (accademici) che, forti delle stime secondo le quali negli ultimi cinque secoli metà delle lingue conosciute sono svanite nel nulla, ne sostengono le ragioni come se, questi Englishes, non fossero già privilegiati dal fatto di essere figli "naturali" di genitori potenti (la Gran Bretagna e lo zio Sam). Alcuni di questi Englishes sono ormai adulti. Devono molto ai genitori ma ci tengono a far sapere di essersi fatti da soli. Hanno aperto biblioteche, insegnamenti e negozi di libri indipendenti. Canadesi, australiani, africani, caraibici. E non cercano più di imitare l’accento di Oxford o di Cambridge. Ci sono poi altri Englishes - come quelli che si parlano nei ghetti e nei penitenziari, come per esempio lo Spanglish dei portoricani di New York - che sono l’orgogliosa risorsa espressiva di chi è cresciuto in una condizione di frontiera parlando una lingua in casa e un’altra sulla strada. Anche lo Spanglish ha i suoi poeti (che però lo usano come seconda o terza lingua). Ma c’è chi suggerisce che sarebbe un buon segno se oltre a incoraggiare il culto di un gergo di poche centinaia di parole, chi lo parla fosse messo in condizione di esprimersi in maniera articolata attingendo all’enorme patrimonio dell’una o dell’altra lingua. Potrebbe sperare di comunicare anche con il resto del mondo. Un’ultima considerazione. Non è tutto politica, imperialismo, dominio economico e scientifico quel che c’è a monte della strapotenza e vitalità dell’inglese. C’è anche una mutazione genetica avvenuta più o meno quando si passò dal medio inglese all’inglese moderno. I tempi di Shakespeare. Questa mutazione genetica è dovuta a un’"enzima" che si chiama "conversion" ed è la possibilità di usare una parte del discorso in luogo di un’altra. Un nome al posto di un aggettivo, un avverbio in luogo di un sostantivo o di un verbo. Si pensi a "night-club", in cui "night" non è costretto a diventare "notturno", come sarebbe in italiano (in francese e in spagnolo). Questo vuole dire che quando si è trattato di assorbire una parola da un’altra lingua l’inglese non ha dovuto prima addomesticarla (come dobbiamo fare noi che un semplice "click" lo dobbiamo munire di desinenza per farlo "cliccare" e poi coniugarlo:"cliccassimo", "cliccheremmo" e così via). L’inglese è una lingua cannibale. Si mangia tutte le parole che le servono e le metabolizza senza fare una piega (grammaticale). arrivata, si dice, a un milione di voci (e con i termini scientifici a due milioni). Con quel vocabolario si è messa retoricamente in posizione di vantaggio. Luigi Sampietro Lessico e pratica Il Dictionary of the English Language (1755) di Samuel Johnson, i cui due volumi pesavano poco meno di dieci chili e costavano quanto un abito di media fattura, fu una delle "invenzioni" di utilità pratica del tempo. Nel 1746 aveva firmato un contratto con un consorzio di librai per un compenso di 1.575 sterline (circa 250mila euro di oggi) prevedendo di farcela in tre anni. Ne impiegò otto e compì, da solo, un’impresa "impossibile". Non fu quello però l’unico primato che Johnson stabilì. Il Dictionary si distingue almeno per tre ragioni. 1.Fu il primo vero dizionario analitico in inglese, e al confronto tutti gli altri appaiono come meri elenchi di parole. 2. Fu il primo a basarsi sugli esempi tratti dai maggiori scrittori, almeno 500: da Sidney a Shakespeare, da Milton a Dryden, fino all’attore David Garrick, grande amico di Johnson. 3. Il Dictionary fu il primo ad avere carattere descrittivo e non prescrittivo. L’intento di Johnson era di proporre un dizionario "ideale" che facesse piazza pulita degli "errori". Ma da uomo di buonsenso (leggi: senso pratico, all’inglese), fece la scoperta del secolo. E cioè che le lingue sono vive e in continua evoluzione. Le fatiche del lessicografo, come quelle di Sisifo, non possono avere mai fine. (L.S.)