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 2005  dicembre 12 Lunedì calendario

APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 16 FEBBRAIO 2004

La siderurgia italiana, un nano sotto i tacchi dei giganti. La Thyssen-Krupp vuol mandare a casa 900 lavoratori delle Acciaierie di Terni: il reparto magnetico non interessa più ai proprietari tedeschi che hanno deciso di emigrare altrove [1] con la scusa che la produzione del gruppo è scesa in un anno da 230 a 70 mila tonnellate («Bisogna concentrare la produzione nello stabilimento francese di Isberques e in quello tedesco di Gelsenkirken»). [2] Enrico Micheli, deputato della Margherita, ma soprattutto dirigente dell’Iri ai tempi della privatizzazione delle acciaierie, spiega che si tratta di un assurdo economico: l’Italia acquista il 60 per cento dell’acciaio magnetico prodotto in Europa, «quella di Terni è l’unica fabbrica a produrlo; ed è, fra l’altro, di altissima qualità. Rischiamo di dover comprare all’estero acciaio magnetico di qualità inferiore». [3]

Le Acciaierie di Terni, fondate nel marzo 1884, sono la prima grande impresa moderna nata in Italia, una di quelle che segnano l’inizio del processo d’industrializzazione. Renato Covino: « l’azienda che per decenni ha rappresentato un nodo strategico nella politica industriale e, infine, uno dei luoghi dove si sono misurati i fasti e le miserie dell’industria pubblica e delle privatizzazioni». [4]

I tedeschi rilevarono l’Ilva Acciai Speciali di Terni dall’Iri, nel 1994, in cordata con un gruppo di imprenditori italiani. Un anno dopo misero le mani sull’intera azienda. Livadiotti: «Nel frattempo, e fino a oggi, hanno beneficiato di un vecchio accordo che consente alla Terni di acquistare energia elettrica dall’Enel con un forte sconto, che solo dal 2001 ha subito una riduzione e che resta comunque in vigore fino al 2007». [5]

Quello dei posti di lavoro è un problema di qualità, più che di quantità. Raffaelli: «Spendiamo mezzo bilancio per collegare l’Umbria al porto di Civitavecchia, dieci corsi universitari su tredici sono legati allo sviluppo industriale e questi della Thyssen-Krupp - che in dieci anni hanno guadagnato 2.000 miliardi e ne hanno reinvestiti 1.000 - ci vengono a dire: grazie di tutto, andiamo via». [6]

L’azienda ha già conosciuto licenziamenti di massa. Covino: «I primi sono quelli del 1952-1953, quando furono licenziati in 2 tornate 2.700 lavoratori. Fu l’effetto del piano Sinigaglia, della scelta della siderurgia a ciclo integrale, che penalizzava un impianto che funzionava utilizzando rottame». [4] Fin dall’inizio, sarebbe stato più conveniente continuare ad acquistare l’acciaio all’estero, anziché fabbricarlo in Italia a costi che la mancanza di carbone e l’impreparazione della manodopera rendevano molto più elevati. Valerio Castronovo: «Ma occorreva emanciparsi dalla dipendenza verso i principali Paesi europei per la fornitura di cannoni e altre armi; e si riteneva che la formazione di una forte industria di base a livello nazionale [...] avrebbe agevolato la crescita del settore meccanico». [7]

L’ingegner Oscar Sinigaglia, presidente dell’Ilva negli anni 30, poi della neo-costituita Finsider, prevedeva che lo sviluppo delle industrie meccaniche avrebbe richiesto grandi quantità di acciaio. L’imprenditore Giovanni Falck sosteneva nello stesso periodo che la siderurgia in Italia non aveva futuro e avrebbe dovuto esser mantenuta su un piano modesto. Gallino: «Il governo diede retta al suo dirigente piuttosto che all’imprenditore, e approvò il piano Sinigaglia per lo sviluppo dell’industria siderurgica. Esso portò in pochi anni alla ristrutturazione degli impianti di Bagnoli e Piombino, alla costruzione di un grande centro siderurgico a Genova Cornigliano» e al progetto di costruire uno di eguali dimensioni nel Sud. [8]
Negli anni 70 la siderurgia pubblica dava occupazione a oltre 100mila persone. Gallino: «In ogni automobile prodotta in Italia da un’impresa privata, in ogni lavatrice e frigorifero, c’erano larghi pezzi di pubblica lamiera d’acciaio. Il successo della siderurgia pubblica italiana si dissolse con gli anni 80, a causa di una serie di fattori negativi. Tutte le imprese siderurgiche della Comunità europea avevano costruito troppi impianti di grandi dimensioni; quindi si ritrovarono di colpo con un enorme eccesso di capacità produttiva», complice anche un rallentamento dell’economia. [8]

Le industrie cominciarono a chiedere acciai di qualità, che la Finsider produceva in misura insufficiente. Gallino: «A metà degli anni 80 essa fu dunque costretta a ridurre di circa un quarto la propria capacità produttiva, e ad una riduzione ancora maggiore dell’occupazione. [...] Si stima che tra il 1980 e i primi anni 90 la siderurgia pubblica abbia perso per tali vie circa 30mila miliardi di lire». [8]

La crisi attuale è diversa da quella degli anni 80. Covino: «Dipende solo in parte da difficoltà di mercato, è il frutto di scelte che solo la disattenzione nei confronti dell’industria e della politica industriale nel nostro Paese può far paragonare alle crisi del passato. Ciò emerge con particolare nettezza a Terni. Qui la vera svolta s’è realizzata nell’88, quando la Finsider decise di orientare la produzione verso gli acciai commerciali speciali». [9]

Il successivo passaggio fu la privatizzazione della siderurgia italiana. Nel maggio 1994 la Terni fu ceduta per 621 miliardi di lire a un raggruppamento formato dalla Krupp e da tre italiani: i gruppi Riva, Agarini e Falck. Mucchetti: «La presenza paritetica di investitori nazionali dovrebbe assicurare i diritti della bandiera. Ma nel dicembre ’95, Riva e Falck vendono ai tedeschi guadagnando il primo 110 miliardi di lire, il secondo 42. Si scopre che i garanti erano lì per lucrare, novelli Ghino di Tacco, un diritto di passaggio e non perché avessero un qualche obiettivo imprenditoriale». [10] Emilio Riva, proprietario dell’Ilva e fondatore della Riva Acciai (ricavi per 4.912 milioni): «Avevamo un patto alla genovese, come lo chiamava il mio professore di ragioneria. Come compro, vendo: ho fatto il prezzo, loro hanno preferito acquistare che vendere». [1]

Per lo Stato sarebbe stato meglio vendere tutto e subito a Krupp guadagnando 260 miliardi in più. Mucchetti: «Oppure lo Stato avrebbe dovuto inserire nel contratto una clausola inderogabile di lock up per impedire simili fughe speculative. Chi se ne dimenticò? La trattativa venne avviata dal governo Ciampi e perfezionata dal governo Berlusconi. Il consiglio dell’Iri, il soggetto venditore, era presieduto da un Prodi ormai in uscita [...] Insomma, fu una disattenzione bipartisan, e forse obbligata per l’urgenza di disfarsi della siderurgia pubblica, dopo l’accordo Andreatta-Van Miert». [10]

Le preoccupazioni non riguardano solo Terni. A Taranto 6 mila dipendenti dell’Ilva rischiano la cassa integrazione. Luca Piana: «Anche se l’industria dell’acciaio si è messa a tirare come non accadeva da tempo, l’Italia si è fatta trovare impreparata. Manca il coke, il carbone combustibile per gli altoforni che non arriva più dalla Cina e che nei nostri impianti si produce sempre meno». Riva: «Ho autonomia fino alla fine di maggio, poi fermerò metà stabilimento». [1] All’Ilva di Cornigliano (Genova) la fermata della produzione è prevista per il 17 febbraio, ma qui la vicenda s’intreccia con l’annosa trattativa sul superamento della siderurgia a caldo. Nadia Campini: «Dal ’96 si tratta la chiusura dell’altoforno, destinato ad essere sostituito da attività legate al porto e da industrie pulite, mentre è previsto il mantenimento di laminatoi e impianti a freddo» (che occuperebbero 2.100 lavoratori su 2.700). [11]

In Cina la produzione d’acciaio è esplosa e il governo ha tagliato le esportazioni di coke del 70 per cento. Riva: «Gli serve, non lo vendono più. Così siamo rimasti a secco, nonostante avessimo contratti firmati per tutto il 2004. [...] Ho minacciato i fornitori di fare causa. Mi hanno risposto: ”Si accomodi, la faccia allo Stato cinese”. Così su 3 navi me ne arriva una. L’ultimo carico l’ho comprato a 340 dollari alla tonnellata, mentre prima arrivava a 90». [1]

Il coke si trova in Giappone, Australia, Polonia, Russia. Riva: «Ma l’acciaio tira ovunque. Chi ne ha, non lo vende». E i clienti che fanno? «Mi diffidano, dicono che non voglio dare loro la roba, mi chiedono di fare io il prezzo. Non posso: 100, 200, 300 euro non importa, se non ho il prodotto in casa non faccio gli ordini. [...] Rischiano di fermarsi molte aziende». [1]

La Cina è la più grande divoratrice di acciaio che si sia mai vista. Danilo Taino: «Si calcola che nel 2003 abbia consumato 260 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, un quarto del mercato mondiale. Ne ha però prodotte ”solo” 220 milioni (è di gran lunga la prima produttrice: il doppio del Giappone, una volta e un quarto gli Usa). I 40 milioni di tonnellate mancanti li ha quindi dovuti importare e, così facendo, ha fatto esplodere il prezzo dell’acciaio, mai stato così alto». [12] L’effetto Cina potrebbe durare a lungo. A Pechino dicono di voler raddoppiare la produzione in 5 anni. Giuseppe Pasini, presidente di Federacciai: «Forse l’obiettivo lo raggiungerà in un periodo più lungo, ma non c’è dubbio che la Cina diventerà un esportatore siderurgico». [13]

Lo spostamento della manifattura mondiale verso l’Asia ha spostato lì anche il baricentro dell’acciaio. Taino: «La Cina sta ristrutturando le imprese statali nel settore, di cui la Baosteel è la più brillante, con controllate quotate in Borsa, numero tre nella classifica delle migliori aziende del settore compilata dalla Wsd e in joint-venture con l’europea Arcelor e la giapponese Nippon Steel, oltre che con la Thyssen-Krupp. E le imprese indiane sono letteralmente all’assalto del mercato: la Lnm, controllata da Lakshmi Mittal (amico di Tony Blair), ha effettuato il mese scorso un’acquisizione che dovrebbe farla diventare il primo gruppo mondiale del settore. [...] Nei prossimi anni si creeranno alcuni Golia da 80-120 milioni di tonnellate. Nel gruppo ci saranno certamente franco-spagnoli, indiani, cinesi, giapponesi. Forse i coreani e gli americani». [13]

E gli italiani? Gallino: «L’Italia è il secondo produttore di acciaio nella Ue. [...] La produttività delle acciaierie privatizzate [...] è altissima. Tuttavia, se si guardano un po’ più da vicino diversi parametri, la situazione appare assai meno rosea. Per intanto la siderurgia italiana non copre nemmeno la domanda interna. Il milione e passa di auto che sono costruite ogni anno nel paese, insieme con i venti milioni di elettrodomestici [...] e altri prodotti, consumano 32 milioni di tonnellate di acciaio l’anno. La siderurgia nazionale ne fabbrica soltanto 26. Non solo. I sei milioni di tonnellate di acciaio che bisogna importare sono costituiti proprio dai tipi più pregiati [...]». [8]

Il numero dei siti dove si produce acciaio è troppo alto. Gallino: «Una loro concentrazione appare necessaria, ma essa comporterà l’abbandono di altre comunità al loro destino, e un ulteriore calo dell’occupazione». [8] Il problema è che l’Italia non ha deciso cosa vuole. Brian Beeden: «Non ha puntato a creare i ”campioni nazionali” come ha fatto la Francia, cioè non ha avuto una politica industriale centrale, diretta dallo Stato. Ma non ha nemmeno avuto una politica di completa liberalizzazione». [12] In verità da noi le acciaierie le vogliono in pochi. Riva: «A Taranto i politici vorrebbero coltivare le cozze e mettere gli ombrelloni sui pontili dell’Ilva. Mi devono dire come daranno lavoro a 15 mila persone». [1]

Il problema è di carattere generale. Luciano Caglioti: «Le restrizioni ambientali, il costo del lavoro, il welfare, richiedono un sistema industriale ad alto contenuto tecnologico, che produca oggetti o materiali nei quali il costo della materia prima sia largamente inferiore a quello del prodotto finito. Il che significa ricerca scientifica e tecnologica, organizzazione burocratica snella, formazione di esperti ad alto livello, senso della collettività». [14]

L’Italia combatte su due fronti. Caglioti: «Da un lato, la quota di mercato dei prodotti a bassa tecnologia che riusciamo a conquistare viene erosa dai Paesi emergenti, come potrebbe accadere per il caso sotto esame oggi. Dall’altro, la quota di mercato di prodotti hi-tech che conquistiamo viene erosa dai concorrenti statunitensi, europei, giapponesi e, in prospettiva, da Cina e India e da altri Paesi asiatici. Può apparire paradossale, ma potrebbe essere inevitabile e forse opportuno uno sforzo pubblico paragonabile a quello effettuato a suo tempo dalle partecipazioni statali [...]». [14]

La politica industriale italiana soffre di un pregiudizio ideologico. Gallino: «Quello della privatizzazione a tutti i costi. Per fare cassa abbiamo venduto agli stranieri i gioielli dell’industria nazionale, abbiamo spezzettato aziende centenarie come l’Ansaldo. Ora non è strano che per difendere la loro industria nazionale gli stranieri chiudano i nostri gioielli. La conseguenza non è solo quella della perdita oggi di posti di lavoro. Ma è nella distruzione di un patrimonio di conoscenze che s’è formato nel corso di due generazioni». [15]

Il caso Terni mostra la sorte che può toccare ad attività produttive, anche economicamente e tecnologicamente valide, quando siano di una proprietà straniera che, per motivi geopolitici, ritenga di ridistribuire i propri insediamenti. Recanatesi: «Il caso è già rilevante per le implicazioni economiche e sociali che può determinare, ma è poca cosa se la si paragona a ciò che avverrebbe qualora una proprietà straniera usasse al servizio delle proprie strategie ”globali” una grande banca della quale avesse potuto conquistare il controllo». [16]

Le banche italiane sono assai appetibili. Uno dei punti salienti del disegno di legge governativo sulla tutela del risparmio è proprio la competenza sulle autorizzazioni all’assunzione da parte di chicchessia di partecipazioni nelle banche che eccedano il 5 per cento. La Banca d’Italia, che ha l’esclusiva competenza in materia, finora ha usato questo potere per dosare la presenza delle banche straniere in quelle italiane che, essendo troppo piccole, potrebbero essere facilmente fagocitate se il mercato venisse liberalizzato. Il rischio che corrono i politici, spiega Recanatesi, è quello di ritovarsi in pochi anni «a sfilare contro decisioni strategiche prese nei quartier generali di altri Paese. Come a Terni, appunto». [16]

L’Italia è un paese in vendita, in gran parte già venduto. Gramellini: «Gli stranieri fanno shopping non più soltanto di quadri e maglioni, ma di palazzi e aziende, surclassando una classe dirigente così occupata a disputarsi le briciole da non trovare neanche il tempo di piangere sul latte versato». [17]