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 2005  dicembre 12 Lunedì calendario

DONDERO

DONDERO Mario Milano 6 maggio 1928. Fotografo • «[...] uno dei più bravi fotografi italiani del dopoguerra, uno dei fondatori del fotogiornalismo; di più: è un maestro. Il suo modo di fotografare non assomiglia a quello di nessun altro. Possiede uno sguardo unico, caldo e umano, colto e intelligente. Ogni suo scatto è un momento di vita sensibile. Sia nel ritratto di Pasolini, insieme alla madre nella sua casa borghese a Roma, sia nel reportage di guerra o nella foto in un ospedale afgano di un uomo colpito da una mina, le immagini di Dondero possiedono qualcosa di assoluto, di assolutamente relativo. Il filosofo Giorgio Agamben ha parlato di immagini che contengono un inconfondibile gesto storico, un indice cronologico, e al tempo stesso rimandano a qualcosa d’altro, ”più attuale e più urgente di qualsiasi tempo cronologico”. Forse Agamben allude alla particolare umanità di Dondero. Ha una faccia da chansonnier francese, ricorda Yves Montand; la sua voce è pastosa e suadente. Quando inizia a raccontare, incanta: staresti delle settimane ad ascoltarlo. Al bar Jamaica si davano appuntamento subito dopo la guerra artisti, fotografi, scrittori, giornalisti, da Piero Manzoni a Camilla Cederna. Mario e il suo ”allievo” Ugo Mulas sono due personaggi veri della Vita agra di Luciano Bianciardi, bohemien, fotografi e cronisti di nera, che è poi il primo mestiere di Dondero. ”Subito dopo essere stato tra i partigiani, nella Brigata Cesare Battisti, avevo sedici anni, sono tornato a Milano, la mia città. Volevo fare il giornalista e collaboravo a L’Avanti! e all’Unità, poi sono entrato a Milano sera come cronista di nera. Avevo capito che per fare quel mestiere bisognava saper fotografare. Allora sono andato in una agenzia fotografica e ho provato a imparare i rudimenti del mestiere. Filippo Gaia me li ha insegnati, ma la mia università è stata [...] al Jamaica. [...] Giuseppe Trevisani, grafico che aveva lavorato con Vittorini, al Politecnico, e che poi disegnerà la gabbia de il Manifesto, mi aveva proposto di entrare a Le Ore, una rivista di fotogiornalismo. Questo fu il mio passaggio: raccontare con la macchina fotografica e non più con le parole. Il primo servizio lo realizzai durante la rivolta al manicomio criminale di Reggio Emilia. Grazie alla mia esperienza di nera riuscii a introdurmi nell’edificio; avevo imparato a superare la mia timidezza”. Dondero sa parlare a tutti con il tono giusto; sia che si tratti di un famoso intellettuale o che conversi con il cameriere, che si rivolga a un presidente della repubblica o che approcci il giornalaio, fa sentire tutti a loro agio: si capisce che è davvero interessato a te, che per lui tu sei una persona. [...] ha collaborato alle principali testate giornalistiche italiane e straniere, da Epoca a Le Monde, dall’Illustrazione italiana a Le Nouvel Observateur. Ma il suo stile è sempre lo stesso. Per riassumerlo, in una intervista a Massimo Raffaeli, in uno dei rari libri fotografici di Dondero (non ha mai avuto una monografia, la fugge accuratamente), ha detto: ”Deve sempre rimaner chiaro che per me fotografare non è mai stato l’interesse principale, ancora oggi non mi reputo un fotografo tout court. A me le foto interessano come collante delle relazioni umane, o come testimonianza delle situazioni. Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono” (Scatti per Pasolini, con un testo di F. De Melis, 5 Continents, 2005). Come lo definirebbe il suo stile fotografico? ”Semplice. Il mio è il modo più lineare di guardare: senza artificio. Cerco di realizzare delle immagini che restituiscono una visione profonda della realtà. Un eccesso di eleganza rischia di stravolgere tutto. L’estetica è suadente. Per questo oggi la fotografia corre un grave rischio, tende a diventare artistica. [...] La fotografia è un’attività che ti conduce a un rapporto ravvicinato con gli altri. Ha a che fare con la sfera intima, ti introduce nell’intimità di chi fotografi. Quando hai in mano una macchina fotografica sai se violi, o no, l’intimità dell’altro, capisci bene se stai per commettere una cattiveria”. Si considera un fotografo politico? ”Sì, direi proprio di sì; sono uno che propone degli elementi di riflessione attraverso le immagini, ma devono essere immagini inconfutabili. Ho lavorato in questo modo per L’Espresso, per il Venerdì di Repubblica [...] per Diario”. Alla fine del 1954, per ragioni sentimentali e famigliari, Dondero si è trasferito a Parigi e ci è rimasto per trent’anni; è stata la sua base per gli spostamenti. ”Ho sempre avuto un’enorme curiosità per la fotografia in bianco e nero della scuola francese”. E gli americani, Life, per esempio? ”Non è mai stata un mio modello, troppo levigata, troppo controllata. Mi interessava la sobrietà feroce della fotografia europea, tedesca, spagnola, ma anche l’ironia dei fotografi africani, così pieni di poesia”. Non ha mai avuto la patente, eppure si è sempre spostato ovunque. [...] ”[...] mi piaceva la fotografia detta ’stradale’ del Mondo, foto fatte per strada. I fotografi devono andare lenti, se passi in automobile, non vedi niente”. Negli anni Sessanta Dondero è stato a Roma. ”Ero venuto per un reportage con Corrado Stajano per Tempo illustrato e ho incontrato Vittorio Bonicelli che mi ha assunto nella rivista che stava per editare De Laurentis”. Come si definirebbe? ”Sono stato tutta la vita un franco tiratore. Non ho voluto lavorare per le agenzie, ma solo per i giornali per cui sentivo una sintonia, anche per Famiglia cristiana. Il mestiere di fotografo è un mestiere da trappista e insieme da vagabondo, un vagabondo solitario: si è fragili come cocci in mezzo a vasi di ferro, ma è esaltante perché dà dei risultati dirompenti. Ad esempio, la foto che ho fatto a Panagulis durante il suo processo, in Grecia, all’epoca della dittatura militare. Un fotografo è sempre gli incontri che fa” [...] Dondero ha fatto la storia della fotografia contemporanea in Italia; il suo lavoro ricorda quello di Robert Capa, tuttavia Mario Dondero ha qualcosa di più, o almeno di diverso: è un intellettuale, è colto, e soprattutto conosce il segreto di fare poesia con le immagini [...] Parla di sé con modestia, ma sempre con l’orgoglio del mestiere [...]» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 12/12/2005).