Note: [1] Giampiero Guadagni, Avvenire 28/9, Gabriele Polo, il manifesto 27/9; [2] Giampiero Guadagni, Avvenire 28/9; [3] Enrico Marro, Corriere della Sera 21/7; [4] Enrico Marro, Corriere della Sera 7/12; [5] Pietro Ichino, Corriere della Sera 14/11; [6], 10 dicembre 2005
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 12 DICEMBRE 2005. I
metalmeccanici italiani sono un milione e 600mila. Le imprese che li impiegano sono 60 mila, che fa una media di 27 addetti. A loro si deve il 36% della produzione industriale e il 9% del pil. [1] Giampiero Guadagni: «Sempre meno tute blu, sempre più colletti bianchi. Sempre meno ultrasessantenni, sempre più giovani: la metà non supera i 35 anni. Molti di loro sono diplomati, per la quasi totalità il percorso di lavoro inizia con un contratto a termine e il posto fisso è una difficile conquista». I minimi salariali vanno dai 995,60 euro mensili di un operaio di prima categoria ai 1.595,89 degli impiegati e quadri di settima categoria. [2] Massimo Calearo, presidente di Federmeccanica: «Siamo in una situazione dove se diamo 100 al lavoratore, alle imprese costa 193. Contemporaneamente i nostri dipendenti fanno fatica ad arrivare alla fine del mese». [3]
Da domani imprese e sindacati riprendono la trattativa per il rinnovo del contratto, scaduto a fine 2004. Roberto Santarelli, direttore generale di Federmeccanica: «O si chiude in 10-15 giorni o entreremo in una nuova fase in cui sarà difficile prevedere esiti e conseguenze». [4] Sono più di sei anni che il contratto collettivo nazionale non viene rinnovato unitariamente: nel 2001 e nel 2003 Cisl e Uil hanno firmato senza la Cgil, nonostante questa abbia la maggioranza assoluta degli iscritti nel settore. Ora i tre sindacati hanno ritrovato l’unità d’azione ma il rinnovo biennale è di nuovo incagliato. Pietro Ichino: «Ce n’è abbastanza per parlare di un sistema di relazioni industriali bloccato; ma sembra che a nessuno interessi individuare le cause di questa paralisi, per tentare di rimuoverle: né ai dirigenti delle tre confederazioni sindacali maggiori né a quelli della Confindustria». [5]
I problemi principali sono due: aumenti salariali e flessibilità. I sindacati hanno chiesto un aumento medio mensile a regime di 130 euro (25 dei quali solo per i lavoratori che non fanno contrattazione aziendale), gli industriali ne offrono 70 e avvertono che andranno oltre solo in cambio di maggiore flessibilità: vogliono utilizzare liberamente le 64 ore già previste dal contratto del 1999 per l’orario plurisettimanale senza dover negoziare con le Rsu. Per capirsi, gli industriali vorrebbero poter ordinare otto settimane a 48 ore (con il sabato lavorativo) e altre otto a 32 (lavorando quattro giorni). Se adesso lo straordinario del sabato viene retribuito il 50% in più, la maggiorazione si ridurrebbe al 15% dato che i sabati comandati verrebbero «recuperati» con le settimane corte. [6] Luigi Angeletti, segretario generale della Uil: «Il problema non è la flessibilità, ma che Confindustria e Federmeccanica vogliono risparmiare soldi: cioè far lavorare al sabato come se fosse un venerdì». [7] Calearo «O si permette alle aziende di lavorare il sabato ogni volta che è necessario, senza dover ricorrere alle solite liturgie sindacali per cui l’ok arriva quando ormai le commesse se ne sono andate, oppure noi il contratto nazionale di lavoro non lo facciamo». [8]
Oggi il modello italiano è una via di mezzo tra quello francese e quello tedesco. Comunque assai distante da quello inglese. Luciano Costantini: «In Francia il fatto saliente degli ultimi anni è stata l’introduzione della legge sulle ”35 ore”, peraltro ora in via di estinzione. stato un atto di governo a conferma che il mercato del lavoro è regolato, per legge, da una forte normativa a livello centrale (ferie, festività, orario di base), mentre a livello aziendale vengono definiti salario integrativo, flessibilità e anche la riduzione di orario, in deroga alle ”35 ore”. Il primato spetta al legislatore più che alle parti sociali. Tanto è vero che il tasso di sindacalizzazione è bassissimo, arriva appena al 12%, mentre in Italia si aggira attorno al 38%. In Francia però è elevatissimo il livello delle garanzie sociali: per esempio, in termini di reinserimento per il dipendente che perde il lavoro». [9]
In Germania la contrattazione viene definita per settore e per land: le regole valgono per tutti i lavoratori della stessa categoria e della stessa regione. Costantini: «Ma successivamente è stata introdotta una ”clausola di uscita” che permette ad ogni land di disdettare il pacchetto normativo di riferimento. Negli ultimi tempi, conseguenza anche della crisi economica, si è fatto strada il ”modello Siemens”. I sindacati, per evitare tagli agli organici e la delocalizzazione in Ungheria di alcuni stabilimenti che producono cellulari, hanno accettato di tornare dalle 35 alle 40 ore di lavoro settimanali a parità di retribuzione, trasformando allo stesso tempo elementi fissi della retribuzione (per esempio le quattordicesime) in elementi variabili, legati al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Questo scambio ha prodotto un incremento del 10% della produttività». [9]
In Inghilterra il mercato del lavoro è quasi completamente liberalizzato. Costantini: «La contrattazione avviene in azienda, spesso tra l’azienda stessa e il lavoratore che può accettare turni di lavoro e retribuzione concordati e personalizzati, a prescindere dalla normativa sindacale. Il sindacato è di ”mestiere”, nel senso che, all’interno di un’impresa, la rappresentanza dei lavoratori tratta, per esempio, delle norme sul trasporto o sulla sicurezza o sull’approvvigionamento di energia. Mestieri, insomma. Comunque la tutela sindacale è assai labile e i contratti assai diversi tra di loro. Il governo Blair sarebbe addirittura intenzionato a far passare una direttiva con una clausola precisa: il lavoratore può anche decidere di stabilire di non attenersi ad una norma, fissata dal sindacato, qualora la ritenesse personalmente deleteria». [9]
In Italia la contrattazione nel mercato del lavoro è regolata dallo storico accordo del 23 luglio ’93, raggiunto dopo due anni di trattative tra Confindustria e sindacati col contributo determinante di Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente del Consiglio. I punti principali erano l’abolizione della scala mobile, i contratti di formazione, il via libera al lavoro interinale, l’adeguamento biennale dei minimi salariali al tasso d’inflazione. [10] Alfredo Recanatesi: «Quegli accordi prevedevano due livelli, uno nazionale attraverso il quale doveva essere realizzato quel cardine della stabilizzazione monetaria e finanziaria che era la politica dei redditi, ed uno aziendale attraverso il quale i lavoratori avrebbero potuto partecipare alla ripartizione del frutto di eventuali guadagni di produttività». [11]
Secondo un’opinione diffusa quegli accordi sono superati. Recanatesi: «Intanto perché non c’è più una esigenza di abbattere l’inflazione attraverso la programmazione di un tasso al quale vincolare gli incrementi salariali; inoltre, perché la sostanziale assenza di inflazione ha ristretto il terreno dal quale poter ricavare un incremento salariale nazionale lasciando uno spazio anche per la contrattazione aziendale; infine, perché le condizioni dell’economia produttiva si sono fortemente differenziate con settori che reggono, altri che arrancano, altri ancora in piena crisi per cui non ci sarebbero più le condizioni di una politica salariale unica». [11] Cisl e Uil sono disponibili a rivedere gli accordi del ’93, la Cgil, a cominciare dal segretario generale Guglielmo Epifani, no. [12] Giorgio Cremaschi, leader della sinistra Fiom: «La Cgil deve rifiutare la trattativa. vero, il modello del ’93 non va bene, ma non se ne deve fare un altro». [13]
Che senso ha una dimensione nazionale in tempi di globalizzazione? Gianni Rinaldini, segretario della Fiom: «Per noi l’orizzonte nazionale è un patrimonio di partenza verso una dimensione perlomeno europea di un contratto dell’intera industria, anche se tutti i sindacati europei su questo sono terribilmente indietro. Ma l’alternativa è l’aziendalizzazione o la frantumazione territoriale che rendono la rappresentanza sociale subalterna alle logiche di impresa, alla guerra tra ”comunità produttive”, mentre il capitale preme localmente sulle condizioni di lavoro e si muove globalmente sul piano finanziario e produttivo». [14] Ichino: «Epifani pensa davvero che metà dell’economia del nostro Mezzogiorno resti sommersa solo per la malvagità degli imprenditori e che basterebbe stanare quelle imprese clandestine con ispettori e polizia perché esse incominciassero a operare in modo regolare, applicando gli standard fissati dai contratti nazionali? Se non lo pensa, ritiene forse opportuno che ispettori e polizia intervengano a chiudere quelle aziende, mandando a casa molte centinaia di migliaia di lavoratori irregolari? Se non pensa neanche questo, perché continua a opporsi a una differenziazione regionale degli standard collettivi?». [15]
Secondo molti sarebbe preferibile una contrattazione nazionale limitata. [11]
Calearo: «Dovrebbe contenere solo dei paletti minimi, una cintura di sicurezza valida da Enna a Bolzano per lasciare poi al contratto aziendale, dove c’è, la trattativa legata alla redditività riscontrata in loco [...] Anche in Federmeccanica ci sono aziende che vanno bene e altre che vanno male, ma noi dobbiamo fare un contratto nazionale minimo che consenta alle aziende in difficoltà di uscire dal tunnel. Mentre le imprese che vanno meglio distribuiranno quello che possono a casa loro». [3] Ichino: «L’aumento di 130 euro mensili chiesto dai sindacati si aggiunge a un costo del lavoro standard sostenibile al Centro-Nord, ma non al Sud; nel Mezzogiorno, d’altra parte, il costo della vita è più basso e moltissimi lavoratori irregolari o disoccupati sarebbero ben disposti a un trattamento anche inferiore pur di avere un’occupazione regolare». [5]
La questione è come il sistema produttivo intende sostenere il confronto competitivo su mercati globalizzati. Recanatesi: «Le possibilità sono due: la competitività si recupera o attraverso una riduzione delle differenze operative che ci sono con i Paesi concorrenti, oppure sottraendosi alla loro concorrenza con produzioni specializzate che quelli non possano attaccare. Nel primo caso, che si determinerebbe depotenziando la contrattazione nazionale per consentire ai settori in crisi di poter resistere abbassando retribuzioni e tutele, la competizione con i Paesi emergenti verrebbe affrontata avvicinando i costi di produzione (e con essi i redditi, il benessere, le tutele) a quelli, assai più bassi, di quei Paesi. Nel secondo, invece, l’asticella della redditività verrebbe tenuta volutamente alta per indurre una pur travagliata riconversione del sistema produttivo su produzioni specialistiche in grado di finanziare standard di benessere e di tutele elevati». [11]
In genere le aziende italiane non sono state finora sufficientemente capaci di innovazione (riqualificazione del prodotto, possibilità di collocarlo sul mercato internazionale vendendo qualcosa che altri non sono capaci di produrre ecc.). Guadagni: «Il risultato è sotto gli occhi di tutti: 1.340 aziende metalmeccaniche in stato di crisi (caso emblematico quello della Fiat, tuttavia in lenta ripresa), con 187 mila lavoratori interessati dalla cassa integrazione. Negli ultimi quattro anni si è registrata una perdita di produzione del 10% (e ciononostante il settore metalmeccanico resta il principale comparto dell’industria, realizzandone oltre il 40% del valore aggiunto). Nello stesso periodo si sono persi per strada 134 mila posti di lavoro». [2]
I 120 mila lavoratori delle telecomunicazioni hanno sottoscritto un contratto nazionale (da sottoporre ora alle assemblee) che prevede importanti elementi di flessibilità negli orari, nell’organizzazione del lavoro e nelle tipologie di assunzione. Per l’Asstel, che federa le imprese del settore, ha guidato le trattative il presidente Pietro Guindani, «ad» di Vodafone Italia: «Nelle telecomunicazioni si lavora 24 ore al giorno per 365 giorni all’anno, inoltre le esigenze cambiano in quantità e in qualità di ora in ora, perché la richiesta dei servizi è diversa negli orari lavorativi e in quelli serali come pure in occasione di campagne promozionali e di offerte di nuovi servizi. Quindi la flessibilità è necessaria affinché la domanda del mercato trovi corrispondenza nel numero di persone presenti e nel tipo di prestazione che possono offrire». Questo vale solo per le Tlc? «Molti altri settori hanno esigenze produttive basate su turni che vanno al di là del classico orario ”dalle 9 alle 5”. E anche in comparti molto diversi l’andamento della domanda è assai mutevole, per cui tutte le modalità del contratto Tlc che consentono all’impresa di variare l’utilizzo della forza-lavoro in funzione del mercato sono utilmente replicabili. Faccio notare che questo contratto sarà firmato anche da Confindustria e dunque credo che le imprese degli altri settori lo esamineranno e valuteranno se estenderne le disposizioni ad altri contratti». Più flessibilità non rischia di pesare sui lavoratori? «La flessibilità crea valore ed è questo che ci ha permesso di trasferire alle buste paga un importo maggiore di quello che sarebbe risultato dagli accordi del 1993. I sindacati hanno capito che si crea valore e occupazione se si sostiene la produttività». [16]
La classe dirigente deve cominciare a discutere. Alberto Bombassei, vicepresidente di Confindustria per le relazioni sindacali: «Quello che io imputo, soprattutto, alla Cgil è la non volontà di riaprire un dialogo». [17] Rinaldini: «Sono convinto che quando Bombassei ci propone un patto ha già come interlocutore un governo diverso, non è Berlusconi il suo referente». [18] Ichino: «Molti segni convergono nell’indicare che, in realtà, la Cgil è decisa a impedire qualsiasi accordo all’interno di questo quadro politico, rinviando ogni discorso a quando ci sarà un governo di centro sinistra; è così? A quest’ultima domanda molti dirigenti della Cgil, anche di alto livello, rispondono apertamente: è così. Ciò significa che sta prevalendo nella Cgil la scelta, sostenuta dalla sua ala sinistra, nel senso di fare della stessa confederazione un soggetto politico ”di classe”, una sorta di ”partito del lavoro”, appartenente a tutti gli effetti allo schieramento di centro sinistra e destinato anche a influenzarne gli equilibri interni». [15]