9 dicembre 2005
Carollova Renata, di anni 48, bionda, molto bella, altrettanto gentile. Ex cameriera, fuggita dalla Cecoslovacchia vent’anni fa, viveva nel vicentino e sorrideva raggiante sul sito internet della sua azienda di prodotti di antifortunistica
Carollova Renata, di anni 48, bionda, molto bella, altrettanto gentile. Ex cameriera, fuggita dalla Cecoslovacchia vent’anni fa, viveva nel vicentino e sorrideva raggiante sul sito internet della sua azienda di prodotti di antifortunistica. Un anno fa s’era presentato per lavorare alle sue dipendenze Portoghese Giovanni, di anni 52. Ne era rimasta folgorata, se l’era preso in casa, dopo un po’ l’aveva scaricato. All’1 di mercoledì, senza preavviso, se lo ritrovò in salotto che sbraitava. Provò invano a calmarlo e, quando lui scese in cantina, colse l’occasione per chiudercelo dentro. In pochi minuti, però, il Portoghese fece saltare la serratura, con una pistola sbucata da chissà dove. Tornato in soggiorno, le sparò due volte nelle viscere. S’infilò poi nella camera del figlio, Zaspal Mario, di anni 25, e fece fuori pure lui. L’altra figlia della donna, Eva, di anni 29, si calò svelta dalla finestra e fuggì in campagna. Non avendo più nulla da fare, il Portoghese se ne tornò nella sua casa, a Rettorgole di Caldogno. Sparse intorno a sé dodici lettere di motivazioni e si sparò in bocca, cadendo cadavere accanto al proprio passaporto. In una porzione delle villette a schiera di Molina di Maio, provincia di Vicenza. Celestre Pietro, di anni 32, operaio stagionale della forestale, altrimenti venditore ambulante, violento e incline alla rissa, ammorbò l’esistenza della moglie Leto Saveria, di anni 29, casalinga, finché lei, stufa, lo fece secco nel garage, con due proiettili alla schiena. In casa, i tre figli di 10, 5 e 3 anni. A Borgetto, una ventina di chilometri da Palermo. Frioni Lucia, di anni 34. Mezza sbandata, era in cura dallo psichiatra e viveva sola, a Roma, coi soldi che le passavano i genitori, residenti a Frosinone. A settembre s’era presa in casa Crai Eugene, romeno, arrivato in Italia da irregolare un mese prima. L’ultimo dell’anno costui la prese a calci e pugni, poi se ne andò a festeggiare con gli amici. Quando tornò, la trovò semincosciente sul letto. Il giorno dopo si decise a farla portare all’ospedale, dove lei morì, per un’emorragia interna, all’alba di sabato 3. Terrone Adriano, di anni 32. Nato in Germania da genitori pugliesi, da tempo era tornato in Italia e s’era messo a fare la guardia giurata. Sposato da quattro mesi, neo assunto alla ”Vegapol” di Bari, non voleva far mai il turno di notte. L’altra sera, per sbaglio, gli toccò. Intorno all’una arrivò al cantiere edile dell’Aries, alla periferia di Canosa. Al primo giro non registrò nulla di strano. Al secondo, intorno alle tre, trovò il cancello socchiuso e la scena cambiata. Insospettito, chiese rinforzi e si vide arrivare il capoturno, Di Gioia Luigi, di anni 38. Costui si guardò intorno, poi si fermò all’inferriata. Non s’avvide che, trecento metri più in là, la canna di un fucile faceva capolino da un foro di una baracca in lamiera. Fu ferito al fianco da una scarica di pallettoni corazzati e s’afflosciò a terra. Su di lui il Terrone, colpito subito dopo alla testa, in due punti. Nella notte tra martedì e mercoledì.