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 2005  dicembre 09 Venerdì calendario

D’Alesio Ida, di anni 43. Torinese, madre affettuosa di quattro figli, curve generose, sguardo attonito e rassegnato, vivacchiava lavorando come domestica a ore nella sua città

D’Alesio Ida, di anni 43. Torinese, madre affettuosa di quattro figli, curve generose, sguardo attonito e rassegnato, vivacchiava lavorando come domestica a ore nella sua città. Sposata a un Primon Demetrio, di anni 49, figlio di immigrati veneti, precedenti penali per furto, ex elettricista all’Iveco, ex bidello, magri guadagni che spendeva per ubriacarsi nei bar di San Salvario. Lo aveva lasciato da circa un anno, stanca di sopportare continue minacce e ceffoni per una parola di troppo o una camicia stirata male. S’erano conosciuti 23 anni prima passeggiando nel Parco del Valentino, per via di un annuncio su un giornale messo dai genitori che volevano vederla maritata. Il Primon l’aveva amata, ma col tempo era diventato geloso fino all’ossessione. Il 17 ottobre del 2002 tentò di ucciderla con un coltello e lei lo denunciò procurandogli tre giorni in carcere. Per amore dei figli accettò d’incontrarlo un’ultima volta, ma finirono a discutere per i presunti tradimenti di lei. Quando il Primon lasciò la casa, la porta aperta alle sue spalle, la moglie era distesa sul letto, il corpo nudo trafitto da dieci coltellate, mortale quella al cuore. Lui confessò l’accaduto prima alla figlia Simona, di anni 16, poi alla volontaria della casa sociale San Vincenzo che da qualche tempo s’interessava alle sue vicende. Domenica 28 intorno alle 23, al settimo piano di una casa d’epoca in via Gropello 19, dietro la stazione di Porta Susa. Di Carlo Salvatore, di anni 39. Separato con un figlio, incensurato, parente di un ex affiliato al clan Stabile di Secondigliano, di recente aveva trovato lavoro come lavapiatti in un ristorante del centro, nella popolare zona di Porta Nolana, Napoli. Come d’abitudine, martedì mattina uscì di casa poco dopo le otto per andare a prendere la metropolitana e attraversò il Rione Piscìnola passando in quella via Piedimonte d’Alife da alcuni anni scenografia di finti inseguimenti e sparatorie del telefilm ”La squadra”. Quando fu nei pressi della fermata Chiaiano si trovò davanti due sicari che, con due colpi di pistola calibro 22, gli fecero balzare il cappellino sul ciglio della strada e il cervello a seguire. I passanti, ignari, giudicarono l’accaduto come una scena tv girata assai felicemente. Mances Humberto Mesenes, di anni 32. Peruviano, bel moro, occhi neri e sorriso dolce, lavori saltuari come buttafuori e una passione per le arti marziali. Viveva a Roma da sei anni dopo aver lasciato il padre a Lima per raggiungere la madre Rosalina, infermiera in una clinica privata di Monteverde. Piccoli guai con la giustizia per ricettazione e furto, sognava una vita tranquilla e frequentava il primo anno di un istituto professionale per imparare lo stesso mestiere della mamma. Un anno e mezzo fa aveva sposato una Fiorentino Antonietta, di anni 31, ingegnere informatico, e con lei abitava un appartamento in affitto all’Anagnina. La notte di Capodanno brindò con la moglie e una cinquantina di persone in un ristorante del centro. Uscendo s’offrì d’accompagnare in macchina una coppia d’amici e lasciò la Fiorentino a casa della Rosalina, poco distante, per ritornare a prenderla e continuare a festeggiare. Arrivato quasi a destinazione, qualcuno su un’utilitaria rossa gli ammaccò il paraurti anteriore. Forse ci fu una lite. Pochi minuti, e un ufficiale dell’aeronautica che passava di lì se lo trovò riverso a terra, rantolante, a un metro dalla sua Ford Focus metallizzata abbandonata sulla corsia preferenziale, lo sportello aperto, tracce di sangue all’interno. Humberto, occhiali rotti, lividi sul volto, un taglio sulla fronte e una ferita all’addome lasciata da 15 centimetri di lama, non ebbe il tempo d’arrivare in ospedale. A via Cernaia, fra le 3.40 e le 3.50 di giovedì.