9 dicembre 2005
Questione d’oriente Foglio dei fogli 18/08/2003 "La paura del terrorismo si è rovesciata di nuovo, ma non inaspettatamente, su Israele
Questione d’oriente Foglio dei fogli 18/08/2003 "La paura del terrorismo si è rovesciata di nuovo, ma non inaspettatamente, su Israele. Due diversi attentati, uno nei pressi di un supermercato della cittadina di Rosh Ha-Ayin, a circa 20 chilometri da Tel Aviv [...] e l’altro ad Ariel, il piu popoloso insediamento israeliano nei Territori, dove risiedono quasi 30 mila coloni, si sono conclusi con la morte dei due terroristi che si sono lasciati esplodere e di due civili israeliani [...] Secondo informazioni diffuse dai servizi di sicurezza, il primo attentato è stato rivendicato dalle Brigate dei martiri di al-Aqsa (braccio armato del Fatah di Arafat) mentre il secondo sarebbe opera di paramilitari legati ad Hamas" (Renzo Cianfanelli, ”Corriere della Sera” 13/8/2003). Quasi contemporaneamente: "Haviv Danon aveva 16 anni. Era un ragazzo allegro, uno studente modello.Viveva con la sua famiglia a Shlomi, una cittadina dell’alta Galilea, a ridosso del confine col Libano. Haviv è morto in una torrida mattinata, colpito al petto e alle braccia dalle schegge dei proiettili sparati contro la cittadina israeliana dall’artiglieria di Hezbollah (...) I proiettili dei miliziani del ”Partito di Dio” libanese hanno provocato anche cinque feriti, uno in condizioni molto gravi. Poche ore dopo è giunta la risposta di Israele: elicotteri da combattimento colpiscono postazioni di artiglieria di Hezbollah nei pressi di Tair Harfa, in sud Libano". Israele è furente con "Siria e Iran, quest’ultimo in quanto ispiratore, finanziatore e protettore dei guerriglieri. E ancor di più alla luce del fatto che lo Stato ebraico, nel rispetto della risoluzione dell’Onu 425, si è completamente ritirato nel maggio 2000 dalla parte che ancora occupava nel Libano meridionale, attestandosi su una linea di confine che ha avuto l’assenso delle stesse Nazioni Unite". Hezbollah sostiene, invece, che Israele occupa ancora le ”Fattorie di Sheeba”, che però facevano parte del territorio siriano assieme alle alture del Golan (Umberto De Giovannangeli, ”l’Unità” 11/8/2003). Raanan Gissin, portavoce e primo consigliere del premier israeliano Ariel Sharon: "Gli attentati di Tel Aviv e Ariel dimostrano drammaticamente ciò che da tempo denunciamo: la cosiddetta tregua è servita ai gruppi terroristi per riarmarsi, riorganizzare le fila per poi tornare a colpire con le loro azioni criminali dei civili inermi" (u.d.g., ”l’Unità” 13/8/2003). Cellule fuori controllo. "La dichiarazione della hudna non ha placato i ribelli palestinesi. Scontenti per la situazione sul terreno, infuriati per la mancata liberazione di molti prigionieri, a loro volta ostaggi di una politica di violenza, gli oltranzisti non hanno mai deposto le armi. Nel settore Jenin-Nablus le cellule delle Brigate dei martiri di al-Aqsa da oltre un anno sfuggono a qualsiasi controllo". Prima avevano Arafat e i suoi uomini come punto di riferimento, "adesso si nutrono dei consigli che giungono dall’estero. Per l’esattezza dal Libano" (Guido Olimpio, ”Corriere della Sera” 13/8/2003). L’influenza iraniana. "Teheran ha incaricato il vicecomandante dei Guardiani della rivoluzione, Baker Al Kader, e il capo della Forza Qods, Kassem Suleiman, di gestire la rete d’appoggio alle Brigate. Gli iraniani si servono del territorio libanese e del loro alleato locale, l’Hezbollah, per sostenere la lotta dei palestinesi" (Guido Olimpio). "Il ritorno dei kamikaze è una brutta notizia, ma con i fedayn suicidi, almeno per ora, non è andata in pezzi la ”carta stradale” (o road map) sulla quale Bush ha puntato tutto, in primo luogo la sua rielezione. Hamas si è affrettata a ”chiarire” che si tratta di una ”rappresaglia”, dopo il raid israeliano, a Nablus, di venerdì scorso. Sharon ha messo su il solito disco accusando l’Autorità palestinese di ”non voler far nulla contro il terrorismo”. ”Il processo di pace disegnato dalla road map non è finito”, ha affermato il segretario di Stato, Powell" (Igor Man, ”La Stampa” 13/8/2003). "Si ha l’impressione che ancorché per opposti motivi sia Israele che l’Autorità palestinese, anziché trattare veramente, preferiscano, per dirla in gergo, ”tirare a campare”, sospesi in un limbo precario, gravido di minacce, ma che tuttavia li esenta da una politica realistica fatalmente irta di (davvero) dolorose rinunce. Non lo ammetteranno mai, ma né Abu Mazen né Sharon intendono passare alla Storia come i liquidatori della ”causa”: quella sionista, quella palestinese [...] I grandi vecchi sono stanchi, lasciategli gestire l’ufficio stralcio della loro storia personale che ”per motivi anagrafici” dovrà concludersi in quest’alba tragica del Terzo Millennio" (Igor Man). "Una tregua d’armi, in specie una tregua tra israeliani e palestinesi, non può essere assoluta. Totalmente rispettata dall’una e dall’altra parte. Gli odii sono troppo profondi, e le armi sono sempre lì, ancora calde dell’ultimo sparo, perché ci si possa illudere che la tregua non venga prima o poi violata". Le tensioni accumulate in mezzo secolo sono il maggior ostacolo alla pace: la razionalità dell’aspirante martire "è ormai svanita, l’idea del sacrificio lo domina, le tregue non lo interessano. Sotto il letto nasconde la cintura esplosiva, e in mente non ha altro pensiero che quello d’usarla. E infatti è ben possibile che i due attentati di ieri non fossero stati decisi dai vertici, ma siano emersi dalla vocazione al martirio, dal delirio politico-religioso della truppa" (Sandro Viola, ”la Repubblica” 13/8/2003). "La capacità di successo del partito trasversale della guerra è sempre dipesa dall’accondiscendenza dei due popoli alle sue tesi: l’israeliano medio vuole la pace, ma non è disposto a rinunciare alle colonie ebriache nei Territori, né a una parte di Gerusalemme; il palestinese vuole liberarsi dell’occupazione israeliana, ma non si è liberato dell’illusione di ributtare prima o poi gli ebrei a mare" (Ugo Traballi, ”Il Sole-24 Ore” 13/8/2003) Uri Savir, negoziatore con Rabin a Oslo: "è l’intera ”road map” che è difettosa e dev’essere ridisegnata. A partire dal problema chiave degli insediamenti israeliani" (Renzo Cianfanelli, ”Corriere della Sera” 14/8/2003) Il busillis. Sondaggio di ”Haaretz”: l’80 per cento degli israeliani vuole il muro, anche se più della metà lo vuole a patto che violi i diritti dei palestinesi (l.c.,’la Repubblica” 11/8/2003). I palestinesi dopo la costruzione del muro disporranno di uno "stato gruviera": "Per passare da una città all’altra dovranno affrontare posti di blocco e scavarsi tunnel, mentre alcune centinaia di migliaia di abitanti della Cisgiordania saranno separati dai propri campi e dai propri mezzi di sostentamento: un invito neanche troppo velato all’emigrazione, altro che gli impossibili sogni sul diritto al ritorno di quei due terzi di palestinesi che furono cacciati nel 1948. All’apice del processo di pace di Oslo, in qualche modo, ai palestinesi sarebbe toccato l’80 per cento di quel 20 per cento di territorio del vecchio mandato britannico, conquistato da Israele nel 1967. Lo spazio lasciato ai palestinesi all’interno delle enclaves, circondate da ogni lato dal grande muro elettrificato, minato ed elettronizzato, corrisponde esattamente a quel 42 per cento di territorio per lo Stato palestinese di cui da parecchi anni parla Ariel Sharon" (Pietro Somaini,’Diplomatique’il Riformista” 15/7/2003). "B’Tselem, un centro israeliano che rileva le violazioni dei diritti umani nei Territori, stima che almeno 200 mila palestinesi verranno gravemente danneggiati (nella loro attività agricola, nelle comunicazioni col resto della Cisgiordania: dunque scuole, ospedali, etc) dalla costruzione del muro" (Sandro Viola). "Tutto è cominciato a Gilo. O meglio, l’idea che un Muro potesse funzionare da deterrente e da difesa è scaturita in questo moderno agglomerato urbano, punto di scontro e di frizione tra la Gerusalemme ebraica e le periferie palestinesi di Betlemme. Guai, intanto, a chiamare Gilo ”insediamento”, come dicono i palestinesi: gli israeliani lo considerano un normale sobborgo di Gerusalemme. Per anni, è stato un campo di battaglia: bersaglio dei kalashnikov palestinesi, con Tsahal che replicava a colpi di mortaio e affidandosi ai carri armati [...] Una volta, nemmeno tanto tempo fa, i pastori palestinesi lasciavano pascolare le loro greggi a pochi metri dai caseggiati israeliani. Le ruspe hanno cancellato i pascoli e lì è stata costruita la prima barriera di cemento: all’origine doveva soltanto proteggere gli abitanti di Gilo dagli spari dei palestinesi. Ma la sua efficacia lo ha trasformato nel modello, in miniatura, del grande Muro che spezza in due la Terra Santa" (Leonardo Coen, ”la Repubblica” 13/8/2003) "Quando minacciano gravi misure economiche nel caso in cui Israele non blocchi la costruzione della barriera tra la West Bank e il suo territorio, come ha fatto Colin Powell, gli Usa compiono un utile gesto di rafforzamento della leadership di Abu Mazen. Il primo ministro palestinese si batte su due temi politici estranei alla road map, inerenti invece alla sua immagine e alla sua popolarità: i prigionieri e il muro. L’Amministrazione lo sostiene spingendo Israele a compiacerlo, perché teme di perderlo nelle fauci degli estremisti". Ma "se gli Usa ascoltassero meglio le parole di Sharon eviterebbero di correre il rischio di spingere troppo ottenendo così l’effetto opposto". Certamente, "Sharon rallenterà la costruzione per non litigare con Bush, ma non ammetterà mai che la sicurezza passi in secondo piano. La trattativa sui Territori non avverrà finché la prima parte della road map non si cementerà sulla tregua fisica" (Fiamma Nirenstein, ”La Stampa” 11/8/2003).