Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2005  dicembre 09 Venerdì calendario

Angiolo Mazzoni, ingegnere promosso architetto futurista (in mancanza di meglio), Limes, dicembre 2003 [

Angiolo Mazzoni, ingegnere promosso architetto futurista (in mancanza di meglio), Limes, dicembre 2003 [...] A Latina hanno organizzato un convegno e una mostra per celebrare Angiolo Mazzoni, architetto futurista. Anzi, ingegnere (mostra e convegno sono stati difatti messi apposta in piedi dal locale Ordine degli ingegneri per rivendicarne la definitiva agnizione, contro la vulgata che lo vorrebbe architetto: «Era ingegnere - e che madonna! - pur sempre futurista». In realtà, come si sa, tra le due cose allora non c’era poi tanta differenza). Questo Angiolo Mazzoni del Grande (1894-1979) opera soprattutto a cavallo degli anni Trenta. Va prima a studio da Piacentini e poi passa alle dipendenze del Ministero delle Comunicazioni, che si occupava sia delle poste che dei trasporti. Progetta quindi un gran numero di stazioni ferroviare (Siena, Trento, Reggio Emilia, Reggio Calabria, Montecatini Terme e naturalmente Littoria) e uffici postali (Littoria, Sabaudia, Varese, Bergamo, Pistoia, Trento, Palermo, Ostia). Mazzoni progetta anche stazione Termini a Roma: sue sono tutte le fiancate, quelle con gli archi. La facciata no, quella - con la pensilina - la riprogetta Quaroni nel dopoguerra, la sua era un colonnato di stampo neoclassico-speeriano, piuttosto brutto. Ma suoi sono quei torracchioni cilindrici - i serbatoi dell’acqua - che si vedono arrivando con il treno, quelli con la scala ad elica che gli si srotola attorno, che non sembra salirci, ma scenderci, come se fossa stata posta dall’alto, dalla cima, e gli si fosse adagiata calando. Quelli sono splendidi. Li aveva già fatti - tali e quali - a Calambrone, tra Livorno e Pisa, vicino Tirrenia, per la colonia a mare dei figli di ferrovieri e dipendenti postali. A dire il vero un altro convegno e un’altra mostra - di ben altre dimensioni e rilevanza anche nazionale - c’erano già stati a Firenze un anno o due addietro. Questo processo di beatificazione di Mazzoni era peraltro cominciato già prima, ed era naturalmente cominciato a sinistra - sempre noi, manco fossimo interisti - anzi, lo cominciarono proprio i fratelli Veronesi (non mi ricordo se prima Sandro, lo scrittore, o Giovanni, il regista) con un documentario televisivo sulla centrale termica e la cabina di controllo progettate per la stazione di Firenze: «è la fine del mondo». Non nego che sia bella, a vedersi da lontano. Pare sia il suo capolavoro (alcuni dicono le poste di Sabaudia). Ma dopo questo sdoganamento a sinistra - e un po’ di colpa ce l’ha pure Giorgio Muratore - adesso a destra si sono aperte le cateratte: è un’inondazione, non se ne può più, ogni trombone che s’alza dice: «Mazzoni!», e poi subito: «Il futurismo!». Ma quale futurismo. Quello non sapeva nemmeno dove stava di casa. Che cià da spartire Mazzoni con il futurismo? Le corna loro. Già Pagano - che è il nume tutelare del razionalismo doc italiano - quando Mazzoni nel ’33 si iscrive alla consorteria futurista lo bolla di mero opportunismo. Ma a Latina non c’è niente da fare: è futurista. E c’è un amico mio - amico per modo di dire, è amico quando gli pare a lui, ed è pure laziale - che si straccia le vesti e si mette a strillare dentro il bar: «L’ha detto Marinetti che era futurista, Mo’ di futurismo capisci più tu di Marinetti?». Marinetti era un altro trombone. Gli dà la patente nel 1932: «Futurista». Quello prima non ne aveva mai sentito parlare. Tutte le cose che fa sono di mattoni. Le murature in pietrame misto con ricorsi di mattoni, murature alla romana, come si dice in gergo, murature autoportanti. Usa il cemento armato solo quando non ne può fare a meno, e solo per strutture orizzontali, sottoposte a sforzi di trazione, plessofiessione. In quelle verticali - a compressione - se lo scorda proprio. Dove sta il nuovo? Più tradizione di quello. Dove sta il futuro? E poi tutti i paramenti in mattoni, a cortina. Dice: «Ma le pensiline di Littoria?» (quelle della stazione, con il calcestruzzo a faccia vista). E che vuoi che siano, quei pochi metri quadri, in confronto alle sterminate superfici di mattoni? E i tetti? Quello non fa un terrazzo. Solo tetti a capriata, con le tegole di coccio come si facevano duemila anni fa. E tu mi vieni a parlare di futurismo? A Calambrone fa due propilei d’accesso a pianta circolare, con le colonne di marmo intorno. Hai capito? Il futurismo diceva che bisognava spaccare la Nike di Samotracia, la Venere di Milo, buttare a mare tutta l’antichità, tutta la cultura classica, e quello a Calambrone rifà pari pari il tempio di Ercole al Velabro: II sec. a.C. Lui lo rifà a Calambrone. Tale e quale. Il futurista. Dice: «Vabbe’, e Marinetti?». E che ti posso fare: Marinetti era un coglione. Almeno nel ’32. Nel 1909 era stato un altro paio di maniche. Dice: «Tu non puoi fare ste distinzioni». E chi te l’ha detto? Io faccio tutte le distinzioni che mi pare. Mica mi puoi venire a dire che quel povero ciccione che va da Biscardi il venerdì sera è lo stesso Diego Armando Maradona che ti nascondeva la palla. Sono due cose diverse. Sennò giocherebbe ancora. Quello è passato, questo è un’altra cosa. Come Cicchitto, fai conto, che dice d’essere ancora socialista. E così Marinetti. Nel 1909 - con la pubblicazione del ”Manifesto” a Parigi sul ”Figaro” - aveva inventato il futurismo, e con quello aveva rivoluzionato l’arte mondiale, è un dato di fatto. Ma la potenza esplosiva - la deflagrazione - stava proprio tutta nel furore iconoclastico, nella «contestazione globale del passato». Il suo ruolo d’avanguardia, di rottura e di apertura di nuovi lidi si gioca tutto fino al 1914, poi è la Guerra, e arrivederci e grazie. Tutta quella generazione di intellettuali che dal ’9 al ’14 - appresso a Marinetti - non fa che parlare di guerra (sia intellettuale che guerra guerreggiata), poi alla guerra ci va per davvero. Un conto è il sangue dalle vene e un conto il rosso sulle tele. Dalla guerra tornano un po’ diversi. E comunque è un altro mondo, hanno degli anni in più, arrivano altri giovani, altre idee. è finita. L’energia propulsiva della Weltanschaung futuristica - sia in termini etici che soprattutto estetici - s’è bella che esaurita. Come è giusto che sia: mica puoi essere avanguardia a vita, puoi essere al massimo avanguardia per una fase, poi è destino che arrivi qualcuno a sopravanzarti con nuove idee ed energie: «Fammi largo che sei superato». Dice: «Ma guarda che ti sbagli: dopo il primo futurismo ce n’è un secondo, sta scritto sopra i manuali, anzi, ce n’è addirittura un terzo, il futurismo parte dal 1909 ma arriva fino al 1944, ci hanno fatto pure una grande mostra a Roma, al palazzo delle Esposizioni». Possono fare tutte le mostre che vogliono, e sopra i manuali ci possono scrivere quello che gli pare. Che me ne frega a me? Me cojoni, diceva nonno Evariste. Io - sia chiaro - non sono uno storico dell’arte, e nemmeno lo voglio diventare, non ci capisco niente, soprattutto di quella contemporanea, che Dio ne scampi e liberi. Non so nemmeno bene che differenza passi tra impressionismo ed espressionismo. Certe volte mi confondo. Ma una bufala la so riconoscere, altro che secondo e terzo futurismo. Dice: «Ma l’aeropittura» (che Balla e i suoi amici si inventano nel 1929, da cui appunto gli storici dell’arte dedurrebbero un secondo fututismo). Ora si dà il caso che l’aeropittura non sia affatto - come pur prometterebbe il nome - una pittura fatta per aria, che allora sarebbe sì futurista, ancorché difficile a vedersi. è solo una pittura di aerei o di vedute dall’aereo. Non cambia niente. Anzi, rispetto alle scomposizioni di colore e alle dissezioni dell’immagine e dell’atto del 1909-1914, queste sono proprio un passo indietro: la ricerca della ricomposizione, il rifiuto della rottura. è una pittura reazionaria, altroché avanguardista, quando oramai t’è già scappato davanti un Picasso. Stai bene a rincorrerlo. E poi quando mai è stato l’oggetto a denominare la tèkne e l’atto estetico? Dice: «Ma quelli l’hanno detto loro» (nel Manifesto dell’aeropittura del 1929). E che vuol dire? Sono sparate. Come quelle di Bossi. Parole in libertà, appunto, poi se il gonzo abbocca sono affari suoi. L’aeropittura perché ci stanno gli aerei? Ma come ti salta in mente? Allora quella di Simone Martini come si deve chiamare: cavallopittura? Dice: «Ma il polimaterico?». A te e l’onagrocritica (il cui etimo non è però Onan - il peccato di Onan - a cui pure afferisce parecchio, bensì onagro, l’asino primigenio, l’asino selvatico; tanto per restare in ambito equino). Allora era futurista pure Fidia. Nella storia dell’arte s’è sempre fatto il polimaterico. La gente ha lavorato con quello che aveva. Che vuol dire che tu hai usato l’eternit e l’accidente che ti spacca? Il polimaterico c’è sempre stato. Nella statua di Zeus Fidia ci mette tutto: legno, bronzo, avorio, oro, argento, cuoio, tutto quello che ti pare (e ci va pure in galera, perché gli ateniesi si accorgono che aveva fregato nelle leghe: ci aggiungeva lo stagno, e si portava a casa l’argento. Poi in galera ci muore, e per un pelo non ci muore pure Pericle, che era il suo sponsor - e secondo gli ateniesi era d’accordo con lui, spartivano a metà, altro che Telekom Serbia, se non si sbriga a morire di peste sbattono dentro pure Pericle). Ma anche la Madonna di Pompei, se è per questo, è polimaterica: c’è la tela, c’è il colore e c’è la corona d’oro. Più polimaterica di così. Ci volevano Prampolini e Marinetti? Comunque non gli basta: per loro c’è pure un «terzo futurismo» (che è come dire che se io oggi rifondo un circolo di garibaldini divento a tutti gli effetti «uno dei mille», tale e quale a uno che è sbarcato a Marsala) e parte dal 1932 appunto con Mazzoni. Il quale però fino a quel giorno nemmeno se l’era mai sognato di notte, mai avuto a che fare. Era un semplice impiegato, che faceva progetti a un tanto al mese: cortine di mattoni, quelle sì che se le sognava anche la notte. Nel 1932 fondano Littoria e ci debbono fare quindi la stazione ferroviaria e l’ufficio postale. I progetti li fa lui, l’impiegato, sempre a cortina di mattoni e tetti a tegole. Mette pure la zanzariere, perché sempre di ex paludi si tratta e le zanzare ti si mangiano ancora vivo. Nell’ufficio postale le fa belle: enormi, gigantesche, a fascioni cilindrici, che partono da terra e arrivano fin sopra il tetto. (Sia chiaro che la stazione è bella, e pure l’ufficio postale di Littoria. Sono belli, non si discute, come è tutta bella a vedersi l’architettura di Mazzoni. Qui il punto non è che non è bella, è che non è futurista. E, in subordine, che è bella solo a vedersi.) Nel 1932, comunque, insieme al Duce a inaugurare Littoria viene pure Marinetti, vede st’edificio delle poste, con sti fascioni cilindrici che salgono al cielo - «Ma so’ solo zanzariere», pare gli abbia detto il Duce - e gli torna subito in mente Sant’Elia: «Finalmente ho trovato l’architetto futurista», e pare si sia davvero messo a saltellare per la piazza. A lui gli mancava. L’architetto gli mancava. Nella schola futurista c’era stato tutto, artisti e saltimbanchi vari, ma d’arte vera se n’era vista poca. La sua oggettiva importanza è da ascriversi alla storia della cultura, a quella del costume. è in questo ambito che il futurismo gioca anche a livello internazionale un ruolo rivoluzionario, in quello della Kulturgeschichte che - Croce insegna - è cosa un po’ diversa dalla Kunstgeschichte, la storia dell’arte. Comunque, bene o male, nelle arti pittoriche qualcosa di notevole lo avevano pure prodotto. In poesia e letteratura non un granché: sì, parecchie pagine, pure troppe, ma niente - a eccezione di Majakovskij - da consegnare alla Storia. Comunque in letteratura ed arti figurative avevano prodotto. In architettura niente. Quella gli mancava. Dice: «E Sant’Elia?». Povero Sant’Elia. Quello è morto in guerra. Aveva 28 anni. Poco più di un ragazzino. Andato al macello. Loro hanno pure continuato a dire: «Sant’Elia! Sant’Elia! L’architettura futurista!» ma quello, appunto, era solo un ragazzo. Aveva studiato da architetto, ma ancora non aveva costruito niente: Antonio Sant’Elia muore in combattimento il 18 ottobre del 1916 dopo avere avuto la possibilità di realizzare solo una villettina piccina piccina a Corno - la villa Elisi - e nemmeno in stile futurista, ma in un certo kitsch subalpino che sarebbe piaciuto a Bossi (stile quasi milano-tirolese). Dice: «Ma non è possibile». è possibile. Sant’Elia lascia un infinito numero di disegni, una messe prodigiosa di idee e intuizioni, disegna edifici, città, stazioni aeree, grattacieli, ascensori, fabbriche, strade sopraelevate, città del futuro. Ma solo disegni. Neanche una realizzazione concreta. E soprattutto solo disegni di facciate e prospetti, prospettive, ma quasi nessunissima pianta. Non lascia una pianta, una sezione, una planimetria. Figuriamoci un calcolo o un computo metrico-estimativo. E invece è proprio questo lo specifico dell’architettura. C’è difatti pure una qualche differenza tra architettura e pittura, tra architettura e scenografia, e questa differenza è data dalla pianta, dai percorsi che poi la gente deve fare per davvero. La pittura e la scenografia sono «rappresentazione», l’architettura è «vita», vita vera, in carne e ossa, con la gente che cammina e sbatte addosso ai muri, muri veri, calce e mattone, non pezzi di carta, ed è la pianta lo strumento indispensabile per passare dalla carta al mattone, la conditio sine qua non. Senza pianta hai solo un quadro - bello quanto ti pare - ma solo un quadro, non un progetto di architettura. Una pittura. Dice: «Vabbe’, ma se campava». Ah certo, era un genio, ma non è campato. è andato volontario, e l’architettura futurista s’è fermata là, in un giorno di ottobre del 1916, tra «le rose che non colsi, tra le cose che potevano essere e non sono state». Marinetti non era poi più riuscito a trovare un architetto che ripigliasse in mano la sua bandiera. Tutti razionalisti. Futurista nessuno. Gli era rimasta la casella vuota. Pittura: a posto. Scrittura: a posto. Architettura: niente. Erano sedici anni che si portava avanti sto cruccio. Intanto il mondo era cambiato, il futurismo - in realtà - bello che superato, ma lui come se niente fosse, più vivo che prìa, col cruccio però di quella casella da riempire. Naturalmente era cambiato pure lui. Adesso - il 18 dicembre 1932, all’inaugurazione di Littoria - mica era più il Marinetti di Parigi del 1909, quello che saltava sopra i tavoli mangiandosi pure i vetri. Adesso era un vecchietto con la panza, che sculettava in camicia nera e giacca d’orbace, Accademico d’Italia, col cappello con l’aquila, col cinturone, a amministrare il suo gruppo di potere. Una biscardata appunto, che vede st’edificio delle poste, ste zanzariere, sti fascioni, e dice: «T’ho trovato! Sei futurista!», credendosi ancora di stare in mezzo al San Paolo. Un assist per Careca. E quell’altro scatta sull’attenti e tira in porta: «Futurista? Di più! Dimme dove devo firmà!». Goal. Capirai, era impiegato, nessuno lo conosceva, tutti gli altri erano architetti di grido, arriva questo e gli dice: «Ti faccio famoso, da domani stai pure a Parigi», gli rispondeva di no? «Sì Maestro, lascio tutto e vengo con te». Ed è così che nasce il terzo futurismo, come lo chiamano loro sopra i manuali: nel 1932, sotto lo sponsor dell’Accademia d’Italia, il fascismo-regime, manco il fascismo-movimento. Poi se tu mi vuoi venire a dire che c’è perfetta identità tra consorterie ed estetica, che basta un timbro o un’etichetta per insufflare le Weltanschaung, allora è un altro paio di maniche. Ma al paese mio i timbri e le etichette sono roba buona solo per i mercanti d’arte, che almeno ci fanno la cresta sopra. L’Accademia d’Italia? Col futurismo iconoclasta che era contro tutte le accademie? Pare davvero una vendita televisiva. Wanna Marchi. Dice: «Vabbe’, ma questi almeno lo sapevano che si stavano pigliando per il culo?». Non lo so. Di sicuro hanno pigliato per il culo gli altri. Tanto il mondo è pieno di gonzi. E l’anno dopo, nel 1933, Marinetti gli fa proprio pubblicare un Manifesto futurista dell’architettura aerea, e poi gli fa dirigere una rivista, ”Artecrazia”. è stato la fortuna sua. Anche se continuava a costruire in muratura mista, cortina di mattoni e tetti con le tegole, e poi a Termini col travertino e gli archi (non parliamo della facciata). Però era futurista. [...] Antonio Pennacchi