Il Messaggero 05/12/2005, pag.15 Roberto Gervaso, 5 dicembre 2005
Tacito. Il Messaggero 05/12/2005. Caro Signor Gervaso, scrive sempre che, fra i suoi autori preferiti, quelli che tiene sul comodino e, quando viaggia, porta con sé ci sono lo storico Tacito e il filosofo stoico Seneca
Tacito. Il Messaggero 05/12/2005. Caro Signor Gervaso, scrive sempre che, fra i suoi autori preferiti, quelli che tiene sul comodino e, quando viaggia, porta con sé ci sono lo storico Tacito e il filosofo stoico Seneca. Di Seneca le è capitato spesso, in questa rubrica, di parlare, mentre a Tacito ha fatto solo fuggevoli, per quanto frequenti, accenni. Mi farebbe molto piacere se gli dedicasse un breve profilo. Augusto Ricaldone - Torino Fa piacere a lei e ne fa altrettanto a me. Tacito è il mio storico preferito e i suoi Annali mi tengono compagnia da tempo immemorabile, dai banchi del liceo. Se non sappiamo con esattezza quando nacque (nel 54 d.C. o nel 55?), ignoriamo anche il luogo dove vide la luce. Secondo alcuni, nella Gallia belgica; secondo altri, in quella narbonese; secondo altri ancora (ed è la collocazione più attendibile) a Terni. Purtroppo, lo storico romano parla poco di sé e, quando ne parla, lo fa in modo sommario e frettoloso. Pensa, non a torto, che ai posteri interessi solo la sua opera: gli Annali, le Storie, la Vita del suocero Agricola, il saggio etnografico sulla Germania. Come, e dove, abbia trovato il tempo di votarsi a Clio, è un mistero, non meno fitto di quello che avvolge la prodigiosa attività di Seneca, mentore e poi vittima di Nerone. un mistero perché Tacito fu tribuno militare, questore, tribuno della plebe, pretore, proconsole in Asia. Nostalgico dell’ancien régime repubblicano, liquidato dalle guerre civili e archiviato da Augusto, si adeguò, suo malgrado, ai tempi. Non amava la monarchia, ma realisticamente l’accettò. Il passato era passato: meglio metterci una pietra sopra e guardare al presente, cercando di mitigarne gli abusi. Impresa quasi disperata ché, se il principe tendeva all’assolutismo o al dispotismo, la Curia, il Senato, era, ormai, una larva. I padri coscritti, salvo nobilissime eccezioni, erano un branco di pecore, una massa di codardi, esclusivamente e grettamente solleciti del loro ”particolare”. Devoti per opportunismo alla corona, detestavano chi la cingeva. Trono e assemblea si guardavano in cagnesco e la reciproca ostilità era insanabile. Tacito non si faceva illusioni. Si limitava, qua e là, a idealizzare lo Stato degli avi, evocandone le gesta e cercando di cogliere gli aspetti benefici dell’aborrita monarchia. Se Ottaviano e i successori avevano confiscato la libertà, avevano anche eliminato l’anarchia. Negli Annali scrive: «Deposto ogni sentimento di uguaglianza, tutti erano attenti agli ordini del principe». La più nera delle bestie nere dello storico è Nerone. Se i primi atti di governo del giovane principe, ispiratigli da Seneca, furono saggi; se dal 54, quando l’imperatore diciassettenne diventò imperatore, al 59, quando ordinò l’uccisione della madre Agrippina, che stava tramando l’assassinio del figlio, regnò con misura, dopo, si abbandonò alle più efferate bizzarrie. Nessuno riuscì a fermarlo. Né Seneca né Burro, l’altro suo consigliere, che tentarono invano di porre un argine ai suoi eccessi criminali. Splendide le pagine tacitiane sulla fine di Seneca che, per ordine di Nerone, si tagliò le vene. Scrive lo storico latino con implacabile concisione: «Poiché il sangue stentava a uscire e non giungeva la morte, il filosofo si rivolse a Stazio Anneo, suo antico e fedele amico ed esperto di medicina, perché gli somministrasse un veleno già preparato e con il quale in Atene si uccidono i condannati dallo Stato. L’ottenne e lo bevve, ma il micidiale liquore non fece effetto. Ormai, il filosofo era tutto freddo, col corpo insensibile al potere del veleno. Fu allora immerso in un bagno di acqua molto calda; ne spruzzò appena gli schiavi che erano vicino a lui e disse di offrire quell’acqua devotamente a Giove Liberatore. Portato, poi, in un locale surriscaldato, fu soffocato dal vapore». Commiato degno di uno stoico che non sempre razzolò come predicò. Congedo superbo di chi aveva conosciuto l’esilio e il riscatto, la fortuna e la disgrazia, e quest’ultima aveva trattato con disprezzo né recriminando né rimpiangendo. Un esempio da imitare e che Tacito implicitamente addita ai superstiti avversari della tirannia. Quando tutto è perduto, bisogna saper sfidare la falce di Atropo, rinunciare alla vita amputata della perdita della libertà. Negli Annali che il caso non ha disperso (i primi quattro libri, parte del quinto e del sesto, la metà dell’undicesimo e del sedicesimo) questo ideale è sempre presente, o nel testo o fra le righe. Intriso di pessimismo è il leitmotiv di una rievocazione concepita ”sine ira et studio”, ”senza rancore e senza simpatia”. Ma lo storico che vuol essere imparziale è, in realtà, parzialissimo. Non gli basta esporre i fatti: li commenta con una foga più da polemista che da annalista. Il passato è costantemente sul banco degli imputati, oggetto di requisitorie feroci e sentenze spietate. Nessuno si salva. O solo quei valori che la perfidia dei tempi e le beffe del destino hanno mortificato e ridotto ad anacronistiche e patetiche reliquie. Roberto Gervaso