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 2005  dicembre 09 Venerdì calendario

Dotto Mariuccia, di anni 47. Sartina in un piccolo laboratorio di Mondovì, Cuneo, abbandonata dal marito un anno fa

Dotto Mariuccia, di anni 47. Sartina in un piccolo laboratorio di Mondovì, Cuneo, abbandonata dal marito un anno fa. A inizio estate s’andò a svagare in una discoteca di Frabosa Soprana e lì, tra disco-revival e liscio, ebbe a conoscere Tacchini Bruno, di anni 34, nativo di Sanremo ma da sempre in Piemonte, operaio metalmeccanico con passato da parrucchiere, separato da 14 mesi, una figlia di due anni. Cominciarono quasi subito a far l’amore. Lui l’andava a prendere al lavoro, la portava in palestra, aspettava che finisse e la riaccompagnava a casa. La riempiva di regalini. Talvolta s’appostava sotto casa, oppure organizzava blitz notturni per controllare che fosse sola. Così fino a 20 giorni fa, quando la Dotto comunicò che la faccenda non l’interessava più. Lui, offeso, le squarciò le gomme dell’auto. Poi chiese scusa. Alle 7 e 40 di martedì l’aspettò fuori casa, nascosto dietro un angolo del muro accanto all’ingresso, e l’uccise sul vialetto, con trenta coltellate, le prime alla schiena. A ispirarlo fu il defunto padre Domenico. Costui, operaio in una ferriera, alle 7 e 40 del 9 giugno 1986, giorno in cui il figlio compiva 18 anni, s’era appostato dietro la porta di casa e aveva ucciso con 17 coltellate, le prime alla schiena, la moglie Daziano Paolina, 47 anni come la Dotto, pure lei sarta, pure lei rea d’aver voluto la fine della loro relazione. Unica differenza: il genitore poco dopo si svenò e morì dispiaciuto; lui salì sulla propria Y10 e se ne andò a Imperia. Guerini Massimo, di anni 32, biondo, piccolo, atletico, pallido. Bresciano della Valtrompia, si era trasferito a Torino per fare il carabiniere, nome in codice Max, e qui aveva conosciuto la futura moglie, Giorgia. Da mesi era sulle tracce di una banda di rapinatori. Alle 5 di lunedì scorso partì dalla caserma con altri sette colleghi. Doveva verificare se, come segnalato da un informatore, fosse in preparazione una rapina a Ceresole (Cuneo). Si appostò con una Clio e un ufficiale sulla strada principale del paese. Qualche minuto dopo una Alfa 156 verde e una Volvo amaranto presero a fare la spola assai sospetta tra l’ufficio postale e la banca. Il Guerini scoprì che la seconda macchina era rubata e volle fermarla. I due balordi a bordo dell’auto riuscirono però a schivare il blocco. Partì l’inseguimento, con annessa sparatoria. Le macchine presto fuori uso, banditi e carabinieri proseguirono a piedi. A un certo punto una delle pallottole s’andò a conficcare nella testa del Guerini, che subito s’affflosciò. A spararla, con una magnum cromata 357, era stato Scalitti Gianmarco, di anni 50, noto malvivente del clan dei catanesi, condannato a 30 anni per aver ucciso un gendarme a Bruxelles, da 13 mesi in libertà vigilata. I carabinieri gli spararono subito dopo, per tre volte (due al petto, una all’ascella). Il complice ch’era in auto con lo Scalitti, Trompino Santino, di anni 30, nomade sinto, esperto di guida e furti, scese impugnando una 38 special, poi cambiò idea e se ne tornò in auto. Un terzo, ch’era a bordo della Alfa 156, Usida Domenico, di anni 35, odontotecnico, si consegnò nel pomeriggio. Alle 9 e 40 di lunedì scorso a Ceresole, paese di 2500 anime a pochi chilometri da Alba (Cuneo). Mercadante Maria Rosaria, di anni 24. Da quattro lavorava alla reception dell’hotel Theotokos di Viggiano (Potenza) e aveva già deciso che si sarebbe sposata col fidanzato a ottobre. Tempo fa s’invaghì di lei un vicino, Votta Salvatore, di anni 37, precedenti per furto e ricettazione. Per nulla ricambiato, prese l’abitudine ad appostarsi sotto casa per farle complimenti volgari, poi passò a pedinarla, per imparare tutti i suoi orari. Alle 6 e 50 di lunedì scorso, lei appena uscita per cominciare il turno all’albergo, le puntò un coltello alla gola, la costrinse a entrare nella sua Fiat 500 e la guidò fino a un casolare, in campagna. Qui tentò di possederla, ma stizzito perché lei non gli cedeva nemmeno sotto minaccia, finì per strangolarla. Poi le strinse una cinghia intorno al collo e l’appese a una staffa, nella legnaia. Non s’avvide che i piedi del cadavere toccavano terra, rendendo poco verosimile l’inscenato suicidio. La polizia che l’andò ad arrestare un’ora dopo lo trovò che scherzava nella piazza del paese.