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 2005  dicembre 07 Mercoledì calendario

Ferrua Carlo, di anni 55. Single, mondano e colto, dirigeva un’azienda di informatica e telemarketing a Milano

Ferrua Carlo, di anni 55. Single, mondano e colto, dirigeva un’azienda di informatica e telemarketing a Milano. Sovente in giro con la sua Jaguar, amava anche viaggiare, sua meta prediletta Cuba. Tempo fa, vagando per il nord in cerca di compagnia, incontrò a Torino Neagu Marion, di 21 anni, rumeno di Bacau, irregolare in Italia e già colpito da ordine di espulsione, domicilio in una casa abbandonata, sopravvivenza garantita da furti e prostituzione. Ebbero un paio d’incontri. Il 18 novembre il Ferrua lo invitò a Milano per una serata. Presero un aperitivo, insieme con un trentenne. Andarono soli a mangiare una pizza. Finita la cena, si chiusero in casa. Qui il Neagu legò le mani del Ferrua con una cravatta, i piedi con il filo elettrico di una prolunga. Gli diede un pugno in un occhio e gli fracassò la nuca con una pesante bottiglia di grappa champagne. Gettò i vetri nel bidet, poi radunò il televisore al plasma, un ciondolo prezioso, un palmare, un computer portatile e fuggì via. Tra mezzanotte e l’una del 19 novembre, nel soggiorno al sesto piano di un elegante palazzo in piazza Mentana, nella zona della vecchia Milano alle spalle di via Torino. Giraldi Bruno, di anni 54. Da 20 guidava il taxi numero 82 a Trieste. Punto di riferimento per i colleghi, tranquillo, ragionevole, faceva il turno di notte. Durante la giornata lasciava auto e mestiere al figlio Guido, di anni 27. Alle 4 di lunedì scorso stazionava sonnecchiando nel parcheggio di via Gallina, pochi metri dalla centrale piazza Goldoni, quando ricevette una chiamata dal centralino. Partì subito, diretto in periferia. Un collega lo vide transitare col cliente a bordo per il rione Valmaura, nei pressi dello stadio Nereo Rocco. Nei successivi 50 minuti qualcuno l’ammazzò con un proiettile alla nuca. Fu ritrovato alle 5, riverso nel sangue, accanto al canale navigabile di Zaule, nell’area della zona industriale. Nello stesso momento i vigili del fuoco ricevettero una chiamata per una Citröen Xantia che andava a fuoco: spensero l’incendio e solo dopo scoprirono ch’era il taxi del Giraldi. Gli schiumogeni usati contro le fiamme resero pressoché impossibile rilevare impronte nell’auto. Manfredi Luisa, di anni 14. Figlia maggiore di Boe Matteo, di anni 45, ex primula rossa del banditismo sardo, era nata in Francia dopo che il padre era fuggito su un gommone dal carcere dell’Asinara e prima che fosse condannato a 20 anni per il rapimento (con taglio dell’orecchio) di Farouk Kassam. In molto somigliante alla madre, Manfredi Laura, di anni 43, lavoratrice socialmente utile dalla quale aveva preso il cognome, aveva un’aria più adulta della sua età. Frequentava il primo anno di liceo scientifico ”Fermi” di Nuoro e viveva a Rizzeddu, periferia di Lula, paese noto anche per la passata e decennale impossibilità a scovare un candidato sindaco. Poco prima delle 19 di martedì, sola in casa insieme con la sorella Marianna di anni 12, si apprestava ad uscire per la lezione di danza folk che frequentava da tempo quando fu attratta sul balcone. Appena arrivò alla ringhiera fu colpita alla tempia destra da uno di nove proiettili sparati da un fucile distante meno di dieci metri. Cadde accanto alla finestra, la sorella pensò fosse scivolata. Il Boe, rinchiuso nel carcere di Spoleto, tentò invano di partecipare al funerale. La madre rifiutò il lutto cittadino decretato dal sindaco. La Manfredi fu seppellita nel tardo pomeriggio di giovedì, sotto pioggia battente. Trovatello Laura, di anni 37. L’altra sera come al solito aprì la porta al marito camionista che tornava dal lavoro, Romeo Filippo, di anni 42. Costui, scuro in volto, appena entrato si precipitò in camera, prese un fucile e le sparò, facendola piombare sul letto matrimoniale. Entrò poi nella stanza di Romeo Rossella, di anni 16, unica dei tre figli a essere rimasta a casa: l’uccise con più proiettili, mentre dormiva. Indi infilò la porta e scese per le ripide viuzze di basolato lavico del paese, sempre continuando a sparare e ricaricare il fucile: centrò lampioni, automobili in sosta, porte sprangate, la vetrata del bar (mancò di poco il proprietario). Quando si vide venir incontro i carabinieri tornò precipitosamente fin dentro casa e si sparò. Ma i pallini gli maciullarono la mascella e ferirono l’addome senza ucciderlo. Nella serata del 18 novembre a Vena, cento abitanti quasi tutti parenti vicino a Giarre (Catania).